°°LONELINESS°°
CAPITOLO 1: Rovine di un amore.
Frase di presentazione _ perché amavano tutto di me _
La notte era tempestosa, e
la luce dei lampi illuminava il buio a giorno.
La grande casa che
sovrastava la collina sembrava morta, tanto era scura.
All’interno, invece, una vita
c’era. Nell’immensa camera da letto dei genitori, una bambina stava accucciata
alla parete, la testa tra le gambe piegate. Singhiozzava sonoramente, mentre le
lacrime le bagnavano il vestito troppo corto per quella stagione.
Sono morti.
Forse l’unica cosa chiara
in quella testolina di 7 anni era proprio quella. Sono morti.
E si chiedeva perché tremava anche se non aveva freddo, e perché piangeva anche
se non si era fatta male.
Sorrise amara. Perché lo
sapeva. Conosceva il motivo di quelle lacrime, lei comprendeva quei tremolii. Ma non voleva ammetterlo.
Perché dire “so perché
piango, so perché tremo”, sarebbe stato come dire che si, mamma è morta e papà
con lei.
Un tuono ruppe il silenzio
della stanza e sovrastò l’urlo della piccola. Per un attimo lungo un eternità.
Poi se ne andò cosi come era arrivato, senza tracce. La bambina cercò di
ricordarsi di quel gioco che le aveva insegnato papà, quando era piccola e
scappava nel loro lettone per paura del temporale.
1, 2, 3… perché bisognava
contare? Non se lo ricordava.
E all’improvviso una cosa
le fu certa.
Non ci sarebbe stato più
nessuno a spiegarglielo. Di questo, Chibiko ne era sicura.
°°°
“…quando gli abitanti del villaggio
di Waltz Hagen capirono che la strega, ormai adulta, non parlava più con
nessuno… avendo paura di essere divorati, cominciarono a detestarla. Sul
confine del villaggio la strega costruì un muro invisibile, e sebbene fosse
permesso di entrare, non era invece permesso uscire. Dopo 3 giorni un bambino
scomparso tornò tutto emaciato, e dopo aver chiamato tre volte il nome della
strega, cadde in un sonno profondo. Gli abitanti del villaggio presero delle
fiaccole, e andarono a incendiare la casa dove viveva La strega.
Ma in quel momento, una luce
abbagliante illuminò il cielo e la principessa del tempo, scesa in terra,
spense l’incendio in un istante. La principessa del tempo fece un cenno alla
strega e, quando entrambe annuirono, il muro che circondava il villaggio sparì,
lasciando il posto a una creatura enorme e mostruosa. La principessa e la
strega dopo molto lottare riuscirono infine a soggiogare il mostro e a
riportare la pace nel villaggio. Quando il bambino si svegliò, raccontò che
quel muro era stato costruito dalla strega Per difendere il villaggio dal
mostro, e che questa non poteva più parlare per non rompere l’incantesimo.
Gli abitanti del villaggio furono
molto grati alla strega e mentre lei si incamminava verso il castello con la
principessa, le chiesero di dire qualcosa. La strega non disse nulla…
Ma cantò una canzone.
Oggi nessuno ricorda più il nome di
quella strega,
ma la sua canzone,
ancora adesso, viene cantata in
qualche angolo di quel villaggio”.
La donna sorrise vedendo
l’espressione estasiata della figlia.
Espressione che si tramutò presto in
confusione.
“mamma, perché gli abitanti del
villaggio odiavano la strega?”
“perché nessuno sapeva che se non
parlava era per proteggere il villaggio. Prima di sapere la verità, hanno
iniziato a pensare a cose non vere”.
La donna sospirò.
“ma almeno qualcuno poteva pensare
che se faceva cosi, forse aveva i suoi buoni motivi”.
Chibiko sorrise, lodandosi delle
carezze che la madre le faceva.
“fossi stata io l’avrei pensato”.
La madre la guardò stupita, senza
capire il senso delle parole della figlia.
“come, scusa?”
La bambina chiuse gli occhi,
avvicinandosi a sua madre per stare più al calduccio.
“io… avrei creduto in lei”.
Chibiko si svegliò di
soprassalto. Leggermente confusa, osservò la stanza intorno a sè. La sua solita
vecchia camera, nella sua solita vecchia casa. Si coprì il volto con le piccole
mani, cercando di cacciare indietro quelle lacrime che, prepotenti, volevano
assolutamente uscire. Ma lei se lo era giurata. Basta lacrime.
Si alzò pigramente dal
letto, osservando distratta lo specchio. Una ragazzina di 7 anni, con i capelli
castani e gli occhi scuri rispondeva al suo sguardo.
“tesoro, tu sei bella come il tuo
papà. I tuoi capelli, uguali ai suoi, mi ricordano tanto le castagne,
che io amo alla follia!”
Chibiko rise, al pensiero di sembrare
una castagna.
“ma no, amore, che dici? Chibiko è
bella come te! ha i tuoi stupendi occhi scuri, con quella scintilla sempre
viva. Come una stella che brilla in una notte buia”.
La donna baciò teneramente l’uomo,
mentre la bambina li osservava, disgustata.
“ma prendetevi una stanza!!”
“CHIBIKO!”
La ragazzina sorrise, perché tanto i
suoi genitori non riuscivano a stare arrabbiati con lei.
“comunque una cosa è sicura…”
continuò Chibiko “… che sono stupenda!”
La madre scosse la testa sorridente,
per poi guardare il padre della piccola.
“il caratteraccio, invece, non so
proprio da chi l’abbia preso!”
Chibiko prese la spazzola
e la tirò rabbiosa addosso alla sua immagine, che si ruppe in mille altre se
stesse. Corse all’armadio graffiandosi i piedi, e prese qualche vestito. Entrò
in bagno e li, davanti all’ennesimo specchio, urlò.
Urlò perché ciò che vedeva
rispecchiava ciò che aveva perso.
Urlò perché quella casa
era troppo silenziosa.
Urlò perché odiava se
stessa.
Voleva morire.
Si legò i lunghi capelli
che le arrivavano fino al sedere, scoprendo il collo. Nera dalla rabbia, prese
le forbici da un cassetto e fissò di nuovo la sua immagine. Poi,con sicurezza,
scattò con la mano e si tagliò la coda. Mentre i capelli le ricadevano
disordinati sulla testa, per un attimo chiese scusa a sua madre.
“Chibiko, oggi posso farti le
treccioline? O vuoi i codini?”
“mmm…due trecce ai lati. Va bene,
mamma?”
°°°
“quindi se mettete una
mela con un’altra mela, quante mele avrete?” domandò la maestra, sorridente. Molti
bambini alzarono la mano, agitandosi sulla sedia come se scottasse. Sophia
guardò i bambini, per poi accorgersi che solo uno alunno non era attento.
O meglio, un’alunna.
“Chibiko, tu sai la
risposta?” domandò con fare cortese, senza però riuscire a trattenere una nota
di nostalgia. Guardava quella bambina cosi seria che fissava fuori dalla
finestra e quasi non la riconobbe. Lo sguardo spento vagava senza meta oltre il
cancello della scuola elementare, mentre i capelli erano scomposti sulla testa,
come a non sapere bene come dovessero stare. Si ricordò di quella bambina
seduta in quello stesso posto, sempre sorridente, attenta. Quella bambina che
portava i capelli lunghissimi e sempre con acconciature strane. E se le
chiedevi il perché, ti rispondeva sempre…
“due” la voce annoiata
della bambina riportò Sophia alla realtà.
“perché alla mia mamma le piace tanto acconciarmi i
capelli. Dice che è divertente e quando lo fa ride sempre! E se lei ride, rido
anche io!”.
“ehm...si…
si è giusto Chibiko. Brava!” esclamò la maestra, sconvolta da quel ricordo.
Chibiko tornò a fissare il vuoto.
Non le importava del brava
e non le importava della scuola.
Non le importava più
niente.
La campanella dell’ultima
ora suonò. La bambina raccolse le sue cose e uscì, ignorando Sophia che la
chiamava. Altre parole di conforto? Un altro tentativo di consolazione? Non ne aveva bisogno.
La scolaresca si riversò
nel grande giardino della scuola. Tutti i bambini correvano dai genitori, che
li aspettavano a braccia aperte, pronti a sapere della giornata dei figli.
Chibiko osservò con sguardo vuoto quelle famiglie felici, quei sorrisi, quegli
abbracci, quelle carezze. Quelle cose che fino a un mese prima erano anche sue.
“tesoro, come è andata
oggi?”.
Chibiko si voltò,
scorgendo una madre che aggiustava teneramente il giubbottino alla figlia,
mentre questa sventolava le braccia raccontando della lezione di storia e di
geografia.
“mamma, a me non piace la
matematica!”
“però la matematica è
brutta… non mi piace!”
“perché, Chibiko?”
“perché, amore?”
“è troppo… fredda! Ha delle regole
precise e non la puoi cambiare! È brutto”
“perché non trovi che sia…
vuota? Insomma, o è cosi o è cosi! È ingiusto… non mi piace!”
“ahahaha! Sei proprio come me alla
tua età! Uno spirito libero!”
Chibiko scappò via prima
ancora di sentire la risposta. Le sembrava che tutta la sua vita fosse
diventata di dominio pubblico. Ogni cosa che vedeva le ricordava un tempo
passato che le mancava da morire.
…
Avrebbe tanto voluto
sfogarsi con qualcuno. Ma non aveva nessuno. Nessun parente, nessun amico. Era
sola.
Chibiko sospirò.
“fa niente” si disse “ mi
ci abituerò”.
Proprio come si era
ripromessa il giorno dei funerali, quando fissava le lapidi dei suoi genitori,
tanto vicine da potersi toccare, e la voce del prete sembrava soltanto un suono
ovattato.
D’ora in poi, mi rialzerò sempre
sulle mie gambe. Da sola. Senza più accettare la mano di nessuno.
La bambina sembrò tornare
alla realtà all’improvviso. Aveva camminato per ore da sola, in giro per la
città. Stava imbrunendo e molte persone tornavano a casa. Lei invece non se ne
fece problema.
Tanto non c’era nessuno ad
aspettarla. Perché sarebbe dovuta andare in quell’immensa casa? Per stare da
sola, nel silenzio più totale, a ricordare ogni singolo attimo della sua ex
vita perfetta? Non ci teneva proprio.
Si fermò in una pizzeria
al taglio e prese due pezzi di margherita. Passò per il parco, sedendosi sulla
prima panchina libera. Addentò la pizza, sdraiandosi. La sensazione del ferro
gelido sul collo scoperto la fece rabbrividire. Ma sorrise. Osservò l’infinito
cielo stellato sopra di lei e per un attimo ebbe voglia di perdercisi dentro.
Da piccola puntava spesso il dito e tentava di contarle. Però poi perdeva in
conto e rincominciava.
“papà quante stelle ci sono in
cielo?”
“eheh Chibiko nessuno lo saprà mai”
“perché?”
“bhe, perché…perché...”
L’uomo sembrava in difficoltà, forse
nemmeno lui conosceva la risposta alla domanda. Poi però sorrise.
“perché nessuno si è mai fermato a
contarle”
La bambina sorrise.
“allora lo farò io!!”
“ma… Chibiko che dici? Nessuno c’è
mai riuscito. È impossibile!”
Chibiko lo guardò.
“io ci riuscirò. Sai, mi piace la
parola impossibile. Perché si può sempre screditare!!”
E mentre la bambina correva a contare
le stelle, il padre riuscì solo a pensare una cosa.
“…fantastico, stasera Emiko mi
ammazza. E io che le avevo giurato che non avrei più messo sogni assurdi in
testa a nostra figlia!”
Chibiko riaprì gli occhi,
seria. Con indecisione alzò il braccio, puntando il dito verso il cielo.
Inclinò leggermente la testa, mentre iniziava a contare.
1…2…3…4…5…6…7…
Si tirò su di scatto. Ma
che diavolo…???
Si passò una mano tra i
capelli corti, mentre imprecava contro se stessa e la sua stupida voglia di
ricordare mamma e papà.
“ehi, ragazzino!”
La bambina osservò il
gruppetto di ragazzini che le si era fermato davanti. Inconsciamente, si voltò
indietro.
“parliamo con te, stupido
moccioso!”
Chibiko si indicò con
l’indice, mentre pensava che si, in effetti sembrava un maschio. I capelli
corti e scombinati sulla testa, i jeans larghi e scuri, con una catena al
fianco destro. La maglia di 3 taglie più grande la copriva fino a quasi metà
coscia. Niente collanine, niente orecchini, niente che potesse ricondurre la
sua immagine ad una ragazza. Sorrise, mentre alzava lo sguardo su quei bambini
di al massimo 2/3 anni più grandi di lei, e una strana rabbia le montava
dentro.
“che volete?”
“che ti levi dalla nostra
panchina!”
La bambina li guardò
strafottente, sentendo l’ira che cresceva sempre di più dentro di lei.
“non mi pare ci sia
scritto il vostro nome!”
I ragazzini spalancarono
gli occhi, stupiti.
Moccioso impertinente.
“ma se vi credete alla mia
altezza…”
Chibiko scattò avanti con
il pugno carico. Iniziarono una rissa tremenda, bambini di 8, 9, e 10 anni
contro una furia di soli 7.
Il cielo nuvoloso si
trasformò in pioggia proprio durante quello scontro. La rabbia cieca di Chibiko
si riversò su quei ragazzini.
Voglio sporcarmi.
La bambina, mentre
malmenava i suoi avversari, riusciva ad aver chiaro solo quello.
Voglio sporcarmi.
“ti… ti prego… lasciami
andare…”
Il giovane che Chibiko
teneva per il collo la supplicava. E a lei dava fastidio. Tremendamente
fastidio. Gli diede uno schiaffo cosi potente che l’eco, in quel parco vuoto, riecheggiò
per alcuni secondi.
“non sono mica Dio… quindi
smettila di pregarmi”.
Alzò la testa verso il
cielo, permettendo alle gocce di bagnarle il viso sporco di sangue. Intorno a
se, giacevano svenuti tutti gli appartenenti a quel gruppetto che aveva osato sfidarla. Il sangue per terra si
mischiava all’acqua, come a voler pulire quel luogo.
E Chibiko si ritrovò a
considerare la pioggia sua nemica.
“non c’è nessuno… che
voglia battersi con me?”
Sussurrò, forse più a se
stessa che a qualcun altro.
Mi fa male il cuore. Vorrei essere picchiata fino a
dimenticare tutto.
La bambina si allontanò
verso casa, con lo sguardo vuoto di chi non ha più niente da perdere.
“Oh, Chibiko! Sei cosi bella che mi
sembri un angelo!”
No mamma, ti sbagli. Io
non sono un angelo. Piuttosto, un diavolo.
°°°
“l’hai fatto di nuovo,
vero?! Ma quando imparerai???”
Chibiko alzò gli occhi al
cielo, scocciata. Oramai Otoha le faceva una predica al giorno. Non ne poteva
più.
“scusami, non succederà
più!”
Disse senza troppa
convinzione quella frase che oramai aveva imparato a memoria, con lo stesso
tono di sempre. Un dispiaciuto che tutto era tranne che dispiaciuto.
La dottoressa iniziò a
pulirle il visino.
“tesoro, guardati! Sei tutta sporca!
Dai vieni qua”
La bambina cercò di
ritrarsi dalla mano che, leggera, le puliva le ferite.
“di nuovo… mi spieghi
perché non vuoi mai farti pulire?”
Chibiko non rispose,
fissando interessata alcuni oggetti strani che non sapeva minimamente a cosa
potessero servire.
Perché era la mia mamma a pulirmi il viso.
Alzò gli occhi sulla
dottoressa. Andava spesso a trovarla. Dopo quella notte, una delle tante, in
cui un poliziotto l’aveva presa e portata li, ci aveva preso l’abitudine.
Non che le volesse bene.
Oramai, Chibiko non conosceva
più il significato della parola “affetto”.
Semplicemente, era una
persona che se lei parlava l’ascoltava.
“bhe, come va la tua love
story con Toma?”
Chiese, maliziosa. La
dottoressa arrossi di botto. Ma poi sbuffò.
Toma era un aitante uomo
di 30 anni, con i capelli bianchi e gli occhi viola. Dolce, simpatico, gentile.
Il classico “principe azzurro” che sognano tutte. Aveva solo un insignificante
difetto.
“come vuoi che vada?
L’unica idiota al mondo che va ad innamorarsi di un gay sono proprio io!”
Commentò, acida.
Otoha conosceva Toma da
una vita, erano cresciuti insieme. E mentre la cara dottoressa sentiva nascere
in lei un sentimento verso l’imprenditore, lui sentiva che i suoi sentimenti
correvano verso “l’altra sponda”.
Chibiko rise. Otoha era
sempre stata sfortunata con gli uomini.
“vabbè, tienimi
aggiornata! Adesso scappo! Arrivederci doc!”
Salutò Chibiko, la mano
già abbassata sulla maniglia.
Le piaceva perdersi tra i
corridoi. Quei muri bianchi e immacolati le ricordavano le lenzuola della mamma
stese al sole. Per un attimo la facevano sentire meno sporca di quello che era.
Nel suo perdersi, però,
non si accorse della sezione in cui era arrivata. Vide solo il numero sulla
porta, prima che i ricordi iniziassero a scorrere. 504.
Chibiko scese le scale con dolcezza,
sapendo a memoria quali saltare per evitare di farsi sentire.
“tesoro, quando pensi di dirglielo?”
Dallo spiraglio della porta, Chibiko
vide la madre sorridere, amara.
“non vorrei coinvolgerla… è cosi
piccola…”
L’uomo le si avvicinò, carezzandole
la testa.
“lo so. Ma tu ce la farai!”
La madre alzò la testa.
“ovvio amore mio che ce la farò! Non
ho più 15 anni, quando ero cosi stupida da dire –se mi verrà un tumore non
voglio farmi curare, perché la gente mi deve ricordare com’ero prima di
morire-. Sono adulta, adesso. E ho la ragione più fantastica del mondo per
vivere: Chibiko”.
La donna si asciugò velocemente la
lacrima, smettendo di guardare fuori dalla finestra.
Chibiko entrò, sorridente e con un
mazzo di fiori.
“mamma, questi sono per te!”
“oh, amore mio! Grazie!”
La bambina si sedette vicino alla
madre, raccontandole tutte le ultime novità. Ma ben presto arrivò l’ora dei
saluti.
“ci vediamo domani, mamma!”
La donna fece un sorriso spento,
prima di carezzarle la testa con dolcezza.
“certo amore mio. Ma tu ricordati
sempre che sei il mio angelo, la mia vita, il mio sorriso e la mia gioia. Ti
amo e ti amerò per sempre bambina mia!”
La madre abbracciò Chibiko, che
rispose all’abbraccio senza sforzarsi troppo di leggere tra le righe delle
parole di mamma.
“io per te ci sarò sempre, tesoro. Non
ti lascerò mai sola”
Le sussurrò all’orecchio, mentre le
bagnava i capelli con lacrime silenziose.
Chibiko sbuffò, mentre
usciva dall’ospedale. Quella fu l’ultima volta che vide sua madre.
°°°
To be continue…
Ed ecco il primo capitolo
di questa strana storia.
Due paroline credo siano
d’obbligo.
Amo il personaggio di
Chibiko. È particolare, è complicata. È soltanto una comparsa ma mi attira
proprio per questo. Perché è con il contorno che riesci ad apprezzare la
portata principale.
Ho provato a immaginare
come si sarebbe sentita una bambina di 7 anni a essere lasciata sola. Una
bambina come Chibiko, che io immagino forte fuori, ma fragile dentro.
È come… un insieme di
situazioni che portano Chibiko a ricordare il suo passato.
Bè, che dire… io scrivo
per il piacere di farlo. Però, mi farebbe molto felice che commentaste, per
dirmi cosa ne pensate, se vi piace o meno questa strana storia.
E fatemi sapere se è
passabile o se è proprio da buttare via!!
Alla prossima. Bacioni,
keiko!