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Autore: sweetPotterina    28/11/2015    1 recensioni
“Voglio risparmiarti dall’oscurità”.
Avevano un muto accordo.
La regola? Non parlarsi.
Lo scopo? Qualcuno, sapendo, avrebbe detto tenersi compagnia.
Sembrava meno lacerante il dolore quando si era in due.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Harry Potter, Lavanda Brown, Ron Weasley, Severus Piton | Coppie: Draco/Hermione, Lavanda/Ron, Ron/Hermione
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VI libro alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ombra costante'
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CAPITOLO X
OMBRE PRIGIONIERE

 

La paura può farti prigioniero.
La speranza può renderti libero.
(Le ali della libertà)



Gennaio 1997
Rientro ad Hogwarts.


Aveva passato tutte le vacanze natalizie a casa con i suoi genitori. Andare alla Tana e stare a stretto contatto con lui sarebbe stato troppo imbarazzante.
Sperava che al suo rientro a Hogwarts qualcosa sarebbe cambiato, qualcuno sarebbe stato diverso.
E, invece, si accorse presto di non essere stata accontentata quando la realtà le si presentò di fronte agli occhi più forte di come l’aveva lasciata.
Con quella voce stridula, Lav Lav stava regalando una collana, a parer suo ridicola, al suo Won Won, prima di saltargli addosso come un koala sotto l’effetto dell’Elisir dell’Euforia.
A Hermione salì la nausea.
-Scusami, devo andare a vomitare- si accomiatò da Harry, che in quel momento gli stava a fianco.
Camminò svelta, celando la corsa che i suoi piedi bramavano di intraprendere per mettere sempre più distanza tra lei e la causa del suo cuore ancora infranto.
Qualcuno le aveva detto che il tempo guarisce tutte le ferite, eppure le sue le sembravano troppo profonde per essere rimarginate.
Trovò l’aula di Trasfigurazione buia e vi s’inoltrò all’interno.
Avanzò tra i banchi, con la vista appannata dalle lacrime e dal buio pesto che vigeva nella stanza. Ma non accese le candele né si fece aiutare dalla sua amata bacchetta con un semplice Lumos.
Il buio andava bene, il buio riusciva a celare tante cose.
Brancolò a tentoni, singhiozzando e sbattendo più volte le ginocchia contro i banchi e le sedie che non riusciva a vedere. Alla fine, stanca, si lasciò cadere su una sedia e poggiò le braccia conserte sul banco e su di esse la massa riccioluta dei suoi capelli.
Perché le faceva ancora male? Perché non smetteva di soffrire?
Pianse e sfogò la rabbia, la delusione, l’amarezza. Finché non rimase il vuoto.
Passarono minuti che le parvero ore, fino a quando sentì un soffio d’aria sfiorarle le braccia, portandola ad alzare di scatto la testa, i ricci bagnati appiccicati sul viso. Non vide nulla, se non uno spiraglio di luce alle sue spalle entrare dalla porta e un’ombra attraversarlo, prima di far ricadere la stanza nuovamente nel buio più totale.
Fu abbastanza per riconoscerlo.
Chissà perché, ogni qual volta si ritrovava a piangere fuori le calde coperte del suo letto, lui era presente, le era vicino.
Non volontariamente, certo, ma per misteriosi casi di coincidenza.
Aveva pensato spesso a lui, in quei giorni lontani da scuola: aveva ripensato ai loro incontri, ai loro battibecchi, a suoi occhi.
Gli stessi occhi che, dopo ore di inutili pianti, gli avevano rimandato la superficie riflettente del bagno di casa sua, quando si era specchiata poco prima di scendere in salotto dai suoi genitori per la cena della vigilia.
Aveva riletto il loro libro nelle notti più fredde, fino ad impararne interi paragrafi a memoria.
Si era svegliata alcune mattine stringendo quel dono sul petto, rivivendo ogni singola volta quel momento in cui invece era stata lei circondata dalle sue braccia.
Faticava ad ammetterlo, ma doveva molto a quel borioso ragazzo: le volte in cui erano insieme, erano anche le uniche volte in cui non pensava a loro.
Durante i loro primi incontri, litigare con lui e trovare dei modi per ripagare le sue parole di scherno, erano stati una distrazione quasi piacevole.
E anche quando successivamente tra loro era sceso il silenzio, come una sorta di rispettabile tregua di cui nessuno conosceva l’inizio e la fine, Hermione aveva lasciato che la sua mente si concentrasse sempre e ancora su di lui: sul suo petto che faceva su e giù a ritmo del suo respiro, sul flettere delle sue dita quando si stringevano in un pugno che riusciva a farle intravedere le nocche, sul rumore della sua lingua quando la scoccava improvvisamente.
Aveva scoperto che, in fondo, non era poi così silenzioso. In quei momenti provava ad immaginare cosa stesse pensando, quale sentimento lo turbava e fantasticava di parlarne con lui, di rimproverarlo su un pensiero poco carino che aveva avuto nei confronti di un'altra persona o di prenderlo in giro su un’espressione che involontariamente gli affiorava in viso alle volte buffa.
La cosa che però le piaceva di più pensare era che lui non la ignorava in quei momenti come poteva sembrare, ma che anche lui accettasse la sua presenza al punto da abbandonare dopo un po’ la rigida postura che nei primi giorni lo aveva caratterizzato e ad abbassare la guardia su di lei facendosi trasportare dai propri pensieri. Perché era ovvio che Malfoy pensava. E molto.
Non la riteneva più una minaccia.
Tuttavia, aveva compreso che quanto accaduto a Natale aveva cambiato ancora una volta le cose tra loro e sperò che lui non facesse un passo indietro, che non la facesse uscire di nuovo dal suo cerchio d’ombra.
Fu piacevolmente sorpresa quando, quindi, capì che forse tutto era rimasto come prima, considerato che anche questa volta non l’aveva mandata via e non l’aveva ripresa. Non le aveva fatto nemmeno notare la sua presenza!
Quella mattina, dopo essere scesa dal treno, aveva a malapena incrociato, non riuscendo a chiedergli il perché di quel gesto, a ringraziarlo.
L’aveva ignorata, quasi non l’avesse nemmeno vista.
E ora scopriva che era stato lì con lei, immobile, al suo posto, celato dall’oscurità, in silenzio, probabilmente ancor prima del suo arrivo. L’aveva ascoltata piangere e, solo quando aveva consumato tutte le sue lacrime, se ne era andato.
Le sarebbe piaciuto pensare che il ragazzo, a modo suo, era voluto rimanere al suo fianco, cullandola con la sua presenza seppur nascosta, finché non fosse stato certo che non avesse più potuto avere bisogno di lui.
Ovviamente questa era un’utopia, una fantasia troppo fiorita persino per una bambina.
Ma, qualunque fosse la ragione, gliene era grata.


*



Qualche pomeriggio dopo…


Stavolta non era lì per caso, lo sapeva.
Ma oggi non era una giornata sì per Draco e, venendo a trovarlo di sua spontanea volontà, aveva voluto sfidare il destino.
Sparisci Mezzosangue, vai via se non vuoi farti male.
Inutili furono le preghiere silenziose di Malfoy, perché la sentì aprire la porta, immaginandosela a sbirciare speranzosa di trovarlo.
Non sarebbe rimasta delusa, ma sperò che un briciolo di amor proprio la spingesse a fare marcia indietro finché era ancora in tempo.
Non fu tanto fortunato.
-Giornataccia?- lo salutò, mentre le piastrelle di marmo sembravano vibrare a ogni suo passo.

Una folata d’aria lo colpì alle spalle e Draco capì che si era appena seduta sul bordo della piscina, a pochi metri da lui.
Come al solito, non si mosse. Rimase in silenzio a fissare il cielo oltre la finestra, quei punti indistinti che schiarivano quel mantello nero come la sua anima.
Intrecciò le dita su un ginocchio, cercando di non farsi vedere dalla strega che sapeva stava osservarlo. La sua presenza lo rendeva nervoso.
Quando c’era lei, l’aria intorno sembrava più densa, quasi soffocante. E lui voleva essere libero.
Non capiva perché la strega si ostinava a imporgli la sua presenza, sapeva di non piacergli così come lei non piaceva a lui.
Troppo intelligente per essere una donna, era troppo innocente per essere un uomo.
Troppo astuta per essere una Grifondoro, era troppo leale per essere una Serpeverde.
Hermione Granger era, semplicemente, troppo.
Per lui era una sorta di rebus, di difficile interpretazione.
Eppure non era riuscito ad allontanarsi da lei, nelle ultime settimane, quando gli era vicino. Come se fosse improvvisamente pietrificato o incollato lì dove si trovava. Perché i suoi pianti, le sue battute assurde, le sue parole di poca importanza, insomma i suoi rumori, erano quanto di più confortevole per lui, come una ninnananna che riesce a scacciare via gli incubi e farti dormire tranquillo, almeno per un po’.
Ecco, la Granger era la sua ninnananna. Con lei, anche se non l’ascoltava mai davvero fino in fondo, riusciva a estraniarsi dal presente, a uscire via dal cerchio dei suoi problemi e stare in pace.
Per questo le permetteva di stargli vicino, per questo quella mattina quando si era intrufolato nell’aula di trasfigurazione per cercare un libro di incantesimi per il suo piano non era scappato e l’aveva ascoltata piangere.
Si era sentito subito meglio: la tristezza della Mezzosangue, la sua sofferenza, il suo dolore, avevano scacciato via il proprio e l’aveva fatto sentire meno solo, meno diverso.
Di primo acchito aveva gioito nel sentirla così sofferente, in fondo, quelli come lei non meritavano la felicità nel suo mondo, ma poi… quando l’aveva sentita delirare frasi sconnesse aveva sentito solo una forte compassione. Sapeva come si ci sentiva e aveva provato un moto di tenerezza per lei, durato solo un istante, perché poi aveva sentito l’esigenza di scappare via, temendo di impazzire per quel pensiero assurdo.
Le sue ricerche per riparare l’armadio svanitore erano a un punto morto. I tentativi che aveva fatto erano tutti falliti miseramente e l’Oscuro Signore sapeva, vedeva i suoi occhi su di lui e il cuore speranzoso e preoccupato di sua madre gravare sulle sue spalle.
Ormai iniziava a pensare che non c’è l’avrebbe fatta e la sua famiglia sarebbe morta, per colpa sua.
No, non poteva arrendersi, ma… non poteva neanche pensare alla Mezzosangue, non con quei termini.
Improvvisamente si sentì stanco, come se un macigno troppo grande gravasse sopra di lui e, dopo troppo tempo a sostenerlo, le sue gambe lo avessero tradito. Non sentiva più la forza neanche di ribattere più alla Granger o di rivoltarle contro tutto il suo odio.
Anche se, ormai, non odiava forse di più qualcun altro?
Sospirò. Ah, impazzirò alla fine come il mio bisnonno!
-Malfoy…
Una voce tenue lo distrasse dai suoi pensieri e Draco inclinò la testa di lato, esprimendo tutta la sua perplessità con un’espressione stizzita.

Ormai Hermione riusciva a comprendere i segnali muti che lui le mandava, forse involontariamente. Sbuffò, ma sorrise lieta di non aver ancora ricevuto nessun invito ad uscire fuori dalla sua vita.
-Sta zitta, Granger. Se proprio non riesci a fare a meno di impormi la tua presenza, taci quanto meno.
-Non dovrei essere io a dirtelo, ma hai proprio bisogno di una bella dormita. Così fiacco, non è ugualmente divertente fingere di aver paura di te.
La strega non sapeva perché lo stava facendo, non aveva senso la sua presenza lì, così come non aveva senso il suo insistere nel conversare con lui.
Lui la odiava e lei odiava lui.
Non aveva dimenticato gli anni di tormento, di insulti, di crudeli scherzi che avevano reso alle volte la sua vita a Hogwarts davvero un inferno.
Lui non meritava la sua clemenza, né il suo perdono. Il mago non gliel’avrebbe mai chiesta e lei non gliel’avrebbe comunque data, non facilmente almeno.
Eppure sentiva il suo animo Grifondoro ruggire di fronte quell’apatia.
Perché Hermione Granger era nobile d’animo. Era una sua caratteristica.
Distese le gambe, incrociandole, e guardò il soffitto pensierosa, incurante della sua rispostaccia.
-Il sole può tramontare e poi risorgere; noi, invece, una volta che il nostro breve giorno si spegne, abbiamo davanti il sonno di una notte senza fine*.
Hermione sgranò gli occhi, prestando attenzione alle parole appena pronunciate dal ragazzo. Aveva parlato al plurale, aveva detto noi.
Le vennero in mente le parole del suo migliore amico di qualche mese prima, Harry: “Malfoy è diventato uno di loro, un Mangiamorte”.
Scosse la testa, scrollandosi di dosso quei pensieri assurdi.
Lui non poteva essere un Mangiamorte: anche se non era la persona migliore del mondo, dubitava seriamente che quel borioso ragazzino potesse rappresentare un serio pericolo per qualcuno.
Lo aveva trovato sempre un tipo tutto fumo e niente arrosto.
Si concesse di indugiare nuovamente sulla figura del mago, sulle sue spalle ricurve e sulle gambe mollemente lasciate cadere sul pavimento.
Non aveva neanche l’aspetto di un Mangiamorte.
Però di una cosa era sempre più sicura: Draco Malfoy era inquieto.
Non dormiva, le profonde occhiaie lo dimostravano, mangiava poco, ai pasti a volte neanche si presentava, e si vedeva troppo poco in giro.
Si guardava sempre intorno come se temesse di essere seguito e spiato, parlava poco persino con i suoi compagni con il quale finiva spesso per litigare e restava solo.
Negli anni precedenti non lo aveva mai visto solo. C’erano sempre stati Tiger e Goyle, la Parkinson…
Tutto era davvero molto strano e la sua curiosità stava raggiungendo picchi elevati.
Infine, c’era anche quella fastidiosa sensazione che lui sapesse sempre quali fossero le sue angosce, perché riusciva sempre a toccare i punti giusti per ferirla: sapeva della sua insofferenza nel vedere Ron e Lavanda insieme.
Mentre lei, non sapeva nulla dei suoi possibili problemi. Se si esclude suo padre, è ovvio.
Il Ministero della Magia ha fatto spesso il suo nome e tiene sempre sotto controllo la sua famiglia. Lo sanno tutti.
-Ho smesso di chiedermi per quale ragione tu voglia impormi la tua presenza. Noia? Curiosità?
Paura? Non mi interessa. Ma tieni a mente questo: noi non potremmo essere mai nulla di diverso da ciò che siamo adesso. Qualunque cosa è stato e sarà.
Draco si sentiva in dovere di precisare alcune cose con lei o, forse, si sentiva di precisarle più a se stesso. Si rendeva conto che le cose con la Mezzosangue stavano proseguendo su strane e sconosciute vie e non poteva permettersi nella sua vita un’altra incognita. Magari questa ambigua situazione con lei poteva anche proseguire, quanto meno fino a che ne aveva voglia, a differenza dell’opinione di Piton, ma una cosa era certa, doveva riuscire tenerla sotto assoluto controllo. Non poteva permettersi altre defiance come quella accaduta a Natale.
Hermione distolse lo sguardo, anche se lui non poteva vederla. Sembrava sempre riuscire a indovinare cosa lei stesse facendo.
-Posso farti una domanda?- si ritrovò a chiedere, sfiorando con le dita la superficie d’acqua nella piscina. I diversi profumi le vennero incontro.
-Puoi. Ma non aspettarti che ti risponda.
-Nel castello ci sono tante vetrate che ti permettono di guardare fuori, ma tu scegli questa che è una delle poche che ti da una visione completa del cielo senza l’intralcio delle Torri. Perché?
Era una domanda stupida, ma l’unica forse che poteva permettersi di porgli per saziare almeno in parte la sua curiosità.
Si voltò nuovamente verso di lui e si stupì nell’accorgersi che si era irrigidito: che cosa aveva detto, in fondo, di male?
Alzò gli occhi alla finestra, scrutando il cielo nero che si estendeva sereno privo di stelle. Non vi era nulla, se non un nido poco nascosto e un uccello che libero svolazzava qua e là, insieme al suo compagno.
Fu allora che capì.
Si alzò, lisciandosi le pieghe della gonna e avviandosi silenziosamente verso l’uscita. Stavolta lo avrebbe accontentato, lo avrebbe lasciato solo.
-Non fuggire in cerca di libertà quando la tua più grande prigione è dentro di te- gli disse, prima di uscire per tornare al suo dormitorio.







*Catullo.

   
 
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