La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili complicazioni»
Martedì«
Toronto,
Ontario, Canada.
15 luglio, ore dodici e tredici del
pomeriggio.
Era un
soave martedì pomeriggio di metà luglio. Le
strade erano poco frequentate, visto
che la maggior parte della gente stava mangiando oppure non ancora
aveva
cessato il turno di lavoro.
Tutto
era avvolto dalla quiete, nessun rumore osava distruggerla…
tranne che per una
giovane donna sotto il portone dell’appartamento 58B di
Stanford Avenue. Era
circa un’ora che citofonava e urlava i peggio insulti verso
colui che non osava
aprirle, guadagnandosi quindi sgridate da vecchietti che volevano
godersi un
po’ di pace e famigliole che pranzavano assieme. Alcuni la
minacciarono anche
di chiamare la polizia ma, dopo aver visto lo sguardo omicida di lei,
preferirono sparire dietro la finestra intimoriti.
L’ultima
temeraria persona che aveva osato dirle qualcosa - una vecchietta del
quarto
piano sulla settantina -, si era dovuta sorbire tutta la sua isteria e,
per il
suo bene, aveva deciso di battere ritirata, borbottando qualcosa sui
pazzi
insani e sui manicomi.
Finalmente
alle dodici e diciassette, la persona richiesta rispose al citofono,
per gioia
immensa di tutto il palazzo che non avrebbe più dovuto
sorbirsi quelle urla.
«Sì?»
domandò la voce di questo, con il tono adirato di chi
è stato interrotto in un
momento importante.
«Senti un po’, ha tre secondi per
aprire questo dannato portone, altrimenti ti farò ricordare
questo giorno» lo
minacciò lei. La sua voce fece capire che non scherzava,
affatto.
«Bene, arrivederci» disse semplicemente
l’altro, riagganciando e ignorandola pesantemente.
E fu in quel momento che la donna
esplose, cominciando ad inveire contro quello e a tirare pugni al
portone,
gesti per cui gli altri coinquilini la classificarono come
“soggetto
pericoloso”.
Durante questo eccesso di ira, decise
anche di tempestare di telefonate non si sa chi e di suonare ad alcuni
appartamenti, chiedendo gentilmente se potessero andare a suonare alla
porta di
quel disgraziato. Ovviamente quelli, pieni di paura, la assecondarono
ma non
riuscirono a riportare alcun tipo di successo.
Il miracolo avvenne quando, alle dodici
e mezza, una moto parcheggiò davanti al palazzo e ne scese
Duncan, con il casco
in una mano e un mazzo di chiavi nell’altra.
«Courtney?» chiese quello, non appena
si accorse della donna sotto il porticato. «Perché
diamine mi hai fatto
sessantadue chiamate in meno di dieci minuti, se sapevi che ero al
lavoro?»
Non appena vide il suo volto accigliato
dipingersi di una pericolosa sfumatura bordeaux, fece un passo indietro
istintivamente.
Lei gli si avventò praticamente contro,
cominciando una lunga sfuriata: «È più
un’ora - un’ora!
- che sto
citofonando
a John e ha pure la faccia tosta di non rispondermi! E tu invece?
Saresti
dovuto essere qui mezz’ora fa. Per colpa vostra, perderemo di
sicuro il volo, e
allora sarete due uomini morti! Quindi o voi
due vi organizzate e
prendete questa cosa seriamente, altrimenti vi lascio a Toronto! Sono
stata
abbastanza chiara?»
Concluse puntandogli un dito contro il
petto e avvicinando di colpo il viso al suo. Erano a due centimetri
l’uno
dall’altra.
Quello, avendo quell’espressione
corrucciata tanto vicino, non sapeva se provare un po’ di
timore, oppure ridere
sguaiatamente per le minacce da due soldi e per le guance di un rosso
intenso.
«Scusa se lavoro per portare dei soldi
- che, tra l’altro, serviranno anche per rimediare al
disastro commesso da John - e un
pezzo di pane a
casa» si limitò a dire, sfoderando uno dei suoi
ghigni.
«Apri immediatamente il portone»
articolò per bene, allontanandosi di colpo.
Non si parlarono fino a quando non
misero piede nell’appartamento - più che altro per
far rilassare la ragazza.
Una volta dentro, Courtney si precipitò di corsa verso la
camera da letto, dove
trovò John arrotolato tra le lenzuola e che ronfava
indisturbato, abbracciando
il cuscino e russando rumorosamente.
Il suo sonno durò per altri tre
secondi, quando due braccia tentarono di spintonarlo giù dal
letto malamente e
una voce armoniosa
cominciò ad
urlargli dentro le orecchie.
«Hai esattamente due secondi per
alzarti e prepararti, altrimenti non parti!»
«Dai, lasciami dormire per altri cinque
minuti» rispose con voce assonnata.
«Non esiste, siamo già in ritardo. Per
colpa tua!»
«Ho sonno!»
«Non mi interessa! Alzati, subito!»
Attirato dalle urla degne di due
cavernicoli, Duncan decise di raggiungerli in camera, dove assistette
ad una
delle scene più raccapriccianti
dell’umanità: John era ancorato con le mani alla
testiera del letto, intenzionato a non abbandonarlo, mentre Courtney lo
prendeva per le caviglie e tentava di scrollarlo da lì,
senza evidenti
successi.
Stava per fare dietrofront, quando la
voce di lei lo incollò al suolo: «Non osare
svignartela» gli ordinò. «E dammi
una mano, invece!»
«Perché? Io mi sto divertendo un mondo»
ridacchiò, incrociando le braccia al petto e alzando un
sopracciglio. «È lo
spettacolo più bello che abbia mai visto, giuro».
«Bene, allora farò da sola» rispose
acidamente. Dopodiché, strattonò così
forte il bruno che questo non riuscì più
a tenersi al letto e cadde di schiena sul pavimento.
«Il mio povero deretano!» si lamentò,
facendo conseguire alla frase un’altra miriade di
imprecazioni.
Senza aggiungere un’altra singola parola,
Courtney lo costrinse a rialzarsi, tirandolo per un orecchio, e lo
spinse
dentro al bagno, lanciandogli un fagotto di abiti e sbattendosi la
porta alle
spalle. A quei gesti, era sottointeso un secco
«Sbrigati».
Dopodiché, si rivolse verso Duncan, che
era rimasto immobile sul ciglio della porta a godersi la scena.
«Be’, cosa stai aspettando?» gli
chiese. «Carica i tuoi bagagli e quelli di John in macchina,
siamo in
ritardo!».
Stava quasi per riuscire quando,
voltandosi impercettibilmente verso di lui: «E cambiati
quella maglia, è
sudicia!» aggiunse, facendo un cenno col capo verso la
canotta incrostata di
grasso e uscendo dalla stanza.
Rimasto solo, lanciò un’occhiata verso
il suo armadio. “Sarà
meglio che incominci
a preparare la valigia” pensò,
sospirando.
•
• •
Ore
due e trentacinque.
A questo
punto, voi immaginerete che
Duncan sia riuscito a preparare la sua valigia in tempo record e a
caricare
tutti i bagagli in macchina, che John ci abbia messo un attimo a
prepararsi e
che tutti assieme siano riusciti ad arrivare all’aeroporto ad
un orario
decente, fatto il check-in e partiti alla volta di Vancouver.
E invece no.
John, invece di prepararsi, si era
addormentato sulla tazza del gabinetto, dove era stato ritrovato da
Courtney
alle tredici e cinque minuti. Dopo una lunga ramanzina e dopo aver
perso
quindici anni di vita, si era finalmente deciso di prepararsi a dovere.
Tornò
in camera solo alle tredici e quarantasette, dopo una rapida
doccia, ancora coi capelli bagnati e la maglietta indossata
alla rovescia.
Poi si scoprì che nessuno dei due aveva
preparato i bagagli, il che fece andare la ragazza ancora
più in bestia. Li
obbligò a mettere dentro solo lo stretto necessario in meno
di dieci minuti:
alle due in punto sarebbe partita, con o senza di loro.
Il più velocemente possibile, avevano
messo tutto quello che capitava sotto tiro in valigia e si erano
precipitati al
piano terra, con un borsone e un trolley ricolmi di roba, che sembrava
stessero
per esplodere. Per l’ora stabilita erano già tutti
in macchina e sfrecciavano
sulla tangenziale a centoventi chilometri orari verso
l’aeroporto, dove fecero
il loro trionfo alle due e tredici minuti.
E poi, dopo intricate peripezie,
riuscirono finalmente ad imbarcarsi e ad arrivare sani e
salvi… no, sto
scherzando.
Avevano svolto quasi tutte le pratiche
necessarie in pochissimo tempo; ne mancava solo una,
dopodiché sarebbero potuti
partire senza alcun tipo di intoppo: il metal detector.
Sia Courtney che Duncan passarono senza
alcun intoppo. E poi fu il turno di John.
Il nostro eroe avanzava lentamente
verso quell’oggetto insidioso, suo ultimo ostacolo da
superare e grande nemico.
Deglutì e, sudando a freddo, pregò tutti i Santi
che non cominciasse a suonare.
Un ultimo passo e poi ce l’avrebbe fatta.
Peccato che il metal detector emise un
fischio assordante e John, inizialmente propenso a darsela a gambe,
rimase
inchiodato al suolo, mentre due sbirri avanzavano verso di lui e
cominciarono a
perquisirlo da cima a fondo. Trovarono subito quello che cercavano:
incollato
con lo scotch sulla schiena, vi era una console di gioco e un joystick.
Persero un buon quarto d’ora per
spiegare il perché avesse avuto intenzione di far passare
stoltamente una
playstation sotto il metal detector, sapendo che era proibito portarla
con sé
sull’aereo e che avrebbe dovuta imbarcarla. Poi, grazie
all’abile parlantina di
Courtney, riuscirono a scamparsela senza nessuna sanzione. Erano le due
e
trentacinque.
«Ora mi spieghi perché diamine hai
deciso di portarti dietro la mia
console!» gli ringhiò Duncan in faccia, non appena
furono lontani. «Grazie a
te, mi è stata confiscata e probabilmente non la
rivedrò mai più».
«Volevo semplicemente avere qualcosa
con cui svagarmi, una volta in vacanza» si
giustificò, scrollando le spalle.
«Non immaginavo sarebbe finita così».
Già, John non brillava in intelligenza
e nemmeno in furbizia.
Probabili insulti e una successiva
litigata furente furono impediti da una voce femminile
all’altoparlante, che
annunciò: «Attenzione, il volo delle due e
quarantacinque, diretto a Vancouver,
partirà tra dieci minuti al gate 275».
«Gate 275?» sbottò Courtney.
«Non ce la
faremo mai e la colpa è solo vostra!» concluse,
indicando i due ragazzi che si
guardavano in cagnesco.
«Sta’ tranquilla, abbiamo tutto il
tempo» la rassicurò Duncan.
«Abbiamo
tutto il tempo?» ripeté irata,
avvicinandosi pericolosamente a lui.
«Saranno forse cinque chilometri di aeroporto a piedi, il
tutto con un carico
di circa cinque chili a testa. No che non abbiamo tutto il
tempo!»
E poi, inspiegabilmente, si ritrovarono
a correre per tutto l’aeroporto, zigzagando da una parte
all’altra tra le
persone e salendo e scendendo varie scale. Pur avendo un carico
abbastanza
pesante a testa, correvano piuttosto veloce. Varie volte rischiarono di
sbattere contro oggetti o di incollarsi dietro gruppi di persone, ma,
nonostante questo, ce la stavano quasi per fare, erano quasi al gate
275.
E poi, a circa cinque minuti dal volo,
John, non notando una vecchietta che sostava proprio davanti a lui, vi
si
scontrò. Entrambi caddero rovinosamente a terra e la
valigia fece un
volo di circa duecento metri e, poiché era chiusa a
pressione, tutti i vestiti
al suo interno volarono fuori e si sparsero per tutto il pavimento.
Tra i borbottii dell’anziana, le urla
isteriche di Courtney e le risate sommesse di Duncan, John,
bestemmiando quanti
più Santi conosceva, si sbrigò a raccogliere
tutto da terra, aiutato dalla
bontà d’animo di alcuni passanti.
Quattro minuti… tre minuti… due minuti…
Il volo stava quasi per partire, quando
i nostri tre eroi apparvero all’orizzonte del gate 275,
gridando qualcosa di
incomprensibile alle hostess e sventolando i loro biglietti. Pur di
arrivare in
tempo, Duncan decise per qualche arcano motivo di arrampicarsi sopra
una fila
di panche e di scavalcarla con un balzo. Ma per uno scherzo del
destino,
ricadde male e, impattando contro il pavimento, per poco non si ruppe
il collo.
Il bagaglio cadde malamente sul suo stomaco, facendogli emettere un
suono
strozzato.
«Ehm, non c’era bisogno di dare
spettacolo» mormorò una hostess dai capelli
castani raccolti in uno chignon,
aiutandolo a rialzarsi. «Vi avevamo visti arrivare».
E finalmente, dopo intricate e funeste
peripezie, riuscirono a salire sull’aereo con un minuto di
anticipo e a
sistemarsi nei loro rispettivi sedili.
«Ma cosa ti è saltato in mente!» lo
sgridò
Courtney, depositando la valigia sopra la sua testa. «Ti
saresti potuto rompere
qualcosa! Dico io, ma bisogna insegnarti tutto come ai bambini
dell’asilo?»
Duncan, dietro di lei, si preparò a
quella che sarebbe stata una ramanzina degna di sua madre. Ormai ci era
abituato.
«Se fai un’altra volta una cosa del
genere, non ci penserò due volte a squartarti vivo, sono
stata chiara?» lo minacciò,
puntandogli l’indice contro il petto.
Annuì, non sapendo se ridere per quel
colorito bordeaux che si era impossessato delle sue guance, o mostrarsi
annoiato da quella scenata.
Ma non ebbe il tempo né di dire e né di
fare nulla. A quell’ultima frase conseguì qualcosa
di totalmente inaspettato:
lei si era praticamente fiondata tra le sue braccia e lo stava
abbracciando.
•
• •
Da
qualche parte in Alberta, Canada.
Le due
e ventisette.(1)
Il pilota aveva appena annunciato
l’orario: le due e ventisette sul fuso orario
dell’America centrale.
Le hostess camminavano sopra e sotto
l’aereo da una buona mezz’ora con i carrelli
stracolmi di cibo, per rifocillare
tutti i passeggeri. John, che non aveva avuto la possibilità
di pranzare
decentemente, non faceva che prendere una porzione di tutto quello che
gli
passava sotto gli occhi. Quando, poi, passò il carrello con
tutti i dolci e
leccornie varie, si attrezzò al meglio: siccome non poteva
mangiare
qualcos’altro senza scoppiare, decise di prendere dal
portabagagli la prima
cosa che gli capitò sotto tiro - una borsetta rossa di
un’anziana seduta
davanti a lui - e di cominciare a riempirla di bignè e
pasticcini.
«Sei un essere disgustoso» commentò
Courtney affianco a lui, orripilata dallo spettacolo del ragazzo che
riempiva
la borsa di una perfetta sconosciuta e, di tanto in tanto, si cacciava
qualcosa
in bocca, per placare il suo stomaco.
«Qual è il problema?» si
limitò a
chiedere con il viso immerso nella bisaccia. «Ho
fame».
Lei roteò gli occhi, scuotendo energeticamente
la testa. Era capace di sorprenderla ogni giorno di più,
quell’essere.
«Spero ora tu sia felice» disse dopo un
po’, addentando una bomba alla crema. «Siamo
riusciti a prendere l’aereo senza
nessun contrattempo».
«Già» confermò lei laconica.
«E tra
un’oretta saremo a Vancouver. Non vedo l’ora di
rivedere Gwen».
Ma, naturalmente,
le cose non andarono come tutti avrebbero immaginato.
A seguito di queste parole, ci fu una
turbolenza che costrinse tutti quanti ad allacciarsi le cinture di
sicurezza.
Durante tutto quel momento, Courtney tenne gli occhi sbarrati e John
pensò a
rimpiazzarsi per bene: se doveva morire, era meglio avere lo stomaco
pieno.
Duncan, intrappolato un sedile dietro di fianco ad un omone largo
cinque volte
di più di un uomo normale, ronfava felice e beato senza
accorgersi di nulla.
Dopo uno scombussolio generale, tutto
tornò al proprio posto. Ma il sospiro generale fu
accompagnato da una notizia
non esattamente gradita.
«Signori, è il comandante che vi parla»
annunciò una voce tranquilla all’altoparlante.
«A causa di un problema all’ala
sinistra, ci troviamo costretti a fare scalo all’aeroporto di
Calgary. La sosta
prevista può variare dalle tre alle otto ore. Ci scusiamo
per il disagio».
Le scuse furono coperte dall’urlo
strappa timpani di Courtney, che fece risvegliare tutti coloro che si
erano
appisolati: «Cosa vuol dire che la sosta prevista
può variare dalla tre alle otto ore?!
Non esiste!»
John cercò di calmarla, invano:
cominciò ad urlare insulti contro il pilota, contro le
hostess, contro la
compagnia aerea… contro tutti. Urlava così forte
che un anziano seduto sei file
più avanti le gridò di smetterla immediatamente
ma, terrorizzato, aveva deciso
in fretta di lasciar perdere.
Sarebbe stata una lunga, lunghissima
sosta.
•
• •
Calgary,
Alberta, Canada.
Le
sei e trentadue.
Erano
quattro ore che erano fermi
all’aeroporto di Calgary e nessuno aveva deciso di dar loro
qualche notizia.
Courtney, per la felicità di tutti i
passeggeri, dopo aver capito che nessuno le dava ascolto - era persino
entrata
in cabina pilotaggio e aveva minacciato chiunque si trovasse
là dentro di far
ripartire il mezzo in fretta, altrimenti avrebbe fatto causa alla
compagnia -,
aveva deciso di darsi una calmata e di attendere che i lavori si
fossero
conclusi. Dopotutto, il matrimonio era sabato e loro non avevano
nessuna
fretta.
John aveva invece intrapreso un’altra
strada: mangiare. Si stava annoiando a morte, quindi che altro poteva
fare se non
ingozzarsi fino a scoppiare?
«Prenderai almeno dieci chili, se continuerai
così» lo rimproverò Courtney, quando si
servì la quinta fetta di torta al
cioccolato. Evidentemente aveva deciso di prendersela con lui, per
sfogare
tutta la sua ira.
«Che importa!» esclamò con la bocca
piena, suscitando tutto il suo disappunto. «Vuoi un
pezzo?»
«No grazie, sono a dieta» rispose,
scansando il piatto che le aveva gentilmente offerto.
Lui fece spallucce e ingurgitò tutto il
dolce in pochi bocconi. E, dopo un sonoro rutto, annunciò:
«Vado a fare i miei
bisogni» e si allontanò alla volta del bagno.
«Sai, penso che tu abbia bisogno di
rilassarti un po’» sussurrò una voce al
suo orecchio, qualche istante più
tardi.
Si voltò di scatto e si ritrovò davanti
il ghigno beffardo di Duncan, che si era seduto al posto di John ed era
intento
a sciogliere un nodo particolarmente insidioso dai suoi amati
auricolari.
«Cosa intendi?» chiese scontrosa,
incrociando le braccia al petto. «Io sono perfettamente
calma».
Ridacchiando un poco, si accinse a
passarle una cuffietta e a collegare gli auricolari al suo fedele iPod.
Mentre
scorreva alla ricerca di una canzone adeguata, le ordinò:
«Avanti, mettila e
lascia fare al maestro».
Visibilmente contrariata, decise di
obbedirgli e si preparò psicologicamente al peggio.
Duncan prediligeva generi quali il punk
e il metal e tutti i vari sottogeneri, tutta roba che Courtney aveva
sempre
detestato. Non riusciva a capire cosa ci trovasse di bello la gente in
quella
melodia confusionaria e che dopo un po’ faceva venire un mal
di testa
insopportabile. Per lei, non era altro che rumore.
Ma evidentemente Duncan, che aveva la
camera tappezzata di poster di famose rock band e scaffali pieni di cd
e vecchi
vinili, non la pensava alla stessa maniera. Possedeva anche una
chitarra
elettrica rossa fiammante, che aveva imparato ad usare
all’età di quindici
anni, quando aveva messo su il suo primo gruppo musicale, e che
utilizzava ogni
tanto per il solo gusto di infastidirla.
Difatti, presto il suono della
grancassa, seguito da quello del basso e delle chitarre,
cominciò rimbombarle
nelle orecchie, confermando i suoi peggiori sospetti.
Per un attimo ebbe l’impulso di
strappargli l’iPod dalle mani e di stoppare la musica,
evitando così che le sue
meningi potessero esplodere; poi, però, ci fu qualcosa che
la fece fermare.
Non seppe mai cosa fosse di preciso,
ma, in qualche modo, quel rumore
che
lei tanto odiava la stava aiutando a calmarsi, a sfogarsi,
quasi come un’efficiente terapia. Dopotutto, quella
musica non era poi così male.
E prima che potesse accorgersene, tutti
i suoi muscoli si rilassarono, gli occhi si chiusero istintivamente e
la sua
testa scivolò lentamente sulla spalla di Duncan.
•
• •
Vancouver,
Columbia Britannica, Canada.
Le
nove e quarantatré di sera.
La sosta
era durata in totale cinque
ore; successivamente, l’aereo aveva lasciato Calgary e, circa
un’oretta più
tardi, stava sorvolando i cieli di Vancouver, preparandosi per compiere
il
tanto agognato atterraggio.
Vancouver, come ebbero modo di
testimoniare i nostri amici una volta sul taxi che li avrebbe condotti
al loro
hotel, pur essendo meno estesa rispetto a Toronto, offriva dei paesaggi
suggestivi, che la loro città non riusciva a donare. Non
avevano mai visto una
cosa del genere.
Forse era il modo in cui le luci, che
adornavano gli enormi grattacieli, si riflettevano nell’acqua
dell’oceano - che
circondava l’intera città e che a Toronto era un
miraggio -, creando mille
sfumature e spettacoli mozzafiato.
Si trattava pur sempre di un’enorme
metropoli, ma aveva un qualcosa di speciale che mancava alla loro
città.
Il viaggio in auto durò meno del
previsto e, ancora rapiti da ciò che li circondava, scesero
dal taxi, mentre
l’autista li aiutava a scaricare i bagagli.
«Io vado a prendere le chiavi delle
stanze alla reception» annunciò Courtney, mollando
qualche banconota nelle mani
del tassista. «Voi, intanto, portate le valige
dentro».
E, detto questo, sparì dietro la porta
a vetro dell’hotel.
Ben presto i ragazzi si pentirono di
tutto quello che avevano portato: le tre valige, il borsone e gli
ingombranti
abiti da cerimonia risultarono essere estremamente pesanti. Non solo fu
arduo
portarli fino all’ingresso, ma, dato che gli ascensori erano
fuori uso,
dovettero trascinarli anche per tre piani. Durante tutto il tragitto,
John non
fece altro che lamentarsi di come quell’albergo non meritasse
nessuna delle quattro
stelle che aveva, rendendo - se possibile - il lavoro ancora
più duro.
«Siamo arrivati,» annunciò Courtney,
mentre gli altri due si appoggiarono al muro per riprendere fiato e
asciugarsi
il sudore, «stanze novantasette e novantotto».
Aprì la prima delle due porte e vi fece
scivolare dentro due dei tre trolley, che da soli erano già
la metà del peso
complessivo.
Fece per entrare, quando si voltò di
scatto, come se un pensiero l’avesse fulminata
all’istante: «Domattina andremo
a fare una sorpresa a Trent e Gwen, dopodiché ho intenzione
di fare un giro
panoramico della città» annunciò.
«Io vado a letto, è stato un viaggio molto
intenso. E, se fossi in voi, farei lo stesso. Buonanotte».
E, detto ciò, si richiuse la porta alle
spalle, lasciandoli da soli lungo il corridoio.
Ma le brutte sorprese non erano di
certo finite lì!
Quando recuperarono il fiato, Duncan
fece scivolare la chiave nella toppa ed entrò per primo
nella stanza. In fondo
ad essa, c’era l’ultimo dei suoi incubi: un letto
matrimoniale.
John lo raggiunse mentre ancora era
intento a studiarlo e, notando che l’amico mostrava
così tanto interesse,
decise di voltarsi a vedere ciò che aveva tanto catturato la
sua attenzione. E
poi capì anch’egli: avrebbero dovuto condividere
lo stesso letto per le
prossime cinque notti.
Lo stesso pensiero attraversò entrambe
le menti: «Tu dormi sul divano» sbottarono
all’unisono.
Sarebbe stata una lunga notte.
(1) No,
non avete letto male, né siamo tornati indietro nel tempo:
entra in scena il
fattore “fuso orario”
di cui vi avevo
accennato. Tra Calgary e Toronto ci sono due ore di differenza
(esempio, se a
Calgary sono le due, a Toronto saranno le quattro). Spero di avervi
chiarito le
idee.
Hayle’s wall
Sì,
lo so, avrei
dovuto aggiornare molto prima. E sì, sono una persona
ignobile per non averlo
fatto. Il mio comportamento non merita alcuna
giustificazione… ma, d’altro
canto, non sono famosa per essere puntuale ad aggiornare.
Però, devo darvi una
brutta notizia: non so quando posterò il quarto capitolo. Il
motivo è la
mancanza di ispirazione, lo stesso che mi ha fatto tardare la
pubblicazione di
questo. Spero di riuscire a trovare un po’ di tempo, durante
queste vacanze.
A proposito, buon
Natale passato a tutti. Mi auguro abbiate passato un bel giorno.
Beh, che dire?
Finalmente i nostri eroi sono a Vancouver e presto ritroveremo altri
due
personaggi molto amati.
Spero che il capitolo
vi sia piaciuto e ci vediamo al prossimo aggiornamento.
Nel caso non dovessi
farcela, vi faccio anche gli auguri di un sereno anno nuovo.
Un abbraccio.
Hayle xx