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Autore: Astral    06/03/2009    5 recensioni
"Osservo il tabellone e mi aspetto quasi che possa risolvere i miei problemi, le mie paure.
Sta tornando. Non è qualcosa che so perché semplicemente la sua voce me l’ha suggerito al telefono, lo sento sulla pelle, nello stomaco contratto, nel respiro pesante.
Le mani pallide si muovono distendendosi e chiudendosi in pugno sul jeans scolorito che fascia le mie gambe, senza che quasi io me ne accorga."
Un'attesa interminabile, il ritardo di un treno e una vita a scorrere davanti agli occhi di Isabel Henderson, in un soffio. Chi sta aspettando alla stazione di Saint Andrew? "Il puntale a stella sta lì. Rotto. In mille pezzi colorati sul parquet." Questa fanfiction partecipa al concorso 100 Prompt indetto dal forum Fanfiction contest- Collection of Starlight
Genere: Malinconico, Suspence, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Frammenti


Rating:Verde
Categoria:Originali
Warning: One-shot, angst, drammatico, introspettivo.
Questa fanfiction partecipa al concorso  100 Prompt  indetto dal forum Fanfiction contest- Collection of Starlight


Quella di Saint Andrew è una piccola stazione ferroviaria sperduta nel Colorado, i binari sono due e, probabilmente, dato il continuo spopolamento demografico della zona, non aumenteranno mai.
Qui da noi la gente difficilmente arriva, solitamente se ne va o torna per brevi periodi. Per le feste di Natale, per i funerali.
Pochi, soprattutto della mia età, sono quelli che si accontentano di ciò che può offrire, e alla fine prendono il volo per più allettanti futuri e orizzonti.
Alzando leggermente la visiera del cappello in lana rosa chiaro, torno impulsivamente a fissare il tabellone posto alla sinistra del secondo binario.
Il diretto da Washington è in ritardo di ormai venti minuti.
Inconsciamente sospiro di sollievo. Il destino forse mi sta regalando qualche prezioso momento in più per calibrare il respiro e rendere lucida la mente.
In fondo però di tempo ne ho avuto. Interi anni.
Mi getto, letteralmente, a sedere nuovamente sulla panchina di ferro battuto che sta sulla banchina che separa i due binari. Con un gesto della testa saluto svogliata il signor Bayle, un ottantenne con sigaro in bocca che ricorda uno di quei vecchi personaggi dei film western. Mi guarda di sottecchi probabilmente per leggere esitazioni, batticuori. Anche lui, come probabilmente tutto Saint Andrew, sa perché sono qui.
Mia zia Camille non è mai stata una donna discreta e riservata. Ricorda, piuttosto, uno di quegli angeli del focolare con corna e coda nel salotto delle comari.
Mentre mi interrogo su cosa nel mio sguardo e nella mia fronte leggermente corrugata Mr. Bayle stia cercando, mi chiedo cosa davvero io mi aspetto.
Guardo ancora il tabellone. I numeri analogici di un irritante giallo mi indicano un ulteriore ritardo.
Tre quarti d’ora ancora di agonia.
Osservo il tabellone e mi aspetto quasi che possa risolvere i miei problemi, le mie paure.
Sta tornando.
Non è qualcosa che so perché semplicemente la sua voce me l’ha suggerito al telefono, lo sento sulla pelle, nello stomaco contratto, nel respiro pesante.
Le mani pallide si muovono distendendosi e chiudendosi in pugno sul jeans scolorito che fascia le mie gambe, senza che quasi io me ne accorga.

Al centro della stanza c’era un albero, enorme, l’abete più bello che papà fosse riuscito a trovare.
La zia rideva, mentre raccoglieva da terra le ultime palline che nella scelta meticolosa avevo tirato fuori dagli scatoloni, senza poi utilizzarle.
Con le mani tremolanti fissai sulla cima il puntale a forma di stella.
Tutto doveva essere perfetto. Tutto doveva essere elegante. Tutto doveva essere delicato.
Perché lei era così e tutto doveva essere come lei.
Solo così le sarebbe piaciuto.
Solo così io le sarei piaciuta.

Due giorni soltanto sono bastati a mettere sottosopra il mondo che due volte mi sono dovuta ricostruire dopo un disastro.
L’ultima volta ho impiegato quasi un anno, prima di realizzare che lasciarsi morire d’inerzia non aveva senso e scopo.
La prima … beh per quella ci ho messa buona volontà durante l’infanzia, da adolescente, ma ancora non l’ho risolta.
Quanto meno questa è la conclusione a cui sono arrivata due giorni fa.
Hortensia Lilian Henderson è il nome complesso e importante di mia madre.
L’ho conosciuta attraverso le mezze punte, attraverso foto sfocate e amatoriali di nuvole fatte di tulle e raso scintillante.
L’ ho sentita ridere, cantare, attraverso gli occhi accesi di mio padre quando mi raccontava dei suoi spettacoli di danza.
Sul palco nel retro della parrocchia di Saint Andrew, del liceo della vicina cittadina.
Solo una volta ho sbirciato la sua immagine attraverso lo schermo catodico della televisione del salotto.
Hortensia Lilian Henderson, mia madre, non poteva accontentarsi di quel mondo troppo piccolo.
E’sparita quando avevo tre anni.
Non è più tornata.

La voce apatica e metallica di un altoparlante, annuncia disguidi sulla linea ferroviaria della capitale.
A quanto pare, un albero caduto in mezzo ai binari prolungherà ulteriormente il mio stato vegetativo oscillante nel limbo dei ricordi.

La sua voce al telefono era quasi un sussurro, molto aggraziata.
Col fiato sospeso mi sono nutrita avidamente di ogni sua parola, di ogni tonalità: più bassa, più alta, soffocata, lamentosa.
Mi sono aggrappata a quella cornetta, come se rappresentasse il limite di un mondo a cui fino a quel momento non avevo avuto accesso.
Sembravo un’assetata in cerca delle gocce misere sul fondo del bicchiere.
Avrei dovuto essere arrabbiata, scostante, fredda. Cattiva, quasi.
Era sparita, senza una spiegazione.
Non ha chiesto come sto, se sono felice. Se mi è mancata.
Invece…

Era tardi. E le brave bambine vanno a letto presto, papà lo diceva sempre.
Sgattaiolai veloce dietro la porta socchiusa della cucina.
La zia Camille stava battendo con forza la mano sul tavolo, mentre papà la pregava, premendo l’indice sulle labbra, di non urlare.
Aveva paura che io mi svegliassi.
-Come osa!Dopo tutti questi anni!-


E’ tornata una sola volta, avevo più o meno otto anni. Tuttavia non la vidi neanche allora.
Credo avesse chiesto a papà di tornare insieme, ma probabilmente i suoi propositi non erano durati più di una settimana, e papà non le aveva permesso di apparire in modo fuggiasco nella mia vita.
Nonostante tutto, credo che gliene sarà sempre grata. Non avrei retto al secondo abbandono.
Sedersi in prima elementare e sentire i bisbigli delle mamme in fondo all’aula, non è confortante.
Soprattutto se fino a sei anni sei convinta che avere la mamma ballerina costretta a stare lontana non sia colpa tua e scoprire che è grave, una colpa, che tua madre se ne sia andata, non è il massimo.
Mio padre me ne parlò con sincerità, non decise mai di mentirmi.

-Isabel?
La voce al telefono suonava lontana.
Rimasi in silenzio.
-Tom è in casa?
Niente “ciao, scusa sono stata rapita dagli alieni e non sono più tornata a casa quel Natale”.
-Papà?-
-Vorrei venire a trovarlo…uno di questi giorni, se non è un problema. Sarai cresciuta tantissimo dall’ultima foto che mi ha mandato a Lincoln- rise leggera.

Mio padre gli spediva le mie foto. Non me ne aveva mai accennato.
Io non ricordo il volto di mia madre.
Mamma ha abitato a Lincoln, Nebraska.
Sono solo poche ore di treno da qui.
Le ho mentito.
Un anno fa in pochi istanti un infarto si è portato via papà. L’unica famiglia che ho avuto a parte mia zia Camille.
Lui è morto, se n’è andato per sempre.
Lui però non lo ha scelto.
Non l’ho detto questo ad Hortensia quando ha telefonato.
Chiamarla madre nello stesso frangente in cui penso a mio padre, mi risulta offensivo alla sua memoria di genitore affettuoso.
E’ passato un anno, mi sono leccata sommessamente le ferite, l’ultima di un serie.
Adesso sono qui, accucciata su una panchina in ferro battuto.
Mi sembra di avere otto anni, quando trotterellavo giocosa attorno al divano, aspettando di sentire suonare il campanello all’ingresso quella Vigilia di Natale.
Non sono più una donna, Isabel Henderson, la maestra compita delle elementari di Saint Andrew.
Sono Bel, bimba sperduta aggrappata a ricordi e speranze.

“Si annuncia alla gentile utenza che il treno diretto da Washington è in arrivo al binario due. E’ vietato attraversare la linea gialla.”

La voce mi attraversa come una folgore, mi squarcia. Salto in piedi come punta da una cascata di spilli.
Il treno arriva in un fastidioso fischio metallico. Veloce.
Stride ruggente sui binari e mi attraversa ogni singola cellula. Reprimo un sospiro e inizio ad inquadrare i primi passeggeri che scendono sulla banchina isolata.
Il ferroviere aiuta un’anziana a scendere e a tirare giù i propri bagagli. Con tono quasi velenoso, mi trovo a pensare che potrebbe anche essere un tantino più veloce!
Una donna si guarda attorno disorientata, si stringe nel cappotto grigio polvere, poi sorride e inizia a correre.
In un attimo vola tra le braccia del fidanzato, George il figlio della direttrice tornato anche lui per le vacanze di Pasqua ormai prossime.
La folla si dirada, gli schiamazzi di nipoti capricciosi cessano.
Chino il capo e volto le spalle.
Persino Mr. Bayle se n’è tornato a casa.

Il puntale a stella sta lì. Rotto.
In mille pezzi colorati sul parquet.
   
 
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