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Autore: Keru    03/03/2009    2 recensioni
Saaalve! Eccomi qui con una nuova storia tutta per voi! (tutta per te semmai, come scrittrice sei un disastro! ndTutti)(ç_ç cattivi ndIo)...la mia nuova creazione parla di una ragazza,delle sue flebili illusioni e della sua storia,fatta d'amore e tragedia,potente come il mare. "i miei occhi non hanno un colore naturale: sono viola come i giaggioli che crescono sul greto del fiume.I miei capelli corvini sono cresciuti troppo e sono così ingarbugliati che ormai è quasi impossibile pettinarli. Sono tutta occhi e capelli. Il resto di me è solo acqua. [tratto dal romanzo Selina Penaluna]
Genere: Romantico, Malinconico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3: Scoperta:

 

Nella siepe di Tamerice mi sono fatta una tana tutta mia, con una vecchia coperta e un cuscino di raso rosa che mi aveva regalato la signora Tabb, la nostra vicina. E’ il posto migliore per osservare inosservata la gente. Si può sbirciare attraverso le foglie e avere una visuale completa della spiaggia; e guardando da un lato, si vede l’ andirivieni di persone della chiesa della Missione, o si può tenere d’occhio la strada che porta alla fattoria. Guardando davanti, si scorge l’approdo di legno che arriva all’acqua alta. I maschi passano l’estate a tuffarsi da lì; adorano spintonarsi e urlare fino a rompersi i timpani.

Ero nascosta nella siepe quando vidi il macellaio annegare. Si chiamava Benson. Non l’avevo mai visto fuori dal suo negozio, né senza il lungo grembiule bianco addosso, perché di solito mandava il garzone in bicicletta a prendere gli ordini e a consegnare la carne.

Doveva aver pensato che Cove fosse deserta: sono certa che non l’avrebbe mai fatto sapendo di essere osservato.

Continuavo a chiedermi come mai se ne stesse proprio sul bordo, con addosso l’abito della festa in un giorno feriale, immobile a fissare l’acqua sotto di sé. Dopo un bel po’, si toglie il cappello e lo posa delicatamente sul tavolato del pontile. Quindi si raddrizza e fissa l’acqua per qualche minuto ancora, sporgendosi sempre di più fino a perdere l’equilibrio e cadere, rigido come un palo, senza sollevare nemmeno uno schizzo. La testa riemerge una sola volta, rotea gli occhi e spalanca la bocca prima di tornare sotto.

Aspetto un po’, poi striscio fuori dal mio rifugio e vado sul pontile per vedere dove sia finito.

                                              Ma di lui non c’è più traccia.

Sul fasciame di assi bagnate rimane solo il cappello di feltro marrone con un nastro scuro intorno alla tesa. So che non avrei dovuto farlo, ma lo prendo e lo nascondo sotto la siepe per metterci dentro le mie conchiglie e i frammenti di vetro colorato.

La gente parlava della morte di Benson come se si fosse trattato di un incidente, ma io sono stata l’unica testimone della verità. Non ho mai raccontato a nessuno quello che vidi, nemmeno a mia madre e mio padre. Spesso mi chiedo cosa ci fosse di tanto terribile nella vita del macellaio da fargli venire il desiderio di farla finita. Ancora me lo sogno, mentre cade nell’acqua con il vestito della fasta, le scarpe e tutto quanto…

Una notte c’è un temporale spaventoso, il vento ulula giù per il camino e le onde martellano gli scogli ai piedi della casa. La pioggia batte sui vetri e il pero secco nel giardino dei vicini si spacca in due. Io sono a letto e conto le tegole che cadono dal tetto e si rompono toccando terra. E poi sento uno strano tintinnio; mi alzo a sedere per sentire meglio, ma all’inizio non riesco a capire cosa sia; poi mi rendo conto che sono i vetri delle mie bottigliette che rotolano fuori dalla siepe e sbatacchiano fra di loro.

Un’altra folata di vento fa rotolare la mia unica bottiglietta intatta e la spinge nello strapiombo frantumandola nella spiaggia sottostante.

Il mattino seguente mio padre sta togliendo gli ormeggi al barchino e vede quel cumolo di vetri rotti. Pare che ne capisca immediatamente il significato, perché ne raccoglie un frammento tagliente e corre in casa e si mette a inveire contro Morva. Corre in camera loro e si sbatte la porta alle spalle. Io sono a letto con la testa sotto le coperte e cerco di cogliere ogni suono della lite.

                                                  “….Un disastro….”

Poi, per circa un minuto, si ferma tutto e si sente solo lei che singhiozza. Dopodichè, mio padre esce dalla stanza come una furia, torna alla barca e sparisce per tre giorni.

Io aspetto un po’.

 

                                                                                            [ …Come Tuo solito, eh Hachi?...]

 

Sgattaiolo giù dal letto e mi dirigo in punta di piedi nella loro stanza. Morva è sul letto e il lenzuolo è sporco di sangue; lei non si muove, così penso che sia morta.

 

                                                                                             [ …non la guardi nemmeno con un briciolo            

                                                                                                     di compassione, Hachi…]

 

Ma si gira lentamente verso di me…

-Sei contenta adesso?- mormora. Ha la bocca ferita e gonfia, un occhio nero e un brutto taglio sulla guancia. Vado a prendere un po’ d’acqua e un panno e provo a pulirle il sangue dalla faccia, ma lei mi spinge via e mi ordina di andare a scuola e di non raccontare a nessuno quello che stà accadendo.

Mi vesto, ma non vado a scuola; prendo un pezzo di pane e una mela.

 

                                                                                              […la mela è rossa…strano…tu odi il rosso    h                                                                                                                 Hachi-chan…]   

 

Ora mi sento il colpa per aver conservato i frammenti di vetro e la bottiglia; avrei dovuto ridargliele e prendermi i soldi del deposito. O quanto meno avrei dovuto nasconderle in un posto più sicuro.

 

 

Passai trent’otto ore fuori casa, vicino alla vecchia Baleniera, la mia seconda casa. E’ un luogo tetro sì, ma è meglio di quell’edificio che chiamo casa.

 

                                Quando tornai a casa, la mamma non c’era più.


  
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