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Autore: SkyEventide    02/03/2009    6 recensioni
"Un ninja è un'arma nelle mani del suo villaggio, sfrutta ed è sfruttato, non vive per un sentimento o per un sogno". Gli stessi ninja non conoscono la veridicità di questa affermazione. Gli stessi ninja si chiedono se è questo l'esito delle loro vite, se vale la pena costruirsi un sogno, se invece è tutto vano e quello è il loro destino, se invece si tratta solamente di fumo. Quinta classificata al contest dei Personaggi Secondari di beat. Personaggi principali: Zabuza, Kisame (non yaoi). Altri personaggi: Itachi, Zetsu, Raiga. Adesso, buona lettura!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kisame Hoshigaki, Zabuza Momochi
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Quel che vale un pugno di fumo



Occhi imperscrutabili, del colore del petrolio, non era stato loro insegnato il rispetto morale che si deve alla vita, o la pietà. Negli sguardi terribili si scorgeva la crudeltà dei sentimenti che non sono maturati, che non hanno avuto un oggetto a cui rivolgersi.
Erano occhi che non conoscevano sorriso.
E ciò che era più infausto, ciò che faceva scuotere la testa con scandalizzata, timorosa incredulità, era che quegli occhi neri avvolti da un terrorizzante abisso appartenevano al volto roseo, pieno e pulito di un bambino. Bambino che, come tanti altri, riceveva l’educazione ferrea, rigida, spietata di Kiri, il villaggio immerso tra le foschie del Paese dell’Acqua, bambino che, come tanti altri, imparava a flettere tra le dita, che già avevano perso la pienezza immatura degli infanti, lame affilate, taglienti, letali.
Ed era guardato con compiacimento dagli shinobi più esperti per la sua inumana freddezza, la calcolata ferocia nelle sue pupille, per il suo corpo che, silenzioso, lacerava l’aria. Era guardato con’ammirazione ammaliata, uno stupore timoroso e sottile, da quelli che invece condividevano con lui il cibo, l’acqua e le giornate, quelli che erano i suoi compagni di crescita. Lo guardavano così, gli altri bambini, gli si dedicavano sfuggevolmente per una tremula insicurezza di ciò che lui, diverso perché già ninja e non più apprendista, avrebbe potuto riservare loro. Non lo osservavano troppo a lungo mentre compiva i suoi perfetti movimenti, traboccanti di una forza intrinseca, perché non conoscevano ciò che quell’anima annullata avrebbe mischiato assieme all’inchiostro nero dei suoi occhi.
Pochi, forse coraggiosi, forse ingenui, forse inesperti, forse ognuna di queste cose, si accostavano col corpo ritratto indietro alla sua piccola figura, e sorridevano, appena frementi per essere gentili, pacati, per non osare disturbare.
Anche Nanami sorrideva, una ragazzina con le labbra che si increspavano in un’espressione timida di creatura giovane e coccolata in morbidi abiti puliti; la piccola era incapace di comprendere nella sua riservata buona fede che non c’erano che scatti di disprezzo cosciente nelle occhiate del suo compagno. Il suo compagno a cui si rivolgeva con dolcezza, perché lo vedeva solo, di cui anima alcuna desiderava, anche solo per un attimo, incontrarne gli scuri occhi, il suo compagno che forse sarebbe stato in squadra con lei, che avrebbe senza dubbio superato l’esame e sarebbe diventato un temuto, conosciuto, rispettato shinobi di Kiri.
Il suo compagno che riponeva su una consumata rastrelliera di legno scheggiato la katana che aveva volteggiato per dieci, fluidi minuti nelle sue mani fanciullesche.
Quasi balzellante, indecisa se indietreggiare o avanzare, irrequieta nelle pupille guardinghe e saettanti, Nanami incrociò le dita lisce dalle unghie curate dietro la propria schiena e gli sorrise.
«Zabuza!» una vocina che squillava, piacevole, lo chiamò con una reticenza cacciata via a forza per un’apparenza più carina, più naturale.
Lui si girò, i capelli neri appiccicati al viso per il sudore, le mani avvolte dalle garze bianche, ruvide, e le riservò uno sguardo duro, diverso, che la inchiodava dalla distanza di una dimensione avvolta dal più crudele, impietoso realismo. Con quegli occhi neri vide che, sì, definire Nanami “carina” era corretto: come boccoli rosati, i capelli le cadevano morbidi sulle spalle, le ciglia lunghe sbattevano sul volto che possedeva la fredda bellezza delle bambole. Con quegli occhi la disprezzò dal profondo della sua cruda anima da ninja.
Ma lei proseguì, ingoiando quel tremito di incertezza nella propria voce: «Zabuza, quest’anno parteciperai all’esame, vero?». I suoi occhi chiari sfuggirono ai due pozzi di nera notte che catturavano ed affogavano in immagini che nessuno avrebbe dovuto celare dentro, sfuggirono cercando un incoraggiamento che non c’era, perché dove il suo sguardo era scappato erano presenti solo le luci del soffitto, l’eco del silenzio imperterrito e della sua chiara, distorta voce.
Zabuza non fece altro che fissarla, per quegli attimi, poi la sua voce aspra le concesse una risposta.
«Sì, ci sarò anch’io».
Stentata, parca risposta, aveva lo stesso sapore delle elemosine lanciate nei cappelli dei mendicanti agli angoli delle strade, gettata con sufficienza, spesso con inumano distacco. Ma Nanami, quella discreta mendicante che elemosinava un po’ d’attenzione dal suo prodigioso Zabuza, quella risposta se la fece bastare. Come se il suono della voce stridente ma ancora buffamente puerile del suo compagno avesse acceso una stella nel suo piccolo sprazzo di cielo lindo, la ragazzina distese il suo viso, lo rianimò di un fragrante e fresco entusiasmo, senza che questo servisse, senza rendersi conto che aveva perso anche senza il bisogno di tentare.
«Bene, allora… speriamo che poi ci mettano in squadra assieme!» cinguettò la sua voce, un leggero canto primaverile tra gli sterpi gelati ed irti. Un canto che li disturbava, e non fu che un moto di insofferenza a segnare il viso bianco e velato da gocce di sudore di Zabuza, mentre le sue iridi, nere e rimpicciolite, come squarci in un firmamento notturno, seguirono il fringuello che cantava tra gli sterpi e si allontanava saltellando e scambiando le spine per compagni di innocui giochi.

Con la vista offuscata da fumi di foschia che catturavano le membra agitate come se fossero stati invisibili arti ed invisibili mani, Nanami vagava, al limite dell’isteria, da un lato all’altro dello sconfinato campo d’arena.
Sconvolta, non faceva che serrare le dita sbiancate sul metallo del suo kunai, sforzandosi di captare rumori con le orecchie tese, rumori che non fossero il suo respiro accellerato dall’adrenalina, dalla non accettazione dello stato delle cose.
Disumana, l’incredulità si rifletteva nel suo sguardo, contenitore di un’angoscia che non riusciva a domare e trasmutare in freddezza, non dopo aver visto la sua amica Aya che attaccava Shibu col fuoco nel sangue e omicida determinazione negli occhi, Shibu che le conosceva da quando ancora entrambi succhiavano il latte dal seno della madre.
«Uccidetevi» aveva detto la voce dello shinobi che ostentava in testa il metallo gelido del coprifronte. «Chi sopravvive sarà ninja». E risuonava ancora nella sua testa svuotata, rimbombava dolorosamente. Alla visione del simbolo di Kiri si sovrapponeva l’immagine delle schivate di Shibu incalzato dalle stoccate veloci di Aya, mutata, bruciata dentro; a Nanami era parsa posseduta e priva di ragione.
Sbatté le palpebre furiosamente per non chiudere gli occhi, per non privarsi della vista, ciò che salvava ogni ninja dalla morte. Aveva udito grugniti soffocati, mugolii, anche pianti. Anche urla straziate di disperazione, la disperazione di vedere i volti amici della propria infanzia cedere alla follia delle regole, afferrando e stritolando nel tempo di un attimo ciò che erano stati fino a quel momento, ingoiando le lacrime come un boccone amaro.
La ragazzina avanzò, fissando la bruma che celava demoni e sostava davanti a lei come un muro protettivo ma ingannevole, dentro di lei come un anestetico della mente. Ora vedeva e sentiva il silenzio, solo il silenzio angoscioso dell’ignoto, e fili di bruma le trascinavano le gambe.
Un pugnale di paura ruotava lento nel suo cuoricino incredulo, il viso sudato scattava colto dal tremore, trovando solo la solitudine ed un sempre più forte terrore che la quiete fosse rotta dal fischio secco di un kunai.
E poi si delineò, lenta e fosca, una figura che avanzava tagliando col suo corpo l’aria ammantata di bianco in silenziose volute.
Nanami sbarrò gli occhi, avvertì un sussulto, combattuta tra la paura e il sollievo, e riconobbe il profilo giovane che pian piano si schiariva, si definiva.
Dei singulti le salirono dalla gola, percepì le gambe tremare sapendosi sola, cogliendo la profonda crudeltà di quel che aveva davanti: non poteva correre tra le braccia di un amico, né piangere stringendogli la maglia tra le mani chiuse a pugno, mostrando tutta la sua debolezza, perché una lama gelida sarebbe potuta entrare nella sua schiena e tirarle via la vita.
Strinse le labbra gonfie, soffocò le lacrime e, senza sapere, senza vedere, fece ciò che le era sempre stato insegnato a non fare: si ripose nella speranza.
La figura davanti a lei uscì dalla bruma, ora i suoi occhi erano velati da un solo sottile strato di fumo, e si imponevano, neri pozzi di niente; il corpo di bambino era oscurato dal loro vortice.
«Za… Zabuza!». Piccola incauta, si avvicinò, i capelli rosati erano appiccicati al suo viso sudato. «Zabuza, siamo soli! Quelli più grandi… combattevano, sono più forti di noi, però non li sento più da un po’…».
Le labbra bianche di lui non le concessero niente, né una risposta, né un’espressione. Silenzio, solo una calma irreale giaceva sul terreno umido di cristalli di brina.
«Zabuza…?». Il passo della ragazzina tentennò, perché forse scorse qualcosa, qualcosa di gelido e duro in quello sguardo sfumato, vide un gorgo che faceva tremare il corpo, strappava via l’ossigeno dai polmoni, calamitando in quel nero, avvolgendo e trascinando senza salvezza.
«Zabuza, cos…?». Il suo piede chiuso nei sandali congestionati, stretti, scivolosi di sudore ed umidità, cozzò contro un oggetto solido con un rumore sordo, una sensazione allucinante che le sfaldò il petto in una stretta dolorosa. Il cuore accellerò, adrenalinico, e gli occhi chiari, sbarrati di paura, dilatati, si abbassarono, timorosi di vedere.
Per un attimo la sorpresa la sbigottì e solo quando la concezione della realtà la raggiunse, un singulto inorridito la fece indietreggiare, sconvolta. Solo ora sapeva, solo ora vedeva, ed il suo cuore urlò, inascoltato e disperato. Le esplodeva nel petto, la sua fiducia tradita, batteva forte come mai aveva fatto prima, come mai avrebbe più potuto battere.
Un singhiozzo, il principio del pianto. Ai suoi piedi sporchi di terra e di grumi scuri e rossastri, giaceva il cadavere di Aya, e poi quello di Shibu, riversi, e quelli di tutti gli altri poco più in là, pallidi, bianchi, sporchi, mutilati, le bocche secche e bluastre aperte nel loro grido muto, le iridi vacue e fisse che fotografavano l’orrore dei loro ultimi istanti disperati, lo stesso orrore che ora Nanami sapeva essere nei suoi.
Si vide dall’esterno, come fosse già spirito, e un’inaccettata preveggenza al colse; incredula, negava la sua previsione, arresa, piangeva perché era conscia di non poterla evitare.
Una lacrima scese sul suo viso stravolto, le pupille si alzarono, guardarono e videro follia incondizionata.
L’ultima cosa che scorse lucidamente furono gli occhi. Gli occhi neri, gli occhi in cui non c’era nessuna pietà.
Poi il collo bianco fu chiuso da quelle mani, la voce annaspò, la presa si strinse, un ghigno, e le gambe cedettero, un colpo allo stomaco, dolore, uno schizzo di sangue che imbrattò gli avambracci, un’altra lacrima, un pensiero tradito, un singulto, e infine più niente.
Su un prato di cadaveri immoti il suo corpo sfiorito in una primavera troppo presto terminata cadde, pesante, e per un momento il velo bianco che avvolgeva quel macabro scenario si alzò mostrando il massacro agli occhi neri del divertito carnefice, che osava nutrirsi di morte per giocare con la vita. Poi calò di nuovo sul terreno sporco e duro, avvolgendo tutto in un sudario opaco di nebbia e sangue.



«E’ lui?».
Un’occhiata lesta, quasi furtiva, prima di allontanarsi velocemente per un’altra strada. «Sì».
Il primo interlocutore, immobile, ghignò, lasciò che si intravedessero oltre le sue labbra le punte aguzze dei denti, dalla forma acuta, tagliente, che donava anche ad un eventuale sorriso la parvenza di una smorfia affamata.
Davanti ai suoi occhi dall’iride bianca e pupilla piccola, così inusuali e pregni di foga, così accesi davanti alla violenza, si avvicinava un ragazzo, spavaldo e avvolto da un’aura che faceva aprire la folla come le acque del mare, un’aura che suscitava un’inquieta paura e rancore.
Ormai diciottenne, possedeva un corpo perfetto sotto una maglia attillata e senza maniche, dei capelli scuri tagliati corti, e ancora nel suo viso duro brillava la crudeltà senza emozioni dell’ossidiana del suo sguardo. Nelle sue mani cresciute ed indurite dai calli non ballavano più sottili kunai o agili katane, il suo busto scattante richiedeva altre armi, più potenti, vistose, robuste, più distruttive ed assassine. E così, agganciata alle sue spalle larghe e manovrata dalle braccia di un diciottenne, pendeva una mannaia d’acciaio, pesante quanto le colpe del suo portatore.
Il ragazzo si accostava con un passo così certo da riuscire a mettere in dubbio la sua età da poco uscita dal periodo dell’adolescenza, e ad attenderlo stava in piedi quel giovane uomo dal sorriso ferino, di quasi dieci anni più grande e dotato di un aspetto inusuale, con una pelle cianotica, bluastra, del colore di quella di un corpo annegato nell’acqua, e capelli corti ed ispidi che richiamavano le sfumature del mare scuro.
«Zabuza Momochi?» gli chiese, ghignando, forse sorridendo, accogliendolo con una mano robusta posata su un lungo oggetto avvolto da fasce bianche di garza spessa, sorretto dal suo braccio allenato con la cura che si riserva ad una brocca d’oro, con la familiarità che si dedica ad uomo, come se stesse toccando le spalle di un fratello e non il manico di un oggetto inanimato.
Zabuza si fermò, alzò la testa ostentando superbia nel corpo e nello sguardo nero. «Sì, sono io» gli rispose, la voce maturata come il resto di lui, una voce baritonale e forte, che incarnava la sua sanguinosa fama.
Una risata aspra e leggera, possedeva un sapore di divertimento velato di cameratismo. «Il Demone della Nebbia…». Una pausa pregna, che riesumava dalla terra sporca vecchi fantasmi e cadaveri, facendoli specchiare nelle pupille incolori del loro boia, e che poi fu spezzata da un solo movimento noncurante. «Io sono Kisame Hoshigaki, e questa è Samehada» si presentò, picchiettando la mano sulla sua arma protetta dalle intemperie con le garze, o forse celata alla vista degli altri.
Da quelle poche parole pronunciate, erano compagni di team, quando probabilmente entrambi non erano mai stati prima compagni di qualcosa che non fossero le loro infallibili tecniche di assassinio.
Fu in quel momento che dal paesaggio sfocato, fumoso ed umido che si stendeva alle spalle dei massi grigi e bagnati dove Kisame sedeva, emerse lentamente il profilo di un uomo, indistinto e dai passi ovattati in quell’atmosfera pesante di brina appiccicosa.
«Kisame!» chiamò una voce maschile, dai toni gutturali, attraverso la nebbia.
L’interpellato non fece altro che ghignare, rilassato quanto era un attimo prima, sprezzante fino ai limiti della ragionevolezza. «Quello è Raiga».
La voce, dalla sfumatura autoritaria e scocciata, disturbò le volute biancastre che svolazzavano, pacifiche ed ingannatrici. «Kisame, mi senti? Sbrigatevi!».
Un ringhio basso uscì dalla sua bocca di squalo. «Gli altri?».
Il fumo soffiò al movimento di un corpo, si disfece lasciando vedere confusamente un’ombra. «Sono già sul posto».
Kisame si voltò verso Zabuza con un sospiro che però mostrava una certa qual impazienza, un desiderio di movimento, Zabuza che non aveva battuto ciglio se non incrudelendo i suoi occhi, permettendo ad un tizzone di luce di tremare nella sua iride. Poi Kisame raccolse Samehada e la agganciò ad una spessa tracolla di pelle consumata, reggendone il peso come se fosse solo innocua cartapesta. Si inerpicò su per i massi lucenti d’acqua gelida, con i passi impercettibili di Zabuza alle sua spalle, allontanandosi man mano dalle baracche in lamiera dei pescatori, odorose di pesce e di stufati preparati dalle consorti per i loro mariti. Entrambi si fermarono per un secondo davanti alla statica bruma che li attendeva oltre le rocce, in una pianura di cui era impossibile determinarne la fine, e forse anche l’inizio.
«C’è una carovana di un daimyo, dove siamo diretti. L’ordine è di non fare prigionieri» vibrò la voce bassa e ruggente di Kisame, mentre le sue dita stringevano più forte il manico fasciato della sua lunga spada, familiarmente, tradendo una cruenta eccitazione dalle sue piccole pupille.
E Zabuza sorrise semplicemente, lasciò trasparire la ferocia che destava il suo animo zuppo di sangue, permise al disprezzo di riaffiorare alla ricerca di divertimento per essere esorcizzato. «Questo non è un problema».
Una risata aspra disturbò la quiete, una risata che sapeva di crudeltà e profumava di sregolatezza.
«Allora benvenuto negli Spadaccini, Zabuza» disse il Demone Squalo al Demone della Nebbia.

Nella bruma c’era silenzio.
Zabuza si muoveva dietro Kisame, predatore e pericoloso, controllato nei muscoli delle gambe, le dita che già accarezzavano la lunga impugnatura della sua mannaia Tagliateste, che gli era valsa il titolo di Spadaccino e quello di assassino.
Solo un benvenuto gli era stato dato, solo direttive e non una motivazione; solo un obbiettivo e non una colpa da far espiare. Ma lui non aveva di che obbiettare, non aveva mai avuto di che obbiettare, perché la sua educazione, forse mancata, forse deviata, non aveva concepito né sviluppato in lui la capacità del rispetto, della libertà umana. L’unica cosa che era nata e sviluppata era il concetto dell’essere ninja. E ciò perché, ai tempi della sua infanzia, questa era stata Kiri. Solo ora che il suo spirito nero e crudo aveva diciotto anni e che era stato scelto giudicato sufficientemente abile per l’èlite degli shinobi, il villaggio lentamente si vedeva costretto a cambiare le sue lorde usanze.
I fumi leggeri si dissipavano nei punti in cui picchiavano i loro piedi, si disfacevano dove passavano i loro corpi agili, l’unico rumore che li accompagnava era quello ovattato dei loro passi.
Davanti, nella nebbia, c’erano i suoni ed i colori indistinti dei loro obbiettivi, ignari di essere le prede del silenzio fatale di affilato metallo.
Zabuza si accostò sino a poter alitare sul collo di colui che di lì a un attimo avrebbe ucciso.
Flesse il braccio con la precisione dell’allenamento dedicato al suo jutsu migliore, con la precisione dell’abitudine, scorgendo con gli occhi scuri l’aria bianca intorno, densa, umida. La Tagliateste vibrò, leggera come una piuma, pesante come una condanna.
Poi calò, un movimento ampio, sul collo sudato di colui che era stato designato come vittima. Un verso animale uscì dalle labbra prima che il corpo si staccasse dalla testa, inerte, e cadesse a terra, prima che chiunque altro si accorgesse della sola presenza, del solo spostamento dell’aria, prima che chiunque altro avesse il tempo di urlare, di avvertire, di vedere il volto del proprio assassino.
Combatterono. Zabuza vide Samehada tranciare e triturare, Kisame ghignare e colpire, impulsivo e feroce, vide le folgori veloci che avvolgevano Raiga e disperdevano la nebbia, la illuminavano, tagliavano la terra.
Gli uomini caddero, uno dopo l’altro, precipitando nelle pozze del loro stesso sangue scarlatto, senza aver potuto piangere i figli già orfani, senza aver potuto salutare le mogli già vedove, senza aver potuto onorare i padri e gli antenati.
Non gli era servito nient’altro che un istante per estirpare quelle vite, un istante per bagnare di rosso la mannaia che impugnava. Stava in piedi tra dei corpi decapitati, lui che era stato trovato accucciato fra i morti a dodici anni, con gli occhi sbarrati, le sopracciglia corrugate, lo sguardo bruciante, minaccioso e mortifero che era stato capace di pietrificare gli esaminatori stessi al loro arrivo, davanti a quell’orripilante spettacolo. “I loro spiriti lo perseguiteranno!” avevano urlato, isteriche, disperate e svuotate le famiglie delle vittime, ma nessun fantasma era ancora giunto a disturbare il suo sonno, mentre altri, lentamente, si aggiungevano alla lista di coloro che l’avrebbero atteso all’inferno il giorno della sua morte.
«Vali la fama che hai, Zabuza».
Il suo volto spigoloso si voltò per incrociare l’espressione sogghignante di Kisame, enfatizzante, distorta dai suoi denti bianchi e appuntiti, animali. Samehada era sporca, le garze sfasciate sulla punta, imbrattate di carminio, lasciavano scoperte le scaglie blu, spesse e taglienti, seghettate, che vibravano come se si stessero nutrendo dell’agonia di coloro che avevano ucciso.
Zabuza rise, senza più degnare della sua attenzione i cadaveri ai suoi piedi. «Se non meritassi la mia fama non sarei qui». Raiga guardò verso di lui, con le labbra scure arricciate.
Se Zabuza avesse preso quella frase come un complimento, come una provocazione, come un commento di circostanza, non era dato saperlo. E forse non gli importava che cosa fosse, forse non gli importava nemmeno della sua fama, né dei suoi fantasmi, né delle sue azioni, né gli importava che chi aveva ucciso avesse figli, moglie, parenti, amici. Forse non gli importava nemmeno di essere lì.
Perché, con noncuranza, con l’inumanità nello sguardo, sfruttando quei momenti semplicemente per il proprio personale intrattenimento, lui non aveva fatto altro che obbedire.



Con cura avevano pianificato tutto quanto, in ogni minimo dettaglio, Kisame si ricordava bene di quei giorni passati tra incontri segreti fra la nebbia e l’acqua.
Dopo aver risposto delle direttive del Mizukage per anni, uccidendo, viaggiando, eseguendo, avevano deciso che per loro non era abbastanza, che ciò che desideravano era oltre il corpo d’èlite di Kiri. Raiga aveva le cartine, segnava coi kunai i punti da colpire, lasciando segni sulle mappe, e i loro occhi da ninja memorizzavano i particolari. Giunta la notte del fato si erano mossi sotto il cielo per una rara volta sgombro dai fumi e dalla bruma, dove le stelle puntavano il cielo come candele a veglia di morte. Si erano mossi, silenziosi, come sempre avevano fatto, avevano tagliato gole, Samehada si era macchiata del sangue di innumerevoli uomini che l’avevano salutato, fiduciosi vedendo che era uno degli Spadaccini, solo uno degli Spadaccini, e che poi si erano ritrovati traditi, agonizzanti, morti.
E tutto questo per permettere a Zabuza di arrivare fino al cuore del loro villaggio, fino alle stanze dello stesso Mizukage.
Ma avevano fallito.
Gli Oinin li avevano inseguiti lungo le pianure umide, sull’acqua dei fiumi, lontano dalle luci delle case, e loro erano scappati, traditori, rinnegati, mukenin. Non avevano guardato dove l’uno corresse, dove l’altro si rifugiasse, erano solo fuggiti sotto la pioggia che aveva iniziato a scrosciare, senza patria e senza compagni, ognuno per la propria strada, chiudendo alle proprie spalle la nebbia del loro paese ed il loro mancato colpo di stato.
Era stata allora la prima volta che si erano comportati secondo i loro desideri, e Kisame ignorava come poi Raiga e Zabuza avessero vissuto e come poi fossero morti. Quel che rimembrava era l’ultima immagine dell’uno e dell’altro che si dileguavano nella bruma grigia con appresso due ragazzini imberbi.
Anche ora pioveva, e lui sedeva con Samehada al fianco sotto le gocce gelide che si infiltravano nelle fibre della veste che aveva deciso di indossare, sedeva guardando il cielo arrabbiato che rovesciava con gli occhi piccoli che non tradivano niente, se non una certa concentrazione, che testimoniava la sua mente persa.
«Anche Itachi è morto». Non domandava, non c’era un tono di ignoto nella sua voce aspra, perché la presenza di Zetsu dietro di sé che fuoriusciva dalla roccia non poteva significare che quello. Era venuto ad avvisarlo che mancava qualcun altro, e lui non aveva più un partner.
«Sì» gli rispose la voce di Zetsu più leggera e tranquilla.
«Prima o poi doveva succedere». La mano che portava l’anello del Sud si posò su Samehada.
Morti uno dopo l’altro, li ricordava senza nostalgia ma con un certo vuoto, perché erano un monito, un monito che incideva nella storia scritta ciò che era capace di fare un villaggio per la propria sopravvivenza, erano un monito che dimostrava con prove certe quanto ognuno di loro usava ed era stato usato a sua volta.
La pioggia bagnava il suo viso duro, i capelli scivolavano sopra il coprifronte rigato a rinnegare tutto ciò che c’era alle sue spalle, e Zetsu taceva dietro di lui.
Lui non combatteva per Pein, non combatteva per conquistare il mondo, né lo faceva per un ideale. E per questo non si poteva catalogare in niente, se non come un ex Spadaccino della Nebbia, un’arma del Mizukage. Per questo non poteva sapere per cosa era morto Raiga, soprattutto per cosa era morto il piccolo Zabuza, che ricordava giovane e crudele e che era diventato qualcosa che non conosceva. Era rimasto loro solo un pugno di fumo.
Alzò il viso in alto, osservò il cielo.
Non sapeva per cosa era morto Itachi, che come lui si era fermato spesso sotto le gocce fredde che cadevano dalle nuvole nere e che da lui era stato spesso invitato a ripararsi per non prendere un raffreddore.
«Peccato» disse, alzandosi, le gambe solide ora indolenzite e spossate.
Non sapeva se, per qualcosa che non conosceva, ne valeva veramente la pena.















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Pubblicata la fic su cui ho perso settimane di vita nonché la mia sanità mentale per consegnare in tempo. ò_ò

Note:
Codesta fic ha partecipato al concorso sui Personaggi Secondari, di beat, classificandosi quinta (nella classifica segnata come sesta per un parimerito di quarto posto). Che dire... mi aspettavo un po' di più, sinceramente, parlando a livello di posto nei risultati, parlando di voti nel giudizio invece sono piuttosto soddisfatta, perché sono comunque altissimi (si parla di nove e punteggi pieni ò_ò), quindi non posso certo mettermi a protestare.
La fic, in generale, parla della domanda che vige nella parte di Naruto dedicata a Zabuza ed Haku, ovvero quella del destino dei ninja, della metafora degli shinobi visti come armi, se per loro vale la pena di vivere come macchine di morte o cercare di cambiare il proprio destino. Il finale è pessimistico da questo punto di vista. Altre note… dunque, l’anello del Sud citato in fondo è quello dell’Akatsuki che ha Kisame, con, appunto, l’ideogramma “sud”, e gli Oinin sono i ninja inseguitori della nebbia, di cui Kakashi pensava facesse parte Haku. So che Raiga è un personaggio dei filler, ma nelle carte ufficiali di Naruto è presente, quindi ho deciso di usarlo, anche per necessità di trama.

Questo è il giudizio che ho ricevuto:

Correttezza grammaticale: 8,5/10
Ci sono un paio di errori di grammatica (accelerare si scrive con una “elle” sola), e una frase che non era costruita bene. Per il resto, come al solito hai uno stile contorto e periodi molto, molto lunghi per cui si tende a perdersi per strada. Ma questa volta ero preparata e ho letto con molto attenzione: il risultato è davvero eccezionale anche perché la ricchezza del lessico e come descrivi le cose erano assolutamente azzeccati per l'atmosfera della storia.
Completezza della storia: 9/10
Innanzitutto, quando cambi ambientazione, sarebbe carino avvertirlo in qualche modo, anche solo con un paio di asterischi che stacchino i due pezzi.
A parte questo, forse per la fretta, è vero che il finale manca di “qualcosa”.
Centralità del personaggio scelto: 8/10
Molto meglio rispetto l'altra storia, ma anche qui ti sei concentrata un po' troppo all'inizio con Nanami, sviando da Zabuza.
Originalità: 5/5
Davvero una bellissima storia, con Zabuza per una volta non in coppia con Haku.
Giudizio personale: 5/5
OOC: -0/10
Mi sono sembrati molto ben trattati sia Zabuza che Kisame.
Totale: 35,5 punti


Adesso ringrazio vivamente Cira e Trinh per il sostegno, senza il quale non avrei mai consegnato in tempo (praticamente ho mandato la fic a cinque minuti dalla scadenza del concorso ò_ò).

Ringraziamenti per le bellissime recensioni:

ShessomaruJunior, ho ricevuto il tuo commento per primo ed è inutile dire che mi ha fatto un piacere immenso. *-* Soprattutto per il fatto che sia stata gradita così tanto anche da un maschio e non solo da ragazze. Quindi grazie ancora, anche per il "fav", come si direbbe su DeviantART. *_*
Cira, 'gnurante, non conosci Raiga! 'Gnuranteee! Ti devi istruire, ragazza. Io so anche quante volte Zabuza va in bagno, se è per questo. ù_u E comunque, povera Nanami, tutto questo odio verso di lei mi lascia basita. XD In ogni caso grazie per il commento. =ç= Le tue recensioni sono più rare di Orochimaru che fa gli occhi dolci, vanno tenute sottovetro. =ç=
Saeko no Danna, felice e contenta di averti fatto gradire la fanfiction, e grazie di tutti i complimenti. =ç= In merito ai punti e virgola vedrò di cercare di sostituirli alle virgole nelle fanfiction future. Quando si ricevono consigli si cerca sempre di attuarli, no? °*°
beat, sono davvero felice che la fic ti abbia trasmesso qualcosa, questo mi rincuora un bel po'! Anche se effettivamente ammetto che mi aspettavo parecchio di più, se non dai voti, dalla classifica. Ma ti ringrazio ugualmente, se ti è piaciuta così tanto è già qualcosa. *_*
meg89, la tua recensione mi ha gasata alquanto. =çç= Mi ha esaltata, sul serio. XD (Questo mi ricorda che con te ho un commento in sospeso XD). Comunque, soprattutto, mi ha esaltata la tua chiave di lettura, il modo in cui hai visto certe parti della storia ed il carattere dei personaggi. Ti ringrazio tantissimo per questa lettura molto approfondita della fic, mi ha fatto piacere (e mi ha anche gasata =ç=). Quindi grazie ancora del commento e a presto. *ç*

Annunci:
-Sto continuando tutte le mie fic, tranquilli. Non ne ho lasciata nessuna, men che mai Eredi del Sangue.
-Se vi interessa anche solo lontanamente la coppia KimimaroJuugo, ho pubblicato in coppia con Cira una long-fic su di loro, in un account condiviso. *_* La trovate QUI.
-Se volete una recensione di una vostra fic filate sul forum Fanfiction Value. *__*

Adesso vi saluto, sia io che le mie note infinite. XD Spero la fic vi sia piaciuta. *-*
   
 
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