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Autore: SpenteStelle    09/12/2015    2 recensioni
L’uomo abbassa di nuovo gli occhi. Ora è come se parlasse tra sé, a voce bassa ed esitante, raccontando una piccola cosa privata e coperta di pudore; un pensiero che si ama tanto ma di cui ci si vergogna persino un po’.
“Adesso... adesso, niente. Adesso vorrei dirti che ti ho aspettata tanto. Adesso vorrei che tu venissi con me."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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UN’ALTRA VITA
 
(E un vestito bianco, con grandi fiori rossi)
 
 
Gliene ha parlato, appena è rientrato a casa.
"E' tornato. Stamattina." E’ inquieta, tesa; i lineamenti appesantiti dalla luce tagliente della lampadina nuda appesa al filo elettrico.
"Ancora con quella storia?"
"Ancora. E io, Carl, io… comincia a farmi paura."
"Eri tu che mi dicevi di avere pazienza, di non fargli niente. Che era innocuo."
"Lo so. Ma oggi aveva degli occhi..."
"Che occhi?"
"Non so, ma avresti dovuto vederlo. Sempre con quella storia. Sono venuto a riprenderti, dice, Lotte; a riprenderti e portarti via. Mi chiama sempre così, Lotte. E poi basta. Non dice più niente, mi guarda soltanto. Resta lì a fissarmi. Ed è... E’... come se non dovesse andarsene mai più. Come se potesse stare lì ad aspettare per sempre. E mi fissa, Carl. E quegli occhi..."
"Gli occhi, gli occhi… e ho capito, cazzo! Allora. Se ti dà fastidio, ci penso io. E vedi se non lo faccio smettere, lui e i suoi occhi."
Lei non dice niente. E' seduta rigida, le mani in grembo strette nervosamente come se non sapesse dove metterle, come se fosse a disagio persino a casa sua; persino nella vita. Fissa la tela cerata dai colori sgargianti e disarmonici, sgradevoli.
"Cazzo, Heline. Guardami in faccia, quando ti parlo."
Lei alza lo sguardo. Inespressiva, docile. Come un riflesso acquisito; come se, dentro, fosse vuota.
"Allora. Vuoi che lo sistemi io? Te lo tolgo dai piedi."
Ma Heline esita. "No, ecco… Forse non tornerà più". L’ha detto come per difenderlo. Non sa neanche lei perchè. 
 
 
Succede di nuovo due giorni dopo. Carl è fuori a lavorare, Heline sta stendendo il bucato sul retro. Fa caldo, come sempre in quel paese in mezzo al nulla. Le estati sembrano senza fine, lunghe da attraversare come deserti senza alberi e quasi altrettanto aride e desolate.  E quel caldo, quel caldo afoso che si attacca addosso e fa sentire sporchi e brutti, sempre un po’ fuori luogo, sbagliati. Heline sente i capelli appiccicati alla nuca, la sottoveste di nylon comprata per corrispondenza si incolla alle gambe. Non si è accorta che l’uomo le è arrivato alle spalle e quindi trasalisce quando il silenzio è rotto dalla cantilena che ormai conosce: "Sono venuto a prenderti, Lotte. Andiamo?" Il tono è esitante, incerto; quasi una supplica. Non l’ha detto come un ordine. Non come lo direbbe Carl.
Heline spaventata si volta di scatto,  la molletta da bucato le cade di mano. L'uomo fa un passo verso di lei e lei sobbalza ancora; ha paura. Ma l’uomo si china a raccoglierla e gliela porge, quasi timidamente: voleva solo fare questo. E intanto, la guarda. Con quegli occhi… Heline prende la pinzetta e ritrae subito la mano, in fretta, come se temesse di scottarsi. "Mi confonde con un’altra persona, io non sono Lotte" dice, ma stancamente, ormai; senza più convinzione. Quante volte gliel'ha ripetuto, in queste due settimane assurde. Che lei non è Lotte.  Che non ha mai conosciuto Lotte. Che non sa chi diavolo sia, Lotte. Se Carl fosse qui, adesso... Ma Carl non c'è. Gliel’ha chiesto lei.
 

Carl non c’è quasi mai, del resto.  E l’uomo riprende. Sempre con quel tono implorante, quella voce spezzata che da due settimane la spaventa, la inquieta, la perseguita. "Io ti ho perdonato, Lotte. Ti ho perdonato per le cose che mi hai detto quel giorno, per come te ne sei andata... Ora sono io che chiedo perdono a te. E’ stata solo colpa mia. Non sai quanto mi sono maledetto, per questo. Ma adesso basta, Lotte, ti prego. Ho pagato, per quello che ho fatto. Ogni giorno, per tutti questi anni. Ho lavorato da non farcela più. Sono stato da solo. Ho cercato di risalire in tanti modi; ogni volta mi andava male e ogni volta mi dicevo ‘non arrenderti, rialzati; ci sarà il modo di farcela, prima o poi’. Mi sono spezzato la schiena e a volte ho pianto; e non c’è stato un solo giorno che non abbia pensato a te. Adesso vieni via con me. Per favore. Ti prego."
Deve telefonare a Carl. Subito. Entrare in casa con una scusa e telefonargli. Dirgli di venire qui, di correre. Intanto, prendere tempo. Farlo aspettare qui, e andare a telefonare.
 "Ne possiamo parlare un momento, va bene? Vado dentro a prendere due sedie, così ci mettiamo qui e ne parliamo con calma. D'accordo, sì? Faccio in fretta; un attimo solo."
 
Il numero dell'officina di Carl è scritto a matita su un foglietto appeso al muro, Heline non è mai riuscita ad impararlo a memoria. Per l’ansia trema un po’, lo compone troppo in fretta, sbaglia, lo deve rifare. Ascolta per almeno mezzo minuto il tu- tuut monotono, prima di rendersi conto che non le risponderà nessuno. Appende la cornetta e si passa una mano sulla fronte sudata. Carl sarà già sulla strada per casa, si dice; ma naturalmente sa che non è così. Probabilmente quel pomeriggio Carl non ci è neanche andato, a lavorare. E quindi tornerà tardi, in piena notte magari, ubriaco fradicio. Chiuditi in casa. Chiuditi dentro, e non aprire finchè arriva.  Ma se lui si mette a gridare, o a battere pugni contro la finestra? Poi però si dice no, non lo farà, sembra così mite. Così mite, e fragile. E comunque è fuori, e tu sei al sicuro. A meno che... Un momento. No, non può essere stata così sciocca. Non può aver lasciato aperta la porta sul retro, non può... Si volta adagio. L'uomo è lì, di fronte a lei, nel piccolo ingresso. “Ma perché hai così paura di me, Lotte?”
 
Visto da vicino è meno vecchio di come le era sembrato; anche se è di quelle persone a cui è impossibile dare un'età. Ha i capelli di un biondo slavato dal sole, già radi, e brutti baffetti. Forse, cercando bene, in qualche tratto del viso si coglie ancora il ricordo di una lontanissima bellezza. La regolarità dei lineamenti, gli occhi chiari. La linea sottile del naso, così dritta, netta; come disegnata. Qualcosa di delicato nell'arco delle labbra: probabilmente aveva un bel sorriso, una volta. Ma se una bellezza c'è stata, deve essersi proprio divertita, la vita, a concederla solo per poi riprendersela. A devastarla con accanimento, sistematicamente, con metodo; badando bene di non lasciare intatta neanche una briciola. Ora è seduto di fronte a lei, un po' curvo, nella piccola cucina soffocante, dall'altra parte del tavolo con la brutta cerata dai colori troppo vivi, sbagliati. Piccole gocce di sudore sulla fronte, in questa sera di afa quasi insopportabile. Mentre parla fissa un punto nel vuoto e si tormenta le mani, continuamente. In qualche momento, inaspettatamente, sorride.
Perché a Heline non è venuto in mente altro: assecondarlo un po’. Farlo sedere, seppure a distanza di sicurezza, ed ascoltarlo. Sperando che arrivi Carl. Che una volta tanto non sia ubriaco, possibilmente.

Se non altro, adesso l'uomo è più tranquillo. La  voce  non ha più quel tremito, quasi sull'orlo del pianto; anche l'espressione, a parte quel guardare troppo nel vuoto davanti a sè, è più calma, pacata. Soltanto le mani tradiscono l'inquietudine, l’agitazione. Soltanto le mani rivelano che, in quella situazione, c’è qualcosa di irrimediabilmente sbagliato.
Soltanto le mani. E quello che dice.

 
 ***

Così, si è messo a raccontarle delle cose. Riguardano questa donna, ovviamente, Lotte;  ma lui crede siano successe a lei. All'inizio erano solo singoli frammenti: istantanee, ritagli; Polaroid sbiadite in un vecchio album che appartiene ad un altro, che sfogli senza riconoscere i volti o i luoghi. Immagini fatte di "Ti ricordi, Lotte, gli alberi del viale, dove andavamo a passeggiare di domenica? La panchina nella piazzetta, accanto alla fontana? Lotte, ti ricordi?". Poi un pò per volta le tessere iniziano a combinarsi, formano disegni più completi.
Piccoli episodi; ritagli nel tempo.
 
 
E, un po’ per volta, la sconosciuta Lotte assume dei contorni. Un po’ per volta la sconosciuta Lotte (ma esiste? è esistita? esiste in qualche luogo, oltre che nella mente di quest'uomo? Quest’uomo che visto da vicino è così fragile e che adesso fa un po’meno paura; quest'uomo così solo che si tormenta le mani e ogni tanto improvvisamente sorride, con tenerezza, ad un fantasma?) prende forma nella piccola cucina.
 
E Heline, suo malgrado, comincia persino ad ascoltare. Ad ascoltare davvero. Le cose che l’uomo racconta. La storia che disegna.
Da quando ha sposato Carl - in un certo senso da sempre, perchè si è sposata giovanissima- l'unico svago di Heline erano stati i romanzi d'amore a puntate, alla radio. Sapeva che erano sciocche, frivole, inverosimili; eppure le piacevano tanto. Le tenevano così compagnia. Erano la boccata d’aria nelle afose, interminabili giornate tra la biancheria da rammendare e il bucato da lavare, il solo sguardo -immaginato- oltre le mura di casa, la staccionata del cortile e i pochi edifici poco più giù lungo la strada polverosa che compongono il villaggio. Le ascoltava quando Carl non c'era, ovviamente, e spegneva la radio molto prima che tornasse. Ma un pomeriggio lui era rientrato molto prima, a prendere qualcosa che aveva dimenticato. L'aveva trovata che sbucciava fagioli, gli occhi lucidi per una storia che si intitolava "Tormento d'amore". Carl aveva gridato talmente forte che i vicini erano usciti sui patii per vedere cosa succedeva. “Queste cose ti riempiono la testa di sogni! di cose da donne! Di cazzate! Tu sei stupida, e ti fanno diventare ancora più stupida! Ficcatelo nella testa, che queste cose non succedono nella vita! E meno che mai a una come te!”.
La mattina dopo, uscendo per andare in officina, Carl aveva portato la radio con se’. Quel pomeriggio Heline aveva pianto. Da sola, davanti ad una cassetta di verdure da pulire. Neanche per la storia, perché le mancasse sapere come continuava: ma perché per la prima volta aveva dovuto affrontare il lungo deserto di quelle giornate interminabili, sostenere il peso opprimente, soffocante di tutto quel silenzio. Non aveva pianto per la radio: aveva pianto per se stessa.
Per quanto era sola.
Aveva sperato che Carl gliela avrebbe riportata, dopo qualche giorno.
Non l’aveva mai fatto.

 
 ***
 
E’ una donna semplice, Heline, e la sua vita è stata semplice come lei. Quando aveva sedici anni Carl si è messo a corteggiarla; due mesi dopo le ha chiesto di sposarla. Lei ha risposto di sì. Non era proprio innamorata ma sapeva di non essere bella, ne’ particolarmente divertente, o intelligente; non pensava che avrebbe trovato di più. In fondo non pensava neanche di meritarlo, quel "di più". E comunque lui i primi tempi non era cattivo. Era persino gentile. In modo un po’ goffo, maldestro; una persona che fa del suo meglio per esprimersi in una lingua che conosce poco. E ogni tanto la portava al cinema o a prendere un gelato; cose così. Una volta le ha regalato un braccialetto, una cosina di metallo dorato con delle pietrine variopinte che luccicavano; lei è stata così contenta. Quando, pochi mesi dopo il matrimonio, ha cominciato a comportarsi come se lei fosse un oggetto fastidioso che gli era capitato tra i piedi, non si è sorpresa più di tanto: forse, in fondo, se lo aspettava sin dall’inizio.
Fine della storia di Heline. E adesso, è qui. In una vita che è un eterno oggi, un eterno martedì pomeriggio talmente senza storia da sembrare che il tempo non scorra neanche. Senza un futuro, quasi senza un passato. Senza sogni. Spesso le sembra di averla trascorsa tutta in questa cucina, la sua vita, con la stessa tovaglia di plastica con i colori sbagliati e la lampadina nuda ancora appesa a un filo da quando sono entrati in quella casa e lui ha detto "domani la sistemo". E’ spesso triste, Heline, ma pensa che sia normale.
 
***


E adesso di fronte a lei c'è quest'uomo piovuto da chissà dove, seduto davanti ad una inutile gazzosa. Lei glie l' ha offerta nell'imbarazzata, tesa finzione che tutto fosse normale ma ora si rende conto di quanto sia assurda e fuori luogo, quasi patetica. Quest'uomo che la confonde con un' altra e sicuramente è pazzo e parla di una donna così diversa da lei. E ne parla come se fosse lei .
 
 ***
 
"... e ti ricordi, Lotte, la casa a Southville?". A quelle parole Heline sente un tuffo al cuore. Le ha toccato qualcosa dentro, sentir nominare quel luogo. Come una piccola cosa che si spezza, un “crac” leggero che senti solo se c'è silenzio e fai attenzione.  Perchè Heline aveva dei sogni, una volta: e uno era proprio questo,. Southville. Il mare. L'oceano. Andarci, almeno una volta. Vederli. Carl gliel’aveva anche promesso, nei primi tempi, quando era ancora un corteggiatore impacciato e rozzo, ma gentile. Poi, si erano sposati. E Southville era diventato solo un altro luogo dove non sarebbe mai stata, un'altra riga aggiunta in silenzio alla lista dei rimpianti. Ce n’erano tante, nel suo cuore, di quelle liste. Lei cercava di non pensarci ma erano lì, non sbiadivano, il tempo non le cancellava. Piccoli dolori senza lacrime ancora tutti presenti, accuratamente allineati uno dopo l’altro come i punti del detersivo che ritaglia stando attenta a seguire bene i contorni e poi incolla con la colla profumata di mandorle sul piccolo album, le sere in cui Carl è tranquillo e si è addormentato presto. Si vergognerebbe a dire che quello è il momento più dolce delle sue giornate.
 
 
"Raccontami di Southville" dice la sua voce, nel silenzio, lentamente; quasi suo malgrado.
E l'uomo racconta.
Le racconta l’arancio rosato dei tramonti, il mare che diventa argento un attimo dopo il calare del sole. Il vento sul viso e nei capelli, il canto incessante delle onde. La puzza degli stabilimenti che ammorba metà città ma l’altra è intatta. Sembrano due mondi diversi ed è brutto essere nati in quello sbagliato, ma basta così poco per passare in quello giusto, almeno per un momento;
chiunque può concedersi quel lusso per un pomeriggio, una domenica, una sera. Le racconta il pezzetto di spiaggia che avevano scoperto, lui e Lotte, poco oltre i capannoni delle fabbriche; se ti sedevi dietro una duna gli stabilimenti non li vedevi più e davanti avevi era uno spettacolo che ti riempiva di pace il cuore, ti sentivi nel posto più bello del mondo. E racconta bene, persino meglio della radio. Heline ascolta e sente, vede un luogo in cui non è mai stata. Ne ha davanti agli occhi i colori, la gente; le sembra persino di cogliere i suoni, gli odori nell’aria… "E hai detto che… ero bella?"  gli chiede all'improvviso. Nello stesso momento in cui sente il suono della propria voce vorrebbe non averlo detto, perché è così assurdo. Bella? Lei? Si sente stupida, stupida, stupida; e immensamente triste. Pensa a come riderebbe Carl, alla sua risata cattiva, tagliente. Ora riderà anche l’uomo, ne è sicura: e china un po' il capo come per proteggersi da un colpo che sta per arrivare, per istinto e abitudine. Ma lui non ride. La fissa a lungo, e non ride. Perché vede Lotte. “Da togliere il fiato”, risponde.


 
E le racconta un'altra di quelle cose un po’ da romanzo della radio. Le racconta di un vestito. Bianco, leggero, a grandi fiori rossi. Lo faceva ingelosire, perchè era un po’ troppo corto. Avevano litigato, per quel vestito. Finchè lei a un certo punto aveva sorriso e gli aveva dato un bacio. Un sorriso e un bacio così, dal nulla, proprio in mezzo ad una lite. E e poi si era chiusa nell’altra stanza con ago e filo. Quando era uscita aveva addosso il vestito, due dita più corto. E aveva continuato ad indossarlo più spesso di prima, ogni volta che uscivano insieme per strada, e quando andava a ballare, per farsi guardare dagli altri uomini.
 
 
Per qualche oscura ragione, Heline si sente delusa. Come quando in un film il personaggio che preferivi commette una brutta azione. Talmente delusa, che le sfugge un commento poco cauto:
“Ma allora Lotte era cattiva”.
“Lotte? Oh, no. Non la mia Lotte. Era la ragazza più gioiosa e piena di vita che avessi mai conosciuto. Aveva una luce dentro che illuminava anche agli altri, e lei voleva che fosse così, voleva che si sentissero come lei, non voleva che fossero tristi. Era così serena, ottimista. Si fidava della vita. E dire che ne aveva viste tante. Suo padre andava giù pesante con le mani, quando era ubriaco. E lo era più o meno sempre. Quando era ancora una bambina io ero un ragazzo, lavoravo da un contadino.  Non sapevo chi fosse, ma a volte la vedevo arrivare su alle fattorie con dei segni sul viso, sulle braccia. Lividi, un labbro spaccato; cose così. Spesso era in lacrime, ma piangeva senza singhiozzi, in silenzio, come un'adulta. Saliva lassù, quando correva via da casa dopo che suo padre c’era andato giù troppo pesante. Perché vicino alla stalla dove facevo il garzone c’erano dei gatti, a un certo punto un’intera famiglia, una gatta randagia che aveva fatto quattro gattini. Me li ricordo ancora: bianchi e neri tranne uno, che era tutto bianco con solo una macchietta nera sulla punta della coda, come se gliela avessero intinta nell'inchiostro. E quando le cose andavano troppo male lei andava là. Se era molto triste stava così a lungo, tenendoli vicini a sé e accarezzandoli ogni tanto. Ma il più delle volte prima o poi si metteva a giocare con loro, spesso con quello bianco, che era il suo preferito, e poco dopo già sorrideva. Con un labbro pesto o un sopracciglio gonfio, magari. Ma sorrideva, come se non se ne ricordasse neanche più. Prima di tornare giù spesso prendeva la stradina della collinetta, raccoglieva un po’ di bacche dai cespugli, poi si sedeva su una pietra, sempre la stessa. Si sedeva sulla pietra, con le braccia intorno alle gambe ed il mento appoggiato alle ginocchia, a guardare il mare. Là la fabbrica di sardine rimane nascosta dal fianco della collina; puoi guardare il mare dall’alto e vedere solo quello, la spiaggia lontana con le persone piccole come disegnini di un bambino, le barche dei pescatori in lontanzale e le onde che vanno e vengono, sono sempre uguali eppure le potresti guardare per ore, ti incantano. Vanno e vengono tutto il giorno come se non avessero niente da fare e niente che le preoccupa, loro.  E’ bello. C’è sempre vento, in quel punto. Viene dal largo, da dove il mare è pulito, non porta la puzza del pesce ma un odore buono, di sale e spazio, di libertà. Lei chiudeva gli occhi e piegava il collo all’indietro, per averla sul viso, e il vento le gettava i capelli all’indietro. Stava lì, a sentire quella carezza, quel momento. E sorrideva.
Io lo so perché la a volte la seguivo, di nascosto. Non lo so, perché lo facevo. Ero un ragazzino, lei poco più che una bambina; non credo fossi già innamorato. Forse era solo perché non era una delle fattorie, veniva da fuori; e io chissà cosa mi immaginavo che ci fosse, là fuori. O forse perché mi piaceva vedere come cambiava, come riusciva a cambiare, dal pianto fino a quel sorriso. Forse speravo che un giorno avrei imparato a farlo anch’io, e Dio sa quanto ne avrei avuto bisogno. Lei era lì, più piccola di me e ancora più fragile, con le braccia coperte di lividi, o un occhio che non avrebbe aperto bene per giorni. Eppure, sorrideva. E tu capivi che, in qualche modo, in quel momento sulla collina, era quasi felice. E che, nonostante tutto, era lei che stava vincendo.
 

Poi è cresciuta. E' diventata la ragazza anche troppo bella che faceva girare la testa a metà degli uomini del paese. E lo sapeva, e si vedeva che le piaceva. E tutti dicevano “Lotte della fabbrica è una ragazza frivola; Lotte della fabbrica pensa solo a divertirsi ed è sempre contenta perché è viziata e sciocca, perchè non ha niente nel cuore e nella testa”. Ma io avevo visto la bambina che saliva piangendo la collina delle Fattorie. E sapevo che stava solo lottando per restare a galla, per riuscire a sorridere nonosante i lividi.

E poi, tra i tanti che la corteggiavano, ha scelto me. E mi ha reso così felice. Non solo perché era la ragazza più bella che avessi mai visto: anche per come era dentro. L’uomo dovrebbe essere quello forte, dicono. Macchè. Quando ero preoccupato per qualcosa, era lei a rassicurare me. “Andrà tutto bene, vedrai”... A volte non c’era proprio nessun motivo per dirlo. Ma poi guardavi quel sorriso, quello sguardo pieno di luce, e capivi che lei ci credeva veramente; con un candore e una fiducia e una forza tale che alla fine un po’ ci credevi anche tu.

A volte ero geloso di lei. Non solo per quel vestito: anche solo per come era. Per paura che me la portassero via, e
perché non sapevo cosa avevo fatto perchè avesse scelto me, perchè restasse con me. Ma allora lei mi prendeva la testa tra le mani, mi sorrideva. E mi diceva “Stupido che sei. Gli altri li provoco un po’, perché mi piace vedere come mi guardano, mi piace sentirmi ammirata; e poi li lascio a bocca asciutta. Con loro gioco soltanto. Mi piace giocare, sì; e mi gioco la sola carta che ho, finchè ce l'ho. Mi piace sentirmi bella; mi piace sentirmi viva. La vita ha tante cose brutte, forse ne avrà anche per noi. Sicuramente ne avrà anche per noi; perché è una bastarda e noi siamo nati dalla parte sbagliata, dalla parte dei perdenti. Forse ci darà il colpo quando saremo vecchi e allora ci sarà già andata bene; potremo guardarci negli occhi tenendoci per mano e sorridere e dire “siamo fortunati, siamo stati felici”. Ma forse lo farà tra un anno. O domani. E allora voglio prendere quello che ha di buono oggi, finche c’è; tutto quanto. E' solo per questo. Ma lo sai che sei tu l'unico che conta davvero.”
 
 
 
Poi è cambiata, sì. La mia ragazza sempre gioiosa e sorridente; la mia ragazza così forte e viva. Ma è stata la vita, a cambiarla. Troppo lavoro; troppi giorni giù alla fabbrica di sardine. Troppe ore con la schiena curva e le mani nell’acqua puzzolente. Troppe mattine a tirarsi giù dal letto quando il sole non si è ancora alzato, per iniziare la fatica di un’altra giornata quando hai ancora addosso ancora tutta la stanchezza di quella prima. Troppo, e per troppo poco. Troppe cose a cui ha dovuto rinunciare, troppe delusioni.
 

 
 ***
 
 
Fuori, ormai, è notte fonda. Heline ascolta e lascia vagare lo sguardo. Non lo fissa più in viso. Forse perchè ne ha meno paura. O forse perchè lo conosce, ormai, il volto di quest'uomo. I suoi solchi dolorosi, la stanchezza che non passerà con una notte di sonno perché è la stanchezza di chi ha camminato troppo e troppo solo e quella è una stanchezza che ti entra nell’anima, e una volta che è dentro non ti lascerà mai più perchè il solo riposo capace di cancellarla è quello a cui tutti cerchiamo con ogni forza di sfuggire.

E’ notte fonda, fuori, mentre si lascia cullare dalle sue parole.

E' notte fonda, fuori, e lui ha un tremito nella voce, quando le dice:
 
“E poi, naturalmente, c’è stata la storia della ferrovia.”


 
 E, per la prima volta in quella sera, tace.


“La storia della ferrovia?”, chiede Heline.
Lui la guarda un po' sorpreso, come se avesse fatto una domanda ovvia. “La conosci anche troppo bene”.
Non la conosce, ovviamente, perchè lei non è Lotte. E non le dovrebbe neanche importare. Ma improvvisamente Heline si rende conto che la vuole sentire. Che le interessa. Così, azzarda. Osa un piccolo trucco.
“Raccontamela... come è stata davvero. Come è stata per te”.
 

L’uomo esita, cerca le parole. Ma è solo un attimo: basta trovare la prima e le altre vengono da sé. Perché sono tutte lì, le parole, allineate in fila come pietre di un calvario. Il tuo calvario. Alimentate con l'angoscia inutile dei rimpianti, abbeverate alla tortura sterile del pentimento, nutrite con il dolore beffardo del senno di poi. Tanto a lungo che si sono incise nella mente, annidate dentro come animali malvagi. Non potrebbe cancellarle neanche se volesse, le parole di quella storia. Saranno sempre lì. Lo aspetteranno ogni mattina al suo risveglio, lo seguiranno ogni giorno fino a quando chiude gli occhi. Non potrà mai liberarsene; perché ci sono ferite che non guariscono, e ricordi che sono condanne.
 

 “Bè, l’inizio lo sai. Al paese sarebbe arrivata la ferrovia. Quella nuova, lunghissima, che costruivano da anni. E c’erano quei due, naturalmente. Tu non li sopportavi, dicevi che giravano intorno per farsi prestare soldi e non restituirli e cose del genere ma io ti dicevo no, dai, ci conosciamo da quando eravamo ragazzi, sono i miei migliori amici, sono i soli amici che ho. Così un giorno arrivano e mi dicono c’è questo affare, è una cosa da cambiarti la vita. I piani della ferrovia sono ancora segreti e nessuno deve sapere dove passerà, perché la società comprerà i terreni a peso d’oro e chissà cosa si inventerebbe la gente  per fare l’affare, capisci. Per questo sono depositati in un ufficio giù in città e nessuno li può vedere. Ma c’è questa persona che conosciamo che lavora lì, un amico; è riuscito a metterci le mani. Insomma: la ferrovia non passerà vicino al mare, come tutti si aspettavano perché sarebbe la via più breve e semplice. Perché sono venuti degli ingegneri e avevano fatto una cosa, uno studio; ed è venuto fuori che il terreno lì non è sicuro, per via di certe falde sotterranee. Come un fiume che scorre dentro, sotto terra. Quindi la faranno salire un bel pezzo, e passare sulla collina, quella sopra al paese. E...”
 

Esita; si riprende.
 

“E quindi. Quindi, dicono, c’è questo appezzamento, sulla collina, in cui la ferrovia dovrà passare per forza. Lo pagheranno a peso d’oro perché non hanno alternative, sotto e sopra il terreno è quasi dritto, quella è l’unica striscia in piano. Il proprietario non lo sa e potrebbe anche venderlo ora, se gli si fa un’offerta buona. Non è neanche un imbroglio perché è già ricco di suo, ha tanti soldi che non sa dove metterli. A lui il denaro della ferrovia non cambierebbe niente, pioverebbe sul bagnato; ma a un altro, a uno come noi, cambierebbe la vita. Cosa c’entro io, e perché non la comprate voi, dico. Non hanno i soldi, rispondono. Il terreno tra l’altro ha già un suo valore di per sé, è grande ed è un pascolo ottimo, terra fertile e intorno alberi di quelli buoni, da legna; quindi non è che venga via per un pezzo di pane. E poi per convincere il tizio bisogna fare un’offerta che meriti, quello è uno che sta bene, non si prende neanche il disturbo di firmare una carta, se no. Non li ho neanche io, i soldi, dico. Sì, ma tu hai la casa. Ma non è solo mia, l'ho comprata con Lotte. Ci abbiamo messo tutto quello che avevamo, io e lei. Ma è anche per tua moglie, non capisci, dicono loro; è anche per lei che lo devi fare."

Si interrompe. Lo sguardo vaga sulla tovaglia a quadri, si perde; poi arriva sul bicchiere di gazzosa e lì si ferma, come aggrappandosi a un appiglio.

“Fa ancora male adesso, a parlarne. Che stupido quest’uomo, eh, Lotte? A sentirla così, non ci cascherebbe neanche un bambino. Ma era quel periodo. Tu eri cambiata. Non sorridevi più, non mi dicevi più ’andrà tutto bene’. Ti era sempre piaciuto guardare le vetrine. Cercavi qualche modello che avresti potuto copiare, in un tessuto meno caro, o semplicemente dicevi “Oh, che bello questo” . Forse te lo immaginavi addosso, giocavi un po' con quel pensiero; e sorridevi. Ora quando la domenica facevamo la passeggiata in paese le guardavi con una specie di rabbia negli occhi, o giravi di scatto la testa dall’altra parte. E a me faceva male perchè capivo che non era solo per il vestito ma non dicevo niente, non sapevo cosa dirti. E cosa ti avrei potuto dire? Spesso mi dicevi che ti avevo delusa, che non ero riuscito a niente nella vita. Probabilmente avevi ragione. Litigavamo, quasi tutti i giorni. Ed eri stanca. Si vedeva da come ti muovevi, come camminavi. Sembravi invecchiata di dieci anni. Arrivavi a casa e crollavi sulla poltrona sfondata, e io ti guardavo e vedevo che iniziavano a venirti fuori le vene blu e spesse sulle gambe ed era troppo presto, alla tua età; non era giusto. Avevi le mani screpolate e piene di calli. E ho pensato ‘se faccio l’affare potremo comprarci un piccolo negozio. Lavorare solo otto ore al giorno. Lotte starebbe dietro il banco e i clienti le direbbero “Buongiorno, Lotte’ e ‘per favore’. Non dovrebbe più spezzarsi la schiena. Si metterebbe la crema alle mani tutte le sere, tornerebbero belle. Tornando casa troverrebbe un uomo pulito, non un manovale che anche se si è lavato da scorticarsi continua a puzzare di pesce. La ripagherei dello schifo in cui l’ho fatta vivere in questi anni e lei tornerebbe a sorridere. Tornerebbe la mia Lotte.
 

Allora ti ho detto che era per questo, Lotte; e ci credevo. Ma dopo ho capito che c'era anche altro. Che c’è un demone, nell’uomo. E' nascosto e oscuro e può stare in agguato per anni e neanche tu sai che lo porti dentro. Ma è lì, e aspetta, paziente. E alza la testa come un serpente appena fiuta la possibilità di essere più furbo degli altri, fare soldi senza lavorare, prendere più del dovuto, arraffare. Di sorpassare quello che cammina davanti approfittando di un suo momento di stanchezza. In un modo non del tutto disonesto, certo. Tu lo sai benissimo, che in fondo non è giusto; ma la coscienza ha una scusa per far finta di guardare da un’altra parte.
E insomma. Da qui in poi, presto detto. Bisogna concludere l’affare in fretta, perché la società ferroviaria pubblicherà il percorso tra una settimana e poi inizierà ad acquistare. Non c'è tempo di pensarci su. Vendo casa, con la condizione di poterci ancora stare un mese, che entro allora avrò i soldi della ferrovia. Ai miei amici darò una piccola parte per l’informazione; ma il grosso sarà mio. A te non dico niente. So che non ti fidi di loro, che mi ostacoleresti. Ma forse c’è anche che dentro sono felice come un bambino, per l’idea di farti una sorpresa così. Per una settimana quasi non riesco a nascondere il sorriso, mentre ti guardo, mentre penso a cosa ho in serbo per te. Ti comprerò un vestito, prima; sceglierò il più bello che c’è nelle vetrine. Anzi no, non il più bello: quello che hai guardato con più rabbia, quasi con le lacrime agli occhi. Tu aprirai il pacchetto di carta colorata, poi alzerai lo sguardo e mi chiederai ma perché, come è possibile. O forse mi dirai ‘ma cosa ti ha preso, ma sei impazzito’, sì, pensandoci credo che dirai questo, ultimamente sono più queste le cose che mi dici ma non importa, non importa più, perché allora te lo dirò.  Penso a come sorriderai, a come mi abbraccerai. A come faremo l’amore, dopo. A come tutto cambierà, come sarà bello di nuovo. Come sarai felice.

E una settimana dopo, finalmente esce il progetto: la ferrrovia passerà vicino al mare, come tutti si aspettavano. Non certo da quella striscia di terreno assurda, ficcata lassù in mezzo al niente. Ovviamente i due, intanto, hanno lasciato il paese. Con i soldi dell'affare che si sono spartiti con il proprietario, un tale di un'altra città. Che anni prima aveva ereditato quell'appezzamento in un posto impossibile, senza mercato, e che così è riuscito a venderlo; e pure a un prezzo folle.

E così, a quel punto devo dirtelo. Ma è tutto tanto diverso da come avevo immaginato. “


“Ed è allora che Lotte se ne va”.


Non è una domanda. Sono parole esitanti, pronunciate a mezza voce; galleggiano nell’aria incerte, smarrite. Ma non sono una domanda.


“E’ allora che te vai. Che mi dici quelle cose che mi fanno a pezzi. Che mi dici che... che... Insomma, che te ne vai.
Ho cercato di fare qualcosa. Ho pensato ‘comunque è un buon terreno. E dalla vendita della casa mi è rimasto qualcosa. Comprerò qualche capo di bestiame e continuerò a lavorare alla fabbrica. All’inizio farò due turni, per un anno o due. Non ho bisogno di dormire molto, e si può mangiare mentre si lavora. Man mano che potrò ne prenderò altri, di animali; quando ne avrò molti li venderò e ricomprerò una casa. E allora chiederò a Lotte di perdonarmi. Le chiederò di tornare.’
Così, sono salito sulla collina. Sono andato a vedere il terreno, tutto quello che mi era rimasto, quello da cui avrei iniziato la mia risalita. E...
Era una pietraia. Avevo venduto tutto per comprare una maledetta, immensa pietraia.”
 
 
 ***

 
La gazzosa che non ha toccato non ha più bollicine. E’ diventata calda, densa e appiccicosa, pesante come ogni altra cosa nella stanza, in questa notte immobile, senza aria. “Dopo, ogni tanto, mi parlavano di te. Mi raccontavano delle cose. Che eri andata a stare in una città. Che vivevi senza lavorare, come veniva. E penso che volessero dire che facevi cose, con gli uomini che trovavi. E poi che ti eri sposata, ma non con uno come me, questa volta con uno ricco. Che raccontavi che tuo padre era un proprietario terriero, ti facevi chiamare “signora” e avevi una cameriera che trattavi male. Tempo dopo mi hanno detto che lui ti tradiva e tu ti eri messa a bere. Ma non ci ho mai creduto, non era vero. Tu non avresti mai fatto queste cose; non la mia Lotte. Anni dopo mi hanno detto persino che eri morta, sai? Me lo hanno detto tante volte. Ma io sapevo che era solo perché smettessi di pensare a te.
Ma io sapevo che, se avessi continuato a cercarti, un giorno ti avrei trovata.”
 

Solo ora l'uomo alza lo sguardo. Incontra il suo, esita. Poi osa qualcosa di simile ad un sorriso. Incerto, appena accennato; smarrito. E non aggiunge altro. Rimane soltanto a guardarla, con su l’unico fragilissimo scudo di quel sorriso disperato, disorientato, perso. Non è che Heline voglia realmente rispondergli ma quel sorriso esige che qualcuno dica qualcosa, non si può sopportare tutta quell’attesa, tutto quel silenzio senza provare un disperato bisogno di spezzarli. Perchè la notte è fuori ed è ovunque ed è immensa, là fuori c’è una prateria sconfinata immersa nella notte tutto intorno a quel minuscolo grappolo di case, a quella stanzetta con una lampadina elettrica nuda appesa ad un filo; la notte è fuori e attorno e ovunque e preme, preme per entrare e loro due sono così piccoli e patetici e soli con le loro piccole vite nel cerchio di luce della fioca lampadina gialla e poi c’è quello sguardo che sta appeso al suo e aspetta, Dio, quello sguardo; Heline sa che dovrebbe dirsi che è solo lo sguardo di un folle ma è impossibile sostenere il peso di quegli occhi miti e stanchi che non chiedono nulla e tacciono, eppure stanno gridando. E così finisce che sente la propria voce prima ancora di aver realmente deciso di parlare: “E... adesso?”.
 

 “Adesso giro i paesini. Alla fine ho trovato un lavoro che funziona. Ho un furgone. Vendo stoffe e bottoni, fazzoletti e nastri per capelli; cose così. In molti posti ormai le persone mi conoscono. Quando arrivo sono contente, mi trattano con gentilezza. Se la giornata è andata bene mi fermo in qualche motel. Quando va male dormo nel retro o sotto una tenda. Ma allora mi tratto bene: scelgo dei posti belli, magari un po' in alto sulle colline, il panorama non costa nulla. E prima di dormire, sto un po’ lì. Guardo la pianura, il cielo che diventa scuro, le luci dei paesi che si accendono in lontananza e poi si spengono un po' per volta, le stelle. Non è quello che avrei voluto offrire a Lotte con la storia della ferrovia, ma quando ti sei abituato non è una brutta vita.
Ma non era questo che mi stavi chiedendo, vero?”

“No".

L’uomo abbassa di nuovo gli occhi. Ora è come se parlasse tra sé, a voce bassa, raccontando un pensiero privato e avvolto di pudore, una piccola cosa che si ama tanto eppure ci si vergogna un po’.
 
“Adesso... adesso, niente. Adesso vorrei che tu venissi con me. Vorrei dirti che ho di nuovo una casa. E' più piccola di questa, e meno bella. Ma è una casa. Adesso vorrei dirti che ti ho aspettata tanto. E vorrei dirti... vorrei chiederti... Torna.”.

Scuote la testa, sposta il bicchiere. Uno di quei poveri gesti inutili che si fanno per riempire una pausa di sospensione, un imbarazzo. Un vuoto. Il liquido oscilla e qualche goccia cade sul tavolo. “E’ per questo, che sono venuto fin qui. E’ questo che ho sperato, che ho creduto, in queste settimane, fino a un'ora fa. Ma adesso mi rendo conto di quanto era assurdo. Che non è possibile: perchè la tua vita, adesso, è qui. Che per tanti anni ho solo inseguito un bel sogno. E allora, voglio solo farti una domanda. La domanda che mi ha perseguitato tutti questi giorni e queste notti; tutti questi anni. Lotte. Almeno adesso. Mi puoi perdonare?”


Heline chiude gli occhi. Non stare al suo gioco. Devi assecondarlo solo quel tanto che basta perché arrivi Carl; e poi... e poi...

“Sì”, risponde Heline. “Sì. Ti perdono”.
 
 
 ***
 
 
Heline non gli ha lasciato la luce accesa nel patio. Avanzando al buio, Carl inciampa nello zerbino e borbotta qualcosa. A tentoni infila la chiave nella serratura ma non gira, perchè la porta non è chiusa a chiave. Ecco, sta a vedere che ha pure lasciato entrare quell'uomo. Capace che le sia successo qualcosa, stupida com'è. Cercando a tastoni l’interruttore della luce Carl pensa che, se non le è successo niente, le succederà ora. Le darà una bella lezioncina. Oh sì. Una bella lezioncina, le darà; e vedrai che non lo dimenticherà più, di lasciargli la luce accesa. “Heline!!” la chiama.
Silenzio.
La chiama ancora.

Ancora.

Ancora.

 
***

 
L’aria entra dai finestrini aperti, sembra quasi faccia fresco. A quell’ora della notte per strada non c’è nessun altro, solo quel furgone scassato. Heline guarda la strada che emerge man mano alla luce dei fari come se si formasse dal nulla, creata da quella luce. L'ha guardata tante volte da casa sua, quella strada. Sa che corre attraverso tutta la pianura senza nemmeno una curva, come una linea senza fine, finchè diventa troppo sottile per vederla ancora.
"Parlami ancora del vestito" gli chiede, dopo molto tempo. “Non vuoi riposare? Non ti sto annoiando, con tutte queste parole?” “No. E' bello, come racconti”. Il cuore ha smesso di batterle all’impazzata come un piccolo animale impaurito. Si sta calmando, ora. Comincia a sentirsi al sicuro. A sentirsi bene. Per la prima volta in tanti anni. Una voce dentro le ripete ancora “è una follia”, ma ha smesso di ascoltarla. Allunga un po’ le gambe e si sistema più comoda, come una bambina che aspetta una favola. Non pensa a niente: ascolta.  Lui sorride, adesso. E con pazienza, dolcemente, riprende:

"Tu avevi questo vestito. Bianco, leggero, con grandi fiori rossi... "




 
   
 
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