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Autore: smarsties    27/12/2015    2 recensioni
Sequel de «La storia inversa: ovvero, come distruggersi in sette giorni»
Sei anni dopo gli eventi del prequel, mentre tutti sono impegnati a fare i conti col mondo degli adulti, Trent e Gwen decidono di compiere il grande passo, ma alcuni inviti vengono recapitati all'ultimo momento.
Ciò innescherà una folle corsa contro il tempo prima, e una serie di esilaranti imprevisti poi, fra regali di nozze, fedi smarrite e antichi sentimenti mai scomparsi, sino al finale più dolce che possa esistere.
• • •
Dal settimo capitolo:
Davanti a lei vi era Duncan, spettinato e senza maglia. Cercò di sorvolare su quell’ultimo dettaglio.
«Almeno, principessa, abbi la decenza di metterti qualcosa addosso la prossima volta» la derise sghignazzando. «Ti sembra il caso di venire ad aprire conciata così? C’è il rischio che ti salti addosso» aggiunse con un occhiolino, accennando al suo pigiama - che comprendeva un top e un pantaloncino entrambi grigi.
Con una vaga nota di imbarazzo, replicò acidamente: «Hai forse perso la maglietta? In tal caso, mi dispiace deluderti, ma non è qui».
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Nuovo Personaggio, Trent | Coppie: Duncan/Courtney, Trent/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La storia inversa: quando tutto va come non dovrebbe'
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La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 
 

 

 

Martedì«
 

Toronto, Ontario, Canada.
15 luglio, ore dodici e tredici del pomeriggio.

Era un soave martedì pomeriggio di metà luglio. Le strade erano poco frequentate, visto che la maggior parte della gente stava mangiando oppure non ancora aveva cessato il turno di lavoro.
Tutto era avvolto dalla quiete, nessun rumore osava distruggerla… tranne che per una giovane donna sotto il portone dell’appartamento 58B di Stanford Avenue. Era circa un’ora che citofonava e urlava i peggio insulti verso colui che non osava aprirle, guadagnandosi quindi sgridate da vecchietti che volevano godersi un po’ di pace e famigliole che pranzavano assieme. Alcuni la minacciarono anche di chiamare la polizia ma, dopo aver visto lo sguardo omicida di lei, preferirono sparire dietro la finestra intimoriti.
L’ultima temeraria persona che aveva osato dirle qualcosa - una vecchietta del quarto piano sulla settantina -, si era dovuta sorbire tutta la sua isteria e, per il suo bene, aveva deciso di battere ritirata, borbottando qualcosa sui pazzi insani e sui manicomi.
Finalmente alle dodici e diciassette, la persona richiesta rispose al citofono, per gioia immensa di tutto il palazzo che non avrebbe più dovuto sorbirsi quelle urla.
«Sì?» domandò la voce di questo, con il tono adirato di chi è stato interrotto in un momento importante.
«Senti un po’, ha tre secondi per aprire questo dannato portone, altrimenti ti farò ricordare questo giorno» lo minacciò lei. La sua voce fece capire che non scherzava, affatto.
«Bene, arrivederci» disse semplicemente l’altro, riagganciando e ignorandola pesantemente.
E fu in quel momento che la donna esplose, cominciando ad inveire contro quello e a tirare pugni al portone, gesti per cui gli altri coinquilini la classificarono come “soggetto pericoloso”.
Durante questo eccesso di ira, decise anche di tempestare di telefonate non si sa chi e di suonare ad alcuni appartamenti, chiedendo gentilmente se potessero andare a suonare alla porta di quel disgraziato. Ovviamente quelli, pieni di paura, la assecondarono ma non riuscirono a riportare alcun tipo di successo.
Il miracolo avvenne quando, alle dodici e mezza, una moto parcheggiò davanti al palazzo e ne scese Duncan, con il casco in una mano e un mazzo di chiavi nell’altra.
«Courtney?» chiese quello, non appena si accorse della donna sotto il porticato. «Perché diamine mi hai fatto sessantadue chiamate in meno di dieci minuti, se sapevi che ero al lavoro?»
Non appena vide il suo volto accigliato dipingersi di una pericolosa sfumatura bordeaux, fece un passo indietro istintivamente.
Lei gli si avventò praticamente contro, cominciando una lunga sfuriata: «È più un’ora - un’ora! -  che sto citofonando a John e ha pure la faccia tosta di non rispondermi! E tu invece? Saresti dovuto essere qui mezz’ora fa. Per colpa vostra, perderemo di sicuro il volo, e allora sarete due uomini morti!
Quindi o voi due vi organizzate e prendete questa cosa seriamente, altrimenti vi lascio a Toronto! Sono stata abbastanza chiara?»
Concluse puntandogli un dito contro il petto e avvicinando di colpo il viso al suo. Erano a due centimetri l’uno dall’altra.
Quello, avendo quell’espressione corrucciata tanto vicino, non sapeva se provare un po’ di timore, oppure ridere sguaiatamente per le minacce da due soldi e per le guance di un rosso intenso.
«Scusa se lavoro per portare dei soldi - che, tra l’altro, serviranno anche per rimediare al disastro commesso da John - e un pezzo di pane a casa» si limitò a dire, sfoderando uno dei suoi ghigni.
«Apri immediatamente il portone» articolò per bene, allontanandosi di colpo.
Non si parlarono fino a quando non misero piede nell’appartamento - più che altro per far rilassare la ragazza. Una volta dentro, Courtney si precipitò di corsa verso la camera da letto, dove trovò John arrotolato tra le lenzuola e che ronfava indisturbato, abbracciando il cuscino e russando rumorosamente.
Il suo sonno durò per altri tre secondi, quando due braccia tentarono di spintonarlo giù dal letto malamente e una voce armoniosa cominciò ad urlargli dentro le orecchie.
«Hai esattamente due secondi per alzarti e prepararti, altrimenti non parti!»
«Dai, lasciami dormire per altri cinque minuti» rispose con voce assonnata.
«Non esiste, siamo già in ritardo. Per colpa tua
«Ho sonno!»
«Non mi interessa! Alzati, subito
Attirato dalle urla degne di due cavernicoli, Duncan decise di raggiungerli in camera, dove assistette ad una delle scene più raccapriccianti dell’umanità: John era ancorato con le mani alla testiera del letto, intenzionato a non abbandonarlo, mentre Courtney lo prendeva per le caviglie e tentava di scrollarlo da lì, senza evidenti successi.
Stava per fare dietrofront, quando la voce di lei lo incollò al suolo: «Non osare svignartela» gli ordinò. «E dammi una mano, invece!»
«Perché? Io mi sto divertendo un mondo» ridacchiò, incrociando le braccia al petto e alzando un sopracciglio. «È lo spettacolo più bello che abbia mai visto, giuro».
«Bene, allora farò da sola» rispose acidamente. Dopodiché, strattonò così forte il bruno che questo non riuscì più a tenersi al letto e cadde di schiena sul pavimento.
«Il mio povero deretano!» si lamentò, facendo conseguire alla frase un’altra miriade di imprecazioni.
Senza aggiungere un’altra singola parola, Courtney lo costrinse a rialzarsi, tirandolo per un orecchio, e lo spinse dentro al bagno, lanciandogli un fagotto di abiti e sbattendosi la porta alle spalle. A quei gesti, era sottointeso un secco «Sbrigati».
Dopodiché, si rivolse verso Duncan, che era rimasto immobile sul ciglio della porta a godersi la scena.
«Be’, cosa stai aspettando?» gli chiese. «Carica i tuoi bagagli e quelli di John in macchina, siamo in ritardo!».
Stava quasi per riuscire quando, voltandosi impercettibilmente verso di lui: «E cambiati quella maglia, è sudicia!» aggiunse, facendo un cenno col capo verso la canotta incrostata di grasso e uscendo dalla stanza.
Rimasto solo, lanciò un’occhiata verso il suo armadio. “Sarà meglio che incominci a preparare la valigia” pensò, sospirando.
 

• • •

 
Ore due e trentacinque.

A questo punto, voi immaginerete che Duncan sia riuscito a preparare la sua valigia in tempo record e a caricare tutti i bagagli in macchina, che John ci abbia messo un attimo a prepararsi e che tutti assieme siano riusciti ad arrivare all’aeroporto ad un orario decente, fatto il check-in e partiti alla volta di Vancouver.
E invece no.
John, invece di prepararsi, si era addormentato sulla tazza del gabinetto, dove era stato ritrovato da Courtney alle tredici e cinque minuti. Dopo una lunga ramanzina e dopo aver perso quindici anni di vita, si era finalmente deciso di prepararsi a dovere. Tornò in camera solo alle tredici e quarantasette, dopo una rapida doccia, ancora coi capelli bagnati e la maglietta indossata alla rovescia.
Poi si scoprì che nessuno dei due aveva preparato i bagagli, il che fece andare la ragazza ancora più in bestia. Li obbligò a mettere dentro solo lo stretto necessario in meno di dieci minuti: alle due in punto sarebbe partita, con o senza di loro.
Il più velocemente possibile, avevano messo tutto quello che capitava sotto tiro in valigia e si erano precipitati al piano terra, con un borsone e un trolley ricolmi di roba, che sembrava stessero per esplodere. Per l’ora stabilita erano già tutti in macchina e sfrecciavano sulla tangenziale a centoventi chilometri orari verso l’aeroporto, dove fecero il loro trionfo alle due e tredici minuti.
E poi, dopo intricate peripezie, riuscirono finalmente ad imbarcarsi e ad arrivare sani e salvi… no, sto scherzando.
Avevano svolto quasi tutte le pratiche necessarie in pochissimo tempo; ne mancava solo una, dopodiché sarebbero potuti partire senza alcun tipo di intoppo: il metal detector.
Sia Courtney che Duncan passarono senza alcun intoppo. E poi fu il turno di John.
Il nostro eroe avanzava lentamente verso quell’oggetto insidioso, suo ultimo ostacolo da superare e grande nemico. Deglutì e, sudando a freddo, pregò tutti i Santi che non cominciasse a suonare. Un ultimo passo e poi ce l’avrebbe fatta.
Peccato che il metal detector emise un fischio assordante e John, inizialmente propenso a darsela a gambe, rimase inchiodato al suolo, mentre due sbirri avanzavano verso di lui e cominciarono a perquisirlo da cima a fondo. Trovarono subito quello che cercavano: incollato con lo scotch sulla schiena, vi era una console di gioco e un joystick.
Persero un buon quarto d’ora per spiegare il perché avesse avuto intenzione di far passare stoltamente una playstation sotto il metal detector, sapendo che era proibito portarla con sé sull’aereo e che avrebbe dovuta imbarcarla. Poi, grazie all’abile parlantina di Courtney, riuscirono a scamparsela senza nessuna sanzione. Erano le due e trentacinque.
«Ora mi spieghi perché diamine hai deciso di portarti dietro la mia console!» gli ringhiò Duncan in faccia, non appena furono lontani. «Grazie a te, mi è stata confiscata e probabilmente non la rivedrò mai più».
«Volevo semplicemente avere qualcosa con cui svagarmi, una volta in vacanza» si giustificò, scrollando le spalle. «Non immaginavo sarebbe finita così».
Già, John non brillava in intelligenza e nemmeno in furbizia.
Probabili insulti e una successiva litigata furente furono impediti da una voce femminile all’altoparlante, che annunciò: «Attenzione, il volo delle due e quarantacinque, diretto a Vancouver, partirà tra dieci minuti al gate 275».
«Gate 275?» sbottò Courtney. «Non ce la faremo mai e la colpa è solo vostra!» concluse, indicando i due ragazzi che si guardavano in cagnesco.
«Sta’ tranquilla, abbiamo tutto il tempo» la rassicurò Duncan.
«Abbiamo tutto il tempo?» ripeté irata, avvicinandosi pericolosamente a lui. «Saranno forse cinque chilometri di aeroporto a piedi, il tutto con un carico di circa cinque chili a testa. No che non abbiamo tutto il tempo!»
E poi, inspiegabilmente, si ritrovarono a correre per tutto l’aeroporto, zigzagando da una parte all’altra tra le persone e salendo e scendendo varie scale. Pur avendo un carico abbastanza pesante a testa, correvano piuttosto veloce. Varie volte rischiarono di sbattere contro oggetti o di incollarsi dietro gruppi di persone, ma, nonostante questo, ce la stavano quasi per fare, erano quasi al gate 275.
E poi, a circa cinque minuti dal volo, John, non notando una vecchietta che sostava proprio davanti a lui, vi si scontrò. Entrambi caddero rovinosamente a terra e la valigia fece un volo di circa duecento metri e, poiché era chiusa a pressione, tutti i vestiti al suo interno volarono fuori e si sparsero per tutto il pavimento.
Tra i borbottii dell’anziana, le urla isteriche di Courtney e le risate sommesse di Duncan, John, bestemmiando quanti più Santi conosceva, si sbrigò a raccogliere tutto da terra, aiutato dalla bontà d’animo di alcuni passanti.
Quattro minuti… tre minuti… due minuti…
Il volo stava quasi per partire, quando i nostri tre eroi apparvero all’orizzonte del gate 275, gridando qualcosa di incomprensibile alle hostess e sventolando i loro biglietti. Pur di arrivare in tempo, Duncan decise per qualche arcano motivo di arrampicarsi sopra una fila di panche e di scavalcarla con un balzo. Ma per uno scherzo del destino, ricadde male e, impattando contro il pavimento, per poco non si ruppe il collo. Il bagaglio cadde malamente sul suo stomaco, facendogli emettere un suono strozzato.
«Ehm, non c’era bisogno di dare spettacolo» mormorò una hostess dai capelli castani raccolti in uno chignon, aiutandolo a rialzarsi. «Vi avevamo visti arrivare».
E finalmente, dopo intricate e funeste peripezie, riuscirono a salire sull’aereo con un minuto di anticipo e a sistemarsi nei loro rispettivi sedili.
«Ma cosa ti è saltato in mente!» lo sgridò Courtney, depositando la valigia sopra la sua testa. «Ti saresti potuto rompere qualcosa! Dico io, ma bisogna insegnarti tutto come ai bambini dell’asilo?»
Duncan, dietro di lei, si preparò a quella che sarebbe stata una ramanzina degna di sua madre. Ormai ci era abituato.
«Se fai un’altra volta una cosa del genere, non ci penserò due volte a squartarti vivo, sono stata chiara?» lo minacciò, puntandogli l’indice contro il petto.
Annuì, non sapendo se ridere per quel colorito bordeaux che si era impossessato delle sue guance, o mostrarsi annoiato da quella scenata.
Ma non ebbe il tempo né di dire e né di fare nulla. A quell’ultima frase conseguì qualcosa di totalmente inaspettato: lei si era praticamente fiondata tra le sue braccia e lo stava abbracciando.
 

• • •

 
Da qualche parte in Alberta, Canada.
Le due e ventisette.(1)

Il pilota aveva appena annunciato l’orario: le due e ventisette sul fuso orario dell’America centrale.
Le hostess camminavano sopra e sotto l’aereo da una buona mezz’ora con i carrelli stracolmi di cibo, per rifocillare tutti i passeggeri. John, che non aveva avuto la possibilità di pranzare decentemente, non faceva che prendere una porzione di tutto quello che gli passava sotto gli occhi. Quando, poi, passò il carrello con tutti i dolci e leccornie varie, si attrezzò al meglio: siccome non poteva mangiare qualcos’altro senza scoppiare, decise di prendere dal portabagagli la prima cosa che gli capitò sotto tiro - una borsetta rossa di un’anziana seduta davanti a lui - e di cominciare a riempirla di bignè e pasticcini.
«Sei un essere disgustoso» commentò Courtney affianco a lui, orripilata dallo spettacolo del ragazzo che riempiva la borsa di una perfetta sconosciuta e, di tanto in tanto, si cacciava qualcosa in bocca, per placare il suo stomaco.
«Qual è il problema?» si limitò a chiedere con il viso immerso nella bisaccia. «Ho fame».
Lei roteò gli occhi, scuotendo energeticamente la testa. Era capace di sorprenderla ogni giorno di più, quell’essere.
«Spero ora tu sia felice» disse dopo un po’, addentando una bomba alla crema. «Siamo riusciti a prendere l’aereo senza nessun contrattempo».
«Già» confermò lei laconica. «E tra un’oretta saremo a Vancouver. Non vedo l’ora di rivedere Gwen».
Ma, naturalmente, le cose non andarono come tutti avrebbero immaginato.
A seguito di queste parole, ci fu una turbolenza che costrinse tutti quanti ad allacciarsi le cinture di sicurezza. Durante tutto quel momento, Courtney tenne gli occhi sbarrati e John pensò a rimpiazzarsi per bene: se doveva morire, era meglio avere lo stomaco pieno. Duncan, intrappolato un sedile dietro di fianco ad un omone largo cinque volte di più di un uomo normale, ronfava felice e beato senza accorgersi di nulla.
Dopo uno scombussolio generale, tutto tornò al proprio posto. Ma il sospiro generale fu accompagnato da una notizia non esattamente gradita.
«Signori, è il comandante che vi parla» annunciò una voce tranquilla all’altoparlante. «A causa di un problema all’ala sinistra, ci troviamo costretti a fare scalo all’aeroporto di Calgary. La sosta prevista può variare dalle tre alle otto ore. Ci scusiamo per il disagio».
Le scuse furono coperte dall’urlo strappa timpani di Courtney, che fece risvegliare tutti coloro che si erano appisolati: «Cosa vuol dire che la sosta prevista può variare dalla tre alle otto ore?! Non esiste
John cercò di calmarla, invano: cominciò ad urlare insulti contro il pilota, contro le hostess, contro la compagnia aerea… contro tutti. Urlava così forte che un anziano seduto sei file più avanti le gridò di smetterla immediatamente ma, terrorizzato, aveva deciso in fretta di lasciar perdere.
Sarebbe stata una lunga, lunghissima sosta.

 

• • •

 
Calgary, Alberta, Canada.
Le sei e trentadue.

Erano quattro ore che erano fermi all’aeroporto di Calgary e nessuno aveva deciso di dar loro qualche notizia.
Courtney, per la felicità di tutti i passeggeri, dopo aver capito che nessuno le dava ascolto - era persino entrata in cabina pilotaggio e aveva minacciato chiunque si trovasse là dentro di far ripartire il mezzo in fretta, altrimenti avrebbe fatto causa alla compagnia -, aveva deciso di darsi una calmata e di attendere che i lavori si fossero conclusi. Dopotutto, il matrimonio era sabato e loro non avevano nessuna fretta.
John aveva invece intrapreso un’altra strada: mangiare. Si stava annoiando a morte, quindi che altro poteva fare se non ingozzarsi fino a scoppiare?
«Prenderai almeno dieci chili, se continuerai così» lo rimproverò Courtney, quando si servì la quinta fetta di torta al cioccolato. Evidentemente aveva deciso di prendersela con lui, per sfogare tutta la sua ira.
«Che importa!» esclamò con la bocca piena, suscitando tutto il suo disappunto. «Vuoi un pezzo?»
«No grazie, sono a dieta» rispose, scansando il piatto che le aveva gentilmente offerto.
Lui fece spallucce e ingurgitò tutto il dolce in pochi bocconi. E, dopo un sonoro rutto, annunciò: «Vado a fare i miei bisogni» e si allontanò alla volta del bagno.
«Sai, penso che tu abbia bisogno di rilassarti un po’» sussurrò una voce al suo orecchio, qualche istante più tardi.
Si voltò di scatto e si ritrovò davanti il ghigno beffardo di Duncan, che si era seduto al posto di John ed era intento a sciogliere un nodo particolarmente insidioso dai suoi amati auricolari.
«Cosa intendi?» chiese scontrosa, incrociando le braccia al petto. «Io sono perfettamente calma».
Ridacchiando un poco, si accinse a passarle una cuffietta e a collegare gli auricolari al suo fedele iPod. Mentre scorreva alla ricerca di una canzone adeguata, le ordinò: «Avanti, mettila e lascia fare al maestro».
Visibilmente contrariata, decise di obbedirgli e si preparò psicologicamente al peggio.
Duncan prediligeva generi quali il punk e il metal e tutti i vari sottogeneri, tutta roba che Courtney aveva sempre detestato. Non riusciva a capire cosa ci trovasse di bello la gente in quella melodia confusionaria e che dopo un po’ faceva venire un mal di testa insopportabile. Per lei, non era altro che rumore.
Ma evidentemente Duncan, che aveva la camera tappezzata di poster di famose rock band e scaffali pieni di cd e vecchi vinili, non la pensava alla stessa maniera. Possedeva anche una chitarra elettrica rossa fiammante, che aveva imparato ad usare all’età di quindici anni, quando aveva messo su il suo primo gruppo musicale, e che utilizzava ogni tanto per il solo gusto di infastidirla.
Difatti, presto il suono della grancassa, seguito da quello del basso e delle chitarre, cominciò rimbombarle nelle orecchie, confermando i suoi peggiori sospetti.
Per un attimo ebbe l’impulso di strappargli l’iPod dalle mani e di stoppare la musica, evitando così che le sue meningi potessero esplodere; poi, però, ci fu qualcosa che la fece fermare.
Non seppe mai cosa fosse di preciso, ma, in qualche modo, quel rumore che lei tanto odiava la stava aiutando a calmarsi, a sfogarsi, quasi come un’efficiente terapia. Dopotutto, quella musica non era poi così male.
E prima che potesse accorgersene, tutti i suoi muscoli si rilassarono, gli occhi si chiusero istintivamente e la sua testa scivolò lentamente sulla spalla di Duncan.
 

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Vancouver, Columbia Britannica, Canada.
Le nove e quarantatré di sera.

La sosta era durata in totale cinque ore; successivamente, l’aereo aveva lasciato Calgary e, circa un’oretta più tardi, stava sorvolando i cieli di Vancouver, preparandosi per compiere il tanto agognato atterraggio.
Vancouver, come ebbero modo di testimoniare i nostri amici una volta sul taxi che li avrebbe condotti al loro hotel, pur essendo meno estesa rispetto a Toronto, offriva dei paesaggi suggestivi, che la loro città non riusciva a donare. Non avevano mai visto una cosa del genere.
Forse era il modo in cui le luci, che adornavano gli enormi grattacieli, si riflettevano nell’acqua dell’oceano - che circondava l’intera città e che a Toronto era un miraggio -, creando mille sfumature e spettacoli mozzafiato.
Si trattava pur sempre di un’enorme metropoli, ma aveva un qualcosa di speciale che mancava alla loro città.
Il viaggio in auto durò meno del previsto e, ancora rapiti da ciò che li circondava, scesero dal taxi, mentre l’autista li aiutava a scaricare i bagagli.
«Io vado a prendere le chiavi delle stanze alla reception» annunciò Courtney, mollando qualche banconota nelle mani del tassista. «Voi, intanto, portate le valige dentro».
E, detto questo, sparì dietro la porta a vetro dell’hotel.
Ben presto i ragazzi si pentirono di tutto quello che avevano portato: le tre valige, il borsone e gli ingombranti abiti da cerimonia risultarono essere estremamente pesanti. Non solo fu arduo portarli fino all’ingresso, ma, dato che gli ascensori erano fuori uso, dovettero trascinarli anche per tre piani. Durante tutto il tragitto, John non fece altro che lamentarsi di come quell’albergo non meritasse nessuna delle quattro stelle che aveva, rendendo - se possibile - il lavoro ancora più duro.
«Siamo arrivati,» annunciò Courtney, mentre gli altri due si appoggiarono al muro per riprendere fiato e asciugarsi il sudore, «stanze novantasette e novantotto».
Aprì la prima delle due porte e vi fece scivolare dentro due dei tre trolley, che da soli erano già la metà del peso complessivo.
Fece per entrare, quando si voltò di scatto, come se un pensiero l’avesse fulminata all’istante: «Domattina andremo a fare una sorpresa a Trent e Gwen, dopodiché ho intenzione di fare un giro panoramico della città» annunciò. «Io vado a letto, è stato un viaggio molto intenso. E, se fossi in voi, farei lo stesso. Buonanotte».
E, detto ciò, si richiuse la porta alle spalle, lasciandoli da soli lungo il corridoio.
Ma le brutte sorprese non erano di certo finite lì!
Quando recuperarono il fiato, Duncan fece scivolare la chiave nella toppa ed entrò per primo nella stanza. In fondo ad essa, c’era l’ultimo dei suoi incubi: un letto matrimoniale.
John lo raggiunse mentre ancora era intento a studiarlo e, notando che l’amico mostrava così tanto interesse, decise di voltarsi a vedere ciò che aveva tanto catturato la sua attenzione. E poi capì anch’egli: avrebbero dovuto condividere lo stesso letto per le prossime cinque notti.
Lo stesso pensiero attraversò entrambe le menti: «Tu dormi sul divano» sbottarono all’unisono.
Sarebbe stata una lunga notte.

 

 

 

(1) No, non avete letto male, né siamo tornati indietro nel tempo: entra in scena il fattore “fuso orario” di cui vi avevo accennato. Tra Calgary e Toronto ci sono due ore di differenza (esempio, se a Calgary sono le due, a Toronto saranno le quattro). Spero di avervi chiarito le idee.

 

 

 

 

 

 

 

Hayle’s wall
Sì, lo so, avrei dovuto aggiornare molto prima. E sì, sono una persona ignobile per non averlo fatto. Il mio comportamento non merita alcuna giustificazione… ma, d’altro canto, non sono famosa per essere puntuale ad aggiornare.
Però, devo darvi una brutta notizia: non so quando posterò il quarto capitolo. Il motivo è la mancanza di ispirazione, lo stesso che mi ha fatto tardare la pubblicazione di questo. Spero di riuscire a trovare un po’ di tempo, durante queste vacanze.
A proposito, buon Natale passato a tutti. Mi auguro abbiate passato un bel giorno.
Beh, che dire? Finalmente i nostri eroi sono a Vancouver e presto ritroveremo altri due personaggi molto amati.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e ci vediamo al prossimo aggiornamento.
Nel caso non dovessi farcela, vi faccio anche gli auguri di un sereno anno nuovo.
Un abbraccio.

Hayle xx

  
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