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Autore: keiko 93    04/03/2009    3 recensioni
"mamma, perchè gli abitanti del villaggio odiavano la strega?" "perchè nessun sapeva che se non parlava era per proteggere il villaggio. Prima di sapere la verità, hanno iniziato a pensare a cose non vere". la donna sospirò. "ma almeno qualcuno poteva pensare che se faceva cosi, forse aveva i suoi buoni motivi" "fossi stata io l'avrei pensato" "come, scusa?" "io...avrei creduto in lei"
Genere: Triste, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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°°LONELINESS°°

 

 

 

°°LONELINESS°°

 

CAPITOLO 1:  Rovine di un amore.

 

Frase di presentazione  _ perché amavano tutto di me _

 

 

La notte era tempestosa, e la luce dei lampi illuminava il buio a giorno.

La grande casa che sovrastava la collina sembrava morta, tanto era scura.

All’interno, invece, una vita c’era. Nell’immensa camera da letto dei genitori, una bambina stava accucciata alla parete, la testa tra le gambe piegate. Singhiozzava sonoramente, mentre le lacrime le bagnavano il vestito troppo corto per quella stagione.

 

 

Sono morti.

 

 

Forse l’unica cosa chiara in quella testolina di 7 anni era proprio quella. Sono morti.

E si chiedeva perché tremava anche se non aveva freddo, e perché piangeva anche se non si era fatta male.

Sorrise amara. Perché lo sapeva. Conosceva il motivo di quelle lacrime, lei comprendeva quei tremolii. Ma non voleva ammetterlo.

Perché dire “so perché piango, so perché tremo”, sarebbe stato come dire che si, mamma è morta e papà con lei.

Un tuono ruppe il silenzio della stanza e sovrastò l’urlo della piccola. Per un attimo lungo un eternità. Poi se ne andò cosi come era arrivato, senza tracce. La bambina cercò di ricordarsi di quel gioco che le aveva insegnato papà, quando era piccola e scappava nel loro lettone per paura del temporale.

1, 2, 3… perché bisognava contare? Non se lo ricordava.

 

E all’improvviso una cosa le fu certa.

Non ci sarebbe stato più nessuno a spiegarglielo. Di questo, Chibiko ne era sicura.

 

°°°

 

“…quando gli abitanti del villaggio di Waltz Hagen capirono che la strega, ormai adulta, non parlava più con nessuno… avendo paura di essere divorati, cominciarono a detestarla. Sul confine del villaggio la strega costruì un muro invisibile, e sebbene fosse permesso di entrare, non era invece permesso uscire. Dopo 3 giorni un bambino scomparso tornò tutto emaciato, e dopo aver chiamato tre volte il nome della strega, cadde in un sonno profondo. Gli abitanti del villaggio presero delle fiaccole, e andarono a incendiare la casa dove viveva La strega.

Ma in quel momento, una luce abbagliante illuminò il cielo e la principessa del tempo, scesa in terra, spense l’incendio in un istante. La principessa del tempo fece un cenno alla strega e, quando entrambe annuirono, il muro che circondava il villaggio sparì, lasciando il posto a una creatura enorme e mostruosa. La principessa e la strega dopo molto lottare riuscirono infine a soggiogare il mostro e a riportare la pace nel villaggio. Quando il bambino si svegliò, raccontò che quel muro era stato costruito dalla strega Per difendere il villaggio dal mostro, e che questa non poteva più parlare per non rompere l’incantesimo.

Gli abitanti del villaggio furono molto grati alla strega e mentre lei si incamminava verso il castello con la principessa, le chiesero di dire qualcosa. La strega non disse nulla…

Ma cantò una canzone.

Oggi nessuno ricorda più il nome di quella strega,

ma la sua canzone,

ancora adesso, viene cantata in qualche angolo di quel villaggio”.

La donna sorrise vedendo l’espressione estasiata della figlia.

Espressione che si tramutò presto in confusione.

“mamma, perché gli abitanti del villaggio odiavano la strega?”

“perché nessuno sapeva che se non parlava era per proteggere il villaggio. Prima di sapere la verità, hanno iniziato a pensare a cose non vere”.

La donna sospirò.

“ma almeno qualcuno poteva pensare che se faceva cosi, forse aveva i suoi buoni motivi”.

Chibiko sorrise, lodandosi delle carezze che la madre le faceva.

“fossi stata io l’avrei pensato”.

La madre la guardò stupita, senza capire il senso delle parole della figlia.

“come, scusa?”

La bambina chiuse gli occhi, avvicinandosi a sua madre per stare più al calduccio.

“io… avrei creduto in lei”.

 

 

Chibiko si svegliò di soprassalto. Leggermente confusa, osservò la stanza intorno a sè. La sua solita vecchia camera, nella sua solita vecchia casa. Si coprì il volto con le piccole mani, cercando di cacciare indietro quelle lacrime che, prepotenti, volevano assolutamente uscire. Ma lei se lo era giurata. Basta lacrime.

Si alzò pigramente dal letto, osservando distratta lo specchio. Una ragazzina di 7 anni, con i capelli castani e gli occhi scuri rispondeva al suo sguardo.

 

“tesoro, tu sei bella come il tuo papà. I tuoi capelli, uguali ai suoi, mi ricordano tanto le castagne,

che io amo alla follia!”

Chibiko rise, al pensiero di sembrare una castagna.

“ma no, amore, che dici? Chibiko è bella come te! ha i tuoi stupendi occhi scuri, con quella scintilla sempre viva. Come una stella che brilla in una notte buia”.

La donna baciò teneramente l’uomo, mentre la bambina li osservava, disgustata.

“ma prendetevi una stanza!!

“CHIBIKO!”

La ragazzina sorrise, perché tanto i suoi genitori non riuscivano a stare arrabbiati con lei.

“comunque una cosa è sicura…” continuò Chibiko “… che sono stupenda!”

La madre scosse la testa sorridente, per poi guardare il padre della piccola.

“il caratteraccio, invece, non so proprio da chi l’abbia preso!”

 

 

Chibiko prese la spazzola e la tirò rabbiosa addosso alla sua immagine, che si ruppe in mille altre se stesse. Corse all’armadio graffiandosi i piedi, e prese qualche vestito. Entrò in bagno e li, davanti all’ennesimo specchio, urlò.

Urlò perché ciò che vedeva rispecchiava ciò che aveva perso.

Urlò perché quella casa era troppo silenziosa.

Urlò perché odiava se stessa.

Voleva morire.

Si legò i lunghi capelli che le arrivavano fino al sedere, scoprendo il collo. Nera dalla rabbia, prese le forbici da un cassetto e fissò di nuovo la sua immagine. Poi,con sicurezza, scattò con la mano e si tagliò la coda. Mentre i capelli le ricadevano disordinati sulla testa, per un attimo chiese scusa a sua madre.

 

“Chibiko, oggi posso farti le treccioline? O vuoi i codini?”

“mmm…due trecce ai lati. Va bene, mamma?”

 

 

 

°°°

 

“quindi se mettete una mela con un’altra mela, quante mele avrete?” domandò la maestra, sorridente. Molti bambini alzarono la mano, agitandosi sulla sedia come se scottasse. Sophia guardò i bambini, per poi accorgersi che solo uno alunno non era attento.

O meglio, un’alunna.

“Chibiko, tu sai la risposta?” domandò con fare cortese, senza però riuscire a trattenere una nota di nostalgia. Guardava quella bambina cosi seria che fissava fuori dalla finestra e quasi non la riconobbe. Lo sguardo spento vagava senza meta oltre il cancello della scuola elementare, mentre i capelli erano scomposti sulla testa, come a non sapere bene come dovessero stare. Si ricordò di quella bambina seduta in quello stesso posto, sempre sorridente, attenta. Quella bambina che portava i capelli lunghissimi e sempre con acconciature strane. E se le chiedevi il perché, ti rispondeva sempre…

“due” la voce annoiata della bambina riportò Sophia alla realtà.

 

“perché alla mia mamma le piace tanto acconciarmi i capelli. Dice che è divertente e quando lo fa ride sempre! E se lei ride, rido anche io!”.

 

“ehm...si… si è giusto Chibiko. Brava!” esclamò la maestra, sconvolta da quel ricordo. Chibiko tornò a fissare il vuoto.

Non le importava del brava e non le importava della scuola.

Non le importava più niente.

 

La campanella dell’ultima ora suonò. La bambina raccolse le sue cose e uscì, ignorando Sophia che la chiamava. Altre parole di conforto? Un altro tentativo di consolazione? Non ne aveva bisogno.

La scolaresca si riversò nel grande giardino della scuola. Tutti i bambini correvano dai genitori, che li aspettavano a braccia aperte, pronti a sapere della giornata dei figli. Chibiko osservò con sguardo vuoto quelle famiglie felici, quei sorrisi, quegli abbracci, quelle carezze. Quelle cose che fino a un mese prima erano anche sue.

“tesoro, come è andata oggi?”.

Chibiko si voltò, scorgendo una madre che aggiustava teneramente il giubbottino alla figlia, mentre questa sventolava le braccia raccontando della lezione di storia e di geografia.

 

“mamma, a me non piace la matematica!”

 

“però la matematica è brutta… non mi piace!”

 

“perché, Chibiko?”

“perché, amore?”

 

“è troppo… fredda! Ha delle regole precise e non la puoi cambiare! È brutto”

 

“perché non trovi che sia… vuota? Insomma, o è cosi o è cosi! È ingiusto… non mi piace!”

 

“ahahaha! Sei proprio come me alla tua età! Uno spirito libero!”

 

Chibiko scappò via prima ancora di sentire la risposta. Le sembrava che tutta la sua vita fosse diventata di dominio pubblico. Ogni cosa che vedeva le ricordava un tempo passato che le mancava da morire.

Avrebbe tanto voluto sfogarsi con qualcuno. Ma non aveva nessuno. Nessun parente, nessun amico. Era sola.

Chibiko sospirò.

“fa niente” si disse “ mi ci abituerò”.

Proprio come si era ripromessa il giorno dei funerali, quando fissava le lapidi dei suoi genitori, tanto vicine da potersi toccare, e la voce del prete sembrava soltanto un suono ovattato.

 

D’ora in poi, mi rialzerò sempre sulle mie gambe. Da sola. Senza più accettare la mano di nessuno.

 

 

La bambina sembrò tornare alla realtà all’improvviso. Aveva camminato per ore da sola, in giro per la città. Stava imbrunendo e molte persone tornavano a casa. Lei invece non se ne fece problema.

Tanto non c’era nessuno ad aspettarla. Perché sarebbe dovuta andare in quell’immensa casa? Per stare da sola, nel silenzio più totale, a ricordare ogni singolo attimo della sua ex vita perfetta? Non ci teneva proprio.

Si fermò in una pizzeria al taglio e prese due pezzi di margherita. Passò per il parco, sedendosi sulla prima panchina libera. Addentò la pizza, sdraiandosi. La sensazione del ferro gelido sul collo scoperto la fece rabbrividire. Ma sorrise. Osservò l’infinito cielo stellato sopra di lei e per un attimo ebbe voglia di perdercisi dentro. Da piccola puntava spesso il dito e tentava di contarle. Però poi perdeva in conto e rincominciava.

“papà quante stelle ci sono in cielo?”

“eheh Chibiko nessuno lo saprà mai”

“perché?”

“bhe, perché…perché...

L’uomo sembrava in difficoltà, forse nemmeno lui conosceva la risposta alla domanda. Poi però sorrise.

“perché nessuno si è mai fermato a contarle”

La bambina sorrise.

“allora lo farò io!!

“ma… Chibiko che dici? Nessuno c’è mai riuscito. È impossibile!”

Chibiko lo guardò.

“io ci riuscirò. Sai, mi piace la parola impossibile. Perché si può sempre screditare!!

E mentre la bambina correva a contare le stelle, il padre riuscì solo a pensare una cosa.

“…fantastico, stasera Emiko mi ammazza. E io che le avevo giurato che non avrei più messo sogni assurdi in testa a nostra figlia!”

 

Chibiko riaprì gli occhi, seria. Con indecisione alzò il braccio, puntando il dito verso il cielo. Inclinò leggermente la testa, mentre iniziava a contare.

1…2…3…4…5…6…7…

Si tirò su di scatto. Ma che diavolo…???

Si passò una mano tra i capelli corti, mentre imprecava contro se stessa e la sua stupida voglia di ricordare mamma e papà.

“ehi, ragazzino!”

La bambina osservò il gruppetto di ragazzini che le si era fermato davanti. Inconsciamente, si voltò indietro.

“parliamo con te, stupido moccioso!”

Chibiko si indicò con l’indice, mentre pensava che si, in effetti sembrava un maschio. I capelli corti e scombinati sulla testa, i jeans larghi e scuri, con una catena al fianco destro. La maglia di 3 taglie più grande la copriva fino a quasi metà coscia. Niente collanine, niente orecchini, niente che potesse ricondurre la sua immagine ad una ragazza. Sorrise, mentre alzava lo sguardo su quei bambini di al massimo 2/3 anni più grandi di lei, e una strana rabbia le montava dentro.

“che volete?”

“che ti levi dalla nostra panchina!”

La bambina li guardò strafottente, sentendo l’ira che cresceva sempre di più dentro di lei.

“non mi pare ci sia scritto il vostro nome!”

I ragazzini spalancarono gli occhi, stupiti.

Moccioso impertinente.

“ma se vi credete alla mia altezza…”

Chibiko scattò avanti con il pugno carico. Iniziarono una rissa tremenda, bambini di 8, 9, e 10 anni contro una furia di soli 7.

Il cielo nuvoloso si trasformò in pioggia proprio durante quello scontro. La rabbia cieca di Chibiko si riversò su quei ragazzini.

Voglio sporcarmi.

La bambina, mentre malmenava i suoi avversari, riusciva ad aver chiaro solo quello.

Voglio sporcarmi.

“ti… ti prego… lasciami andare…”

Il giovane che Chibiko teneva per il collo la supplicava. E a lei dava fastidio. Tremendamente fastidio. Gli diede uno schiaffo cosi potente che l’eco, in quel parco vuoto, riecheggiò per alcuni secondi.

“non sono mica Dio… quindi smettila di pregarmi”.

Alzò la testa verso il cielo, permettendo alle gocce di bagnarle il viso sporco di sangue. Intorno a se, giacevano svenuti tutti gli appartenenti a quel gruppetto che aveva osato sfidarla. Il sangue per terra si mischiava all’acqua, come a voler pulire quel luogo.

E Chibiko si ritrovò a considerare la pioggia sua nemica.

“non c’è nessuno… che voglia battersi con me?”

Sussurrò, forse più a se stessa che a qualcun altro.

Mi fa male il cuore. Vorrei essere picchiata fino a dimenticare tutto.

La bambina si allontanò verso casa, con lo sguardo vuoto di chi non ha più niente da perdere.

 

“Oh, Chibiko! Sei cosi bella che mi sembri un angelo!”

 

No mamma, ti sbagli. Io non sono un angelo. Piuttosto, un diavolo.

 

°°°

 

“l’hai fatto di nuovo, vero?! Ma quando imparerai???

Chibiko alzò gli occhi al cielo, scocciata. Oramai Otoha le faceva una predica al giorno. Non ne poteva più.

“scusami, non succederà più!”

Disse senza troppa convinzione quella frase che oramai aveva imparato a memoria, con lo stesso tono di sempre. Un dispiaciuto che tutto era tranne che dispiaciuto.

La dottoressa iniziò a pulirle il visino.

“tesoro, guardati! Sei tutta sporca! Dai vieni qua”

La bambina cercò di ritrarsi dalla mano che, leggera, le puliva le ferite.

“di nuovo… mi spieghi perché non vuoi mai farti pulire?”

Chibiko non rispose, fissando interessata alcuni oggetti strani che non sapeva minimamente a cosa potessero servire.

Perché era la mia mamma a pulirmi il viso.

Alzò gli occhi sulla dottoressa. Andava spesso a trovarla. Dopo quella notte, una delle tante, in cui un poliziotto l’aveva presa e portata li, ci aveva preso l’abitudine.

Non che le volesse bene.

Oramai, Chibiko non conosceva più il significato della parola “affetto”.

Semplicemente, era una persona che se lei parlava l’ascoltava.

“bhe, come va la tua love story con Toma?”

Chiese, maliziosa. La dottoressa arrossi di botto. Ma poi sbuffò.

Toma era un aitante uomo di 30 anni, con i capelli bianchi e gli occhi viola. Dolce, simpatico, gentile. Il classico “principe azzurro” che sognano tutte. Aveva solo un insignificante difetto.

“come vuoi che vada? L’unica idiota al mondo che va ad innamorarsi di un gay sono proprio io!”

Commentò, acida.

Otoha conosceva Toma da una vita, erano cresciuti insieme. E mentre la cara dottoressa sentiva nascere in lei un sentimento verso l’imprenditore, lui sentiva che i suoi sentimenti correvano verso “l’altra sponda”.

Chibiko rise. Otoha era sempre stata sfortunata con gli uomini.

“vabbè, tienimi aggiornata! Adesso scappo! Arrivederci doc!”

Salutò Chibiko, la mano già abbassata sulla maniglia.

 

Le piaceva perdersi tra i corridoi. Quei muri bianchi e immacolati le ricordavano le lenzuola della mamma stese al sole. Per un attimo la facevano sentire meno sporca di quello che era.

Nel suo perdersi, però, non si accorse della sezione in cui era arrivata. Vide solo il numero sulla porta, prima che i ricordi iniziassero a scorrere. 504.

 

Chibiko scese le scale con dolcezza, sapendo a memoria quali saltare per evitare di farsi sentire.

 “tesoro, quando pensi di dirglielo?”

Dallo spiraglio della porta, Chibiko vide la madre sorridere, amara.

“non vorrei coinvolgerla… è cosi piccola…”

L’uomo le si avvicinò, carezzandole la testa.

“lo so. Ma tu ce la farai!”

La madre alzò la testa.

“ovvio amore mio che ce la farò! Non ho più 15 anni, quando ero cosi stupida da dire –se mi verrà un tumore non voglio farmi curare, perché la gente mi deve ricordare com’ero prima di morire-. Sono adulta, adesso. E ho la ragione più fantastica del mondo per vivere: Chibiko”.

 

 

La donna si asciugò velocemente la lacrima, smettendo di guardare fuori dalla finestra.

Chibiko entrò, sorridente e con un mazzo di fiori.

“mamma, questi sono per te!”

“oh, amore mio! Grazie!”

La bambina si sedette vicino alla madre, raccontandole tutte le ultime novità. Ma ben presto arrivò l’ora dei saluti.

“ci vediamo domani, mamma!”

La donna fece un sorriso spento, prima di carezzarle la testa con dolcezza.

“certo amore mio. Ma tu ricordati sempre che sei il mio angelo, la mia vita, il mio sorriso e la mia gioia. Ti amo e ti amerò per sempre bambina mia!”

La madre abbracciò Chibiko, che rispose all’abbraccio senza sforzarsi troppo di leggere tra le righe delle parole di mamma.

“io per te ci sarò sempre, tesoro. Non ti lascerò mai sola

Le sussurrò all’orecchio, mentre le bagnava i capelli con lacrime silenziose.

 

Chibiko sbuffò, mentre usciva dall’ospedale. Quella fu l’ultima volta che vide sua madre.

 

°°°

To be continue…

 

Ed ecco il primo capitolo di questa strana storia.

Due paroline credo siano d’obbligo.

Amo il personaggio di Chibiko. È particolare, è complicata. È soltanto una comparsa ma mi attira proprio per questo. Perché è con il contorno che riesci ad apprezzare la portata principale.

Ho provato a immaginare come si sarebbe sentita una bambina di 7 anni a essere lasciata sola. Una bambina come Chibiko, che io immagino forte fuori, ma fragile dentro.

È come… un insieme di situazioni che portano Chibiko a ricordare il suo passato.

 

Bè, che dire… io scrivo per il piacere di farlo. Però, mi farebbe molto felice che commentaste, per dirmi cosa ne pensate, se vi piace o meno questa strana storia.

E fatemi sapere se è passabile o se è proprio da buttare via!!

Alla prossima. Bacioni, keiko!

 

 

 

 

 

  
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