Capitolo 3: Scoperta:
Nella siepe di
Tamerice mi sono fatta una tana tutta mia, con una vecchia coperta e un
cuscino
di raso rosa che mi aveva regalato la signora Tabb, la nostra vicina.
E’ il
posto migliore per osservare inosservata la gente. Si può
sbirciare attraverso
le foglie e avere una visuale completa della spiaggia; e guardando da
un lato,
si vede l’ andirivieni di persone della chiesa della
Missione, o si può tenere
d’occhio la strada che porta alla fattoria. Guardando
davanti, si scorge
l’approdo di legno che arriva all’acqua alta. I
maschi passano l’estate a
tuffarsi da lì; adorano spintonarsi e urlare fino a rompersi
i timpani.
Ero nascosta nella
siepe quando vidi il macellaio annegare. Si chiamava Benson. Non
l’avevo mai
visto fuori dal suo negozio, né senza il lungo grembiule
bianco addosso, perché
di solito mandava il garzone in bicicletta a prendere gli ordini e a
consegnare
la carne.
Doveva aver
pensato che Cove fosse deserta: sono certa che non l’avrebbe
mai fatto sapendo
di essere osservato.
Continuavo a
chiedermi come mai se ne stesse proprio sul bordo, con addosso
l’abito della
festa in un giorno feriale, immobile a fissare l’acqua sotto
di sé. Dopo un bel
po’, si toglie il cappello e lo posa delicatamente sul
tavolato del pontile.
Quindi si raddrizza e fissa l’acqua per qualche minuto
ancora, sporgendosi
sempre di più fino a perdere l’equilibrio e
cadere, rigido come un palo, senza
sollevare nemmeno uno schizzo. La testa riemerge una sola volta, rotea
gli
occhi e spalanca la bocca prima di tornare sotto.
Aspetto un
po’,
poi striscio fuori dal mio rifugio e vado sul pontile per vedere dove
sia
finito.
Ma di lui non
c’è più traccia.
Sul fasciame di
assi bagnate rimane solo il cappello di feltro marrone con un nastro
scuro
intorno alla tesa. So che non avrei dovuto farlo, ma lo prendo e lo
nascondo
sotto la siepe per metterci dentro le mie conchiglie e i frammenti di
vetro
colorato.
La gente parlava
della morte di Benson come se si fosse trattato di un incidente, ma io
sono
stata l’unica testimone della verità. Non ho mai
raccontato a nessuno quello
che vidi, nemmeno a mia madre e mio padre. Spesso mi chiedo cosa ci
fosse di
tanto terribile nella vita del macellaio da fargli venire il desiderio
di farla
finita. Ancora me lo sogno, mentre cade nell’acqua con il
vestito della fasta,
le scarpe e tutto quanto…
Una notte
c’è un
temporale spaventoso, il vento ulula giù per il camino e le
onde martellano gli
scogli ai piedi della casa. La pioggia batte sui vetri e il pero secco
nel
giardino dei vicini si spacca in due. Io sono a letto e conto le tegole
che
cadono dal tetto e si rompono toccando terra. E poi sento uno strano
tintinnio;
mi alzo a sedere per sentire meglio, ma all’inizio non riesco
a capire cosa
sia; poi mi rendo conto che sono i vetri delle mie bottigliette che
rotolano
fuori dalla siepe e sbatacchiano fra di loro.
Un’altra
folata di
vento fa rotolare la mia unica bottiglietta intatta e la spinge nello
strapiombo
frantumandola nella spiaggia sottostante.
Il mattino
seguente mio padre sta togliendo gli ormeggi al barchino e vede quel
cumolo di
vetri rotti. Pare che ne capisca immediatamente il significato,
perché ne
raccoglie un frammento tagliente e corre in casa e si mette a inveire
contro
Morva. Corre in camera loro e si sbatte la porta alle spalle. Io sono a
letto
con la testa sotto le coperte e cerco di cogliere ogni suono della
lite.
“….Un disastro….”
Poi, per circa un
minuto, si ferma tutto e si sente solo lei che singhiozza.
Dopodichè, mio padre
esce dalla stanza come una furia, torna alla barca e sparisce per tre
giorni.
Io aspetto un
po’.
[ …Come
Tuo solito, eh Hachi?...]
Sgattaiolo
giù dal
letto e mi dirigo in punta di piedi nella loro stanza. Morva
è sul letto e il
lenzuolo è sporco di sangue; lei non si muove,
così penso che sia morta.
[ …non la
guardi nemmeno con un
briciolo
di
compassione, Hachi…]
Ma si gira
lentamente verso di me…
-Sei contenta
adesso?- mormora. Ha la bocca ferita e gonfia, un occhio nero e un
brutto
taglio sulla guancia. Vado a prendere un po’
d’acqua e un panno e provo a
pulirle il sangue dalla faccia, ma lei mi spinge via e mi ordina di
andare a
scuola e di non raccontare a nessuno quello che stà
accadendo.
Mi vesto, ma non
vado a scuola; prendo un pezzo di pane e una mela.
[…la mela
è rossa…strano…tu
odi il rosso h Hachi-chan…]
Ora mi sento il
colpa per aver conservato i frammenti di vetro e la bottiglia; avrei
dovuto ridargliele
e prendermi i soldi del deposito. O quanto meno avrei dovuto
nasconderle in un
posto più sicuro.
Passai
trent’otto
ore fuori casa, vicino alla vecchia Baleniera, la mia seconda casa.
E’ un luogo
tetro sì, ma è meglio di quell’edificio
che chiamo casa.
Quando
tornai a casa, la
mamma non c’era più.