Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: effewrites    29/12/2015    0 recensioni
[JeanMarco, Boyband AU, scritta per un Christmas Exchange.]
In cui una storia d'amore fiorisce tra le classifiche, i flash dei paparazzi sono abbastanza accecanti da portare a scelte sconsiderate, Levi è un produttore fin troppo esigente e la scena musicale pare essere una provincia del famigerato closet in cui parecchi sono bloccati.
Questa è la storia di parole più facili da pronunciare di fronte alla folla che dinanzi alla persona che si ama.
Questa è la storia di Marco e Jean.
Genere: Angst, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Marco Bodt, Reiner Braun
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Qualche breve nota prima di lasciarvi alla lettura: chiedo scusa se la formattazione risulta "strana" in alcuni punti, non sono riuscita a sistemarla per bene, e se i personaggi risultano essere OOC come ho inserito tra gli avvertimenti è perché è stata la prima volta in assoluto che ho scritto in questo fandom ;_; mi dispiace! Ah, e ancora: ho un serio problema nella trascrizione dei cognomi dei personaggi. Molto serio. E internet con le sue millemila wikia che riportano trascrizioni diverse non aiuta.
 

The words you speak (surrounding me)

 
 
“Questo sound è penoso”.

Marco abbassò lo sguardo e un sospiro colmo di frustrazione sfuggì dalle sue labbra schiuse. Nella sala da riunione le note della canzone che lui e i ragazzi avevano registrato in fretta e furia neanche tre giorni prima s’interruppero bruscamente quando Levi premette il tasto di spegnimento sul telecomando dello stereo. Accanto a lui, Marco vide Eren stringere violentemente i pugni che teneva poggiati sulle gambe.

Levi si alzò, chinandosi in avanti per poggiare i palmi delle mani sulla superficie del lungo tavolo intorno al quale erano riuniti Marco e gli altri; il ragazzo ebbe un brivido appena percettibile nell’avvertire la presenza incombente del produttore, che seppur di altezza ben al di sotto della media per un uomo della sua età sapeva incutere molto più timore di chiunque altro Marco avesse mai incontrato in tutta la sua vita.

“Un fottutissimo, penoso disastro”.

“Levi”, intervenne Erwin, poggiato contro la grande vetrata che occupava un’intera parete della stanza, rendendo l’ambiente luminoso – e un incubo per chiunque soffrisse di vertigini, dal momento che offriva una panoramica della città dal settimo piano dell’edificio della casa discografica.

Levi lo interruppe ancor prima che Erwin potesse aprir bocca una seconda volta. “Qualcuno di voi mocciosi ha avuto il buonsenso di controllare le classifiche dell’ultimo mese?”

Marco deglutì. Seduto davanti a lui, Jean scosse il capo con uno sbuffo. Sapeva benissimo qual era il punto a cui Levi voleva giungere – tutti loro ne erano più che consapevoli.

I Wings of Freedom, la boyband composta da Marco Bodt, batteria, Jean Kirschtein, chitarra, Armin Arlert, tastiere e Eren Jaeger, lead vocalist, avevano subito un crollo devastante sia nella classifica internazionale che in quella nazionale nell’ultimo mese. Le cose avevano iniziato ad andar male già sei mesi dopo l’uscita del loro ultimo album, ma complici una serie di mosse strategiche ben piazzate del loro team di PR, i ragazzi erano riusciti a cavalcare la cresta dell’onda ancora per diverso tempo. Adesso, però, le interviste e il riscontro nei social non bastavano più a bilanciare la mancanza di nuovo materiale.

“Mr. Ackerman, abbiamo solo bisogno di un po’ di tempo,” provò ad azzardare Eren, prima che Levi lo fulminasse con uno sguardo glaciale.

“Il tempo, Eren,” mormorò Levi in risposta. “E’ un lusso che non possiamo permetterci.”

Jean si accasciò talmente tanto sulla propria sedia che i suoi piedi sfiorarono le caviglie di Marco prima di ritrarsi con uno scatto. Marco fece finta di non essersene accorto, cosa che non gli risultò particolarmente complessa. I suoi pensieri e le sue preoccupazioni, al momento, erano indirizzati totalmente alla situazione della sua band.

Levi Ackerman aveva ragione a lamentarsi. Oggettivamente, la canzone che avevano registrato nei giorni precedenti era ben al di sotto delle loro consuete performance. Non che fosse totalmente da buttare, questo no, ma mancava la scintilla che aveva caratterizzato tutti i brani del loro precedente album e che aveva consentito ai Wings of Freedom di ascendere all’Olimpo delle boyband più in voga del momento.

Il loro primo album, Attack!, era stato un successo insperato. Sui social network erano comparsi nel giro di pochi giorni hashtag riguardanti la band, così come diverse fanpage, e il loro profilo YouTube aveva accresciuto il numero di iscritti in maniera esorbitante. I numeri crescevano a vista d’occhio, così come i fan. Il problema era a livello produttivo.

“Se non ho la certezza di non dare il via libera alla produzione di pura merda, il secondo album rimane off limits,” stava dicendo Levi, ottenendo in risposta una lamentela soffocata da parte di Armin ed Eren e un sospiro da Erwin. “E se non abbiamo il secondo album, non abbiamo nulla per andare avanti. Kaput.”

Marco si mosse a disagio sulla sedia che occupava. Sapeva benissimo che Levi non era il tipo da mandare minacce a vuoto, così come era perfettamente a conoscenza del fatto che una band non può vivere solamente di PR stunts. Avevano bisogno di nuova musica. Avevano disperatamente bisogno di nuova musica. Quasi senza pensarci alzò lo sguardo su Jean.

“Cerchiamo di lavorare sul sound, allora”, propose Erwin, sempre propenso a trovare una soluzione piuttosto che a rimuginare sui problemi. “Perché è quello il problema, mi pare di aver compreso.”

Levi annuì. “E’ commerciale. Non coglie nessun rischio. E’ prevedibile e non arriva a chi lo ascolta. Le parole, però, quelle le terrei. Sono una buona base.”

Jean scoppiò a ridere – una risata secca e breve, priva di qualunque genuinità. “Tipico”, disse, passandosi poi una mano fra i capelli, rasati lungo la nuca e culminanti in un ciuffo di un biondo tendente al grigio per via di una precedente tintura. Il veleno nelle sue parole sarebbe stato comprensibile per chiunque; il motivo della sua esistenza, però, era accessibile solo a pochi. Marco si morse l’interno della guancia mentre Eren, al suo fianco, si sporgeva sul tavolo lanciando uno sguardo irritato a Jean.

“Cosa vorresti dire?”

Jean si lasciò andare contro lo schienale della sedia, inclinando appena il viso nella direzione di Eren. “Nulla,” disse, con le labbra inclinate in un’espressione di fastidio. “Assolutamente nulla.”

 
***

La televisione accesa era sintonizzata su MTV, chiaramente per una qualche segreta tendenza masochistica di Armin. Il biondo teneva il telecomando stretto tra le mani, aspettandosi che da un momento all’altro Eren, stravaccato poco lontano su di un puf color viola acceso, tentasse nuovamente di rubarglielo per spegnere la tv in uno scatto di frustrazione.

Sul grande schermo piatto scorrevano le immagini del nuovo video musicale dei Titans feat. Historia: ambientazione post apocalittica, una mossa saggia considerate le tendenze cinematografiche dell’ultimo periodo. Annie, Reiner e Bertholdt ricoprivano i ruoli di soldati in quella che sembrava essere una guerra contro morti viventi, e al momento del ritornello alla voce di Annie si aggiungeva quella di Historia – o Christa, volendo usare il suo nome vero e non quello d’arte – perfetta nell’interpretare una ragazza che vagava tra le strade devastate, la sua aria eterea e innocente in contrapposizione alla distruzione intorno a lei. 

Era anche una bella canzone, pensò Marco, il genere di canzone con un ritmo trascinante e un ritornello che esplode cogliendo di sorpresa chi sta ascoltando. Probabilmente era questo che Levi intendeva quando parlava di sound rischioso e innovativo. Seduto sul divano, con i gomiti poggiati sulle ginocchia, Marco si prese la testa tra le mani per massaggiarsi le tempie con fare stanco.

Rimase in quella posizione fino a quando Erwin Smith non fece il suo ingresso nella stanza, avendo finalmente abbandonato l’ufficio di Levi. Dalla sua espressione non trapelavano evidenti emozioni, ma Erwin era conosciuto nell’ambiente per essere il genere di persona stoica che persino di fronte alla peggiore delle notizie riesce a mantenere un’apparenza neutra. E difatti —

“Senza un nuovo singolo, il progetto per il nuovo album verrà mandato in standby,” disse, cosa che scatenò una serie di esclamazioni sgomente da parte dei ragazzi. A Erwin bastò alzare il palmo di una mano per far scendere nuovamente il silenzio in sala. “Senza del materiale convincente né Ackerman né il resto del team si trovano nelle circostanze adatte per investire in un disco. Il successo che avete raggiunto nei mesi passati ha il lato negativo di aver innalzato le aspettative nei vostri confronti.”

“Ci stiamo provando,” mormorò Marco, sentendosi in dovere di difendere il lavoro suo e dei suoi compagni. “A creare qualcosa che si adegui a questi standard.”

Persino lui, all’incirca una settimana prima, aveva provato a scrivere una canzone nella speranza di sbloccare la situazione. Aveva trascorso una notte insonne a cercare sulla sua vecchia chitarra acustica gli accordi che meglio si accordassero con il testo che aveva composto. Il caffè ingurgitato nella speranza di rimanere sveglio, unito alla disperazione che da qualche tempo pareva coglierlo non appena scendeva la sera, aveva aiutato Marco a ritrovarsi a notte inoltrata con una canzone che aveva intitolato “Half of Me”.  Il giorno dopo, troppo esausto per avere dei freni inibitori funzionanti, l’aveva proposta agli altri.

“Marco,” aveva detto Armin, dopo i diversi attimi di silenzio che avevano seguito l’esecuzione del brano. “Ti vogliamo bene e siamo davvero grati del tuo spirito d’iniziativa. Ma, ecco, come dire…”

Marco provò l’inarrestabile istinto di sprofondare tra i cuscini del divanetto su cui era seduto al ricordo del viso dell’amico, troppo premuroso e attento a non ferirlo per dirgli apertamente quanto la sua canzone facesse schifo.

“Sono il vostro manager, e so bene quale sia il vostro potenziale,” stava dicendo Erwin quando Marco recuperò il filo del discorso. “I brani con cui avete ottenuto il successo erano a tutt’altro livello rispetto alle vostre proposte più recenti. Che diamine vi sta succedendo? La vostra carriera è ancora agli inizi, è troppo presto per una crisi creativa.”

“Be’,” fece Jean, che fino a quel momento era rimasto seduto in disparte, troppo impegnato a prestare attenzione allo schermo del proprio telefono. Infilò il cellulare nella tasca dei jeans, chinandosi poi in avanti per far scorrere il proprio sguardo sui presenti nella sala. “Avete sentito tutti quello che ha detto Ackerman. I testi sono okay. E’ la musica ad essere una merda.”

“Qual è il tuo problema, Jean?” sbottò Eren, le sopracciglia scure corrugate in un’espressione astiosa. Armin tentò di placarlo poggiandogli una mano sulla spalla, ma Eren la scrollò via.

“Il mio problema,” replicò Jean, con una strana calma nella voce. “E’ che sono stanco di vedere i miei testi essere portati a fondo dalle vostre idee riguardo il sound su cui dovremmo puntare.”

Ovviamente, pensò Marco. Era logico che il discorso finisse su questo.

“Siamo una band, Jean,” azzardò Armin, prima che Eren potesse controbattere. “Non c’è un tuo, o un mio per quel che vale. Solamente un nostro, sia nel bene che nel male.”

“Armin ha ragione,” aggiunse Erwin, dandogli man forte. “E tra l’altro, c’è stato un calo sia a livello musicale che testuale, checché Levi ne dica. Nel primo disco i tuoi testi erano una bomba, un pugno nello stomaco, ma adesso? Sono solo okay. Parole tue. Cosa è cambiato?”

Jean parve gonfiarsi d’irritazione al commento, ma stette in silenzio. Marco reputò strana la sua mancanza di risposta, o almeno così fu finché non vide Jean alzarsi e raccogliere le sue cose. “Troppe cose,” lo udì mormorare a denti stretti. “Sono cambiate troppe cose.”

Marco non riuscì a impedire che il suo stomaco si stringesse in una morsa.

“Dove stai andando?” gli gridò dietro Eren. Jean, fermo sulla soglia della porta con il giubbotto indosso, non si voltò neppure a guardarlo. “A fumare una sigaretta. Ne ho abbastanza di questa storia,” gli rispose prima di uscire.

 
***

“Non sapevo avessi cominciato a fumare.”

Jean si voltò, e nonostante la scenata di poco prima le sue labbra erano tirate in un sorriso che Marco ricambiò.

“Non fumo, infatti, ma dovevo uscire da quella stanza prima di iniziare ad urlare,” disse. Marco rise, avvicinandosi a lui ed esponendosi così al freddo di dicembre che mandò un brivido lungo la sua schiena.

Aveva seguito Jean fuori dalla sala, giustificandosi con l’intento di voler controllare che stesse bene. Il che, tra l’altro, era la verità. Si trovavano su quella che era stata ribattezzata l’Area Fumatori dell’edificio, un piccolo balcone collegato alle scale d’emergenza che affacciava su di un vicolo deserto. Marco aveva perso il conto di tutte le volte in cui si era ritrovato lì insieme a Jean, per prendersi una piccola pausa dalla vita frenetica degli uffici della casa discografica.

“Era un bel testo, comunque,” azzardò Marco dopo qualche istante di silenzio. Jean lo guardò di sottecchi prima di cominciare a ridere – una risata vera, stavolta. Portò le mani al viso, strofinandosi gli occhi.

“Era tremendo, Erwin aveva ragione. Ma non mi andava di farglielo sapere.”

Marco sorrise appena. Nella foga di rincorrere Jean non aveva pensato a portar con sé la propria giacca, e la felpa che indossava per quanto calda non offriva un gran riparo dalle folate di vento. Incrociò le braccia al petto, infilando le mani sotto le ascelle. Jean se ne accorse, e dopo un istante di esitazione allungò di poco una mano verso di lui, con il palmo verso l’alto, senza guardarlo. Marco sciolse l’intreccio delle proprie braccia: infilò una mano nella tasca davanti della felpa, mentre con l’altra andò a stringere quella di Jean. 

“Da come hai detto che sono cambiate troppe cose,” disse con una risata nervosa. “Mi hai fatto spaventare.”

Jean si voltò verso di lui. “Non credevo avessi sentito. Scusami.”

Marco diede una stretta alla sua mano in risposta.

Erano passate solamente alcune settimane, forse poco meno di due mesi, da quando lui e Jean avevano cominciato a frequentarsi in maniera esclusiva, dopo che una sera durante un afterparty di qualche premiazione si erano ubriacati entrambi abbastanza da scambiarsi un bacio una volta rientrati in albergo. Marco, nonostante il cuore a mille, aveva pensato semplicemente che Jean fosse il tipo di persona che da ubriaca raggiunge livelli di affettuosità estremi. Poi però al primo bacio ne era seguito un secondo, e poi un terzo, e poi un quarto e così via, fino a che entrambi senza fiato non si erano ritirati in camera di Marco, la più vicina, per il resto della notte. Il fatto che né Eren né Armin li avessero scoperti era stato un miracolo insperato.

Non era la prima volta che Marco baciava un ragazzo. Il fatto di essere attratto dal suo stesso sesso gli era stato chiaro sin dalla prima adolescenza, e sebbene si considerasse in parte ancora abitante di quel famigerato armadio contenente buona parte della popolazione queer dell’intero globo – aveva parlato apertamente solo con i suoi genitori della questione – si considerava a proprio agio con la sua sessualità.

Jean, al contrario, il mattino dopo e per i tre giorni seguenti aveva ignorato del tutto l’esistenza di Marco, salvo poi presentarsi alla porta del suo appartamento in una zona periferica della città e biascicare qualche vago pretesto per invitarlo a trascorrere la serata con lui. Quella volta in particolare, i due avevano giocato con la PlayStation fino a che Jean non si era arreso di fronte alla capacità di Marco di stracciarlo. Si era lamentato, Marco aveva provato l’irresistibile voglia di baciare la smorfia sulle sue labbra e si era accorto di averlo fatto per davvero solo quando le mani di Jean erano salite con fare incerto a insinuarsi tra i suoi capelli mentre ricambiava il bacio.  

A quella prima sera ne seguirono tante altre. E mentre Jean si presentava a casa sua, mentre imparava a scoprire questa nuova forma di relazione tra di loro, mentre le sue mani si facevano più temerarie e i suoi baci affamati, Marco l’osservava. E un pomeriggio, mentre Jean provava giri di accordi alla chitarra mormorando a mezza voce parole di una nuova canzone, Marco realizzò che si stava innamorando di lui.

“Cosa intendevi allora?” domandò, stringendosi appena un po’ di più al corpo caldo dell’altro.

Jean corrugò appena le sopracciglia. “Non è poi così importante.”

“Jean –”

“Marco,” mormorò Jean. Si guardò intorno come se stesse cercando qualcosa e poi si voltò verso Marco, poggiando le labbra contro le sue in un bacio veloce ma intenso. “Non è poi così importante,” ripeté poi in un sussurro.

 
***

“Sei riuscito a parlare con Jean, ieri?” domandò Armin.

Marco si passò una mano sul collo, facendo poi risalire le dita attraverso i capelli corti sulla nuca. “Più o meno,” disse, spostando lo sguardo dai fogli sparsi davanti a sé al viso dell’amico. Armin aveva cercato di fermare i capelli biondi con un elastico, ma le ciocche troppo corte gli ricadevano comunque davanti agli occhi chiari, rendendolo nervoso. Solitamente Armin non s’infastidiva per così poco, ma le due ore appena trascorse con Marco a tentare di scrivere un qualche testo decente iniziavano a pesare sul suo stato d’animo.

Avevano deciso d’incontrarsi da soli a casa di Armin, dal momento che Eren aveva un impegno e Jean a detta di Armin risultava irrintracciabile, per creare un ambiente rilassato in cui riuscire, eventualmente, a mettere insieme qualcosa che soddisfasse le richieste di Levi. E a giudicare dalla quantità di carta straccia che li circondava sul pavimento del salone, avevano fallito miseramente.  

Armin, seduto a gambe incrociate sul pavimento, aveva aperto il proprio laptop e stava scorrendo con aria disinteressata la home di un qualche sito di news. “Guarda qua”, disse d’un tratto, girando il computer in modo tale che Marco potesse osservarne lo schermo. “C’è un articolo sul gruppo.”

Marco distolse la propria attenzione dal foglio tra le sue mani per dedicarsi all’articolo. Il sito web che lo aveva pubblicato era rinomato per essere una fonte poco affidabile e concentrata più sul gossip che sulle notizie effettive, e l’articolo non faceva altro che rimarcare l’assenza dei Wings of Freedom dalle classifiche del mese, a favore invece dei Titans. Prima che Marco finisse di leggere, però, Armin emise un lamento strozzato e fece per riprendere pieno possesso del pc.

“Non ho finito!” si lamentò Marco, più veloce di Armin nello scostarsi per portare il computer fuori dal raggio d’azione dell’amico. Scorse velocemente il resto dell’articolo, e quando giunse alla fine con un moto d’ilarità comprese la reazione di Armin.

“Hai davvero una relazione con Annie?”, gli domandò, e Armin gli rispose arrossendo ed entrando in panico.

“Ma no! Assolutamente no! Solo perché abbiamo parlato qualche settimana fa al party della casa discografica non significa nulla!”

Marco scoppiò a ridere di gusto alla reazione dell’amico, iniziando a leggere i commenti all’articolo. “A quanto pare i fan sembrano concordare. Parecchi dichiarano che il loro cuore si spezzerebbe se tu iniziassi una storia con Annie. Altri sottolineano che – mio Dio, sottolineano che il tuo cuore appartiene solo a Eren,” lesse Marco, con un pugno premuto contro le labbra per soffocare uno scroscio di risa. Armin si prese il viso tra le mani, scuotendo il capo con aria afflitta.

Marco fece per chiudere la pagina, per poi cercare di convincere Armin a non prendersela troppo, quando la sua attenzione fu catturata da una delle risposte ai commenti. Un utente non registrato aveva lasciato come commento: “OMG Eren e Armin sono troppo carini, ma i miei preferiti restano i #jeanmarco!!!”

Dovette concentrare tutte le sue forze sul non arrossire.

“Cosa?” domandò Armin una volta colta l’espressione dell’amico. “Che altro hai letto? Perché sto valutando se valga la pena chiedere a Erwin di contattare chiunque abbia scritto quell’articolo per fare quattro chiacchiere faccia a faccia e chiedergli di eliminarlo dal sito.”

“Nulla,” rispose Marco, ma tirò comunque fuori il suo cellulare per scattare una foto allo schermo del computer, accertandosi che il commento incriminato fosse ben leggibile. Si giustificò con Armin dicendo, con un’alzata di spalle: “Voglio poter ricordare questi commenti nei momenti più tristi. Ripenserò al tuo imbarazzo e riderò.”

Armin gli tirò contro un foglio di carta appallottolato. “Grazie, davvero uno splendido amico.”

Marco rise ed evitò il colpo. Le sue dita viaggiarono velocemente sulla tastiera del touchscreen per inviare in un messaggio a Jean la foto appena scattata.

 
M: [immagine]                                
M: siamo i preferiti di qualcuno!!                                

Armin insistette per continuare a lavorare alle canzoni, incoraggiando Marco sostenendo che avevano comunque messo insieme delle buone basi che andavano solamente rifinite. Marco si abbandonò al suo consueto ottimismo, nonostante una parte di lui sapesse che non avevano scritto nulla di eccezionale fino a quel momento. Nella mezz’ora seguente rilesse le parole messe insieme in precedenza, cerchiando e sottolineando i versi e i passaggi che gli sembravano spiccare tra gli altri.

Quando durante una pausa gettò un’occhiata allo schermo del suo telefono vide che Jean non aveva ancora risposto. Inviò comunque un nuovo messaggio.

 
M: cena stasera?             

La risposta di Jean arrivò solamente qualche ora tardi, mentre Marco stava camminando tra le strade del suo quartiere stringendosi nella sua giacca, con una sciarpa a coprirgli il viso fino al naso.

J: sono stanco morto, scusami
J: domani?

Lo stomaco di Marco si strinse in una morsa di delusione e il freddo sembrò riuscire a penetrare attraverso la spessa stoffa dei vestiti che indossava.

 
M: domani è okay             

Digitò velocemente sul telefono, e non riuscì al fermarsi dall’aggiungere poco dopo:
 
M: che hai? Due messaggi senza imprecare non sono da te             

J: brutta giornata
J: e mi manchi
J: cazzo se mi manchi

Marco sorrise con le labbra contro la lana della sua sciarpa.

 
M: ecco il mio ragazzo!!                
M: allora domani sera                

J: da me o da te?
 
M: veramente stavo pensando di mangiare fuori…                

Marco riuscì perfettamente a immaginare la smorfia che le labbra di Jean avrebbero assunto leggendo quel messaggio, e si sbrigò ad aggiungere:
 
M: fidati di me, ho un piano perfetto                 
M: fidati di me                
M: fallo per me                 

Trascorsero alcuni minuti senza che Jean inviasse una risposta. Marco raggiunse il suo appartamento e combatté con le chiavi di casa che le sue dita gelate non riuscivano a maneggiare – avrebbe seriamente dovuto investire in un paio di guanti adatti al touchscreen se davvero non riusciva a fare a meno di inviare messaggi mentre era per strada al freddo.

Marco sapeva benissimo che a Jean non piaceva farsi vedere in pubblico con lui, principalmente perché di fronte ad altre persone doveva fingere di essere “il migliore amico di Marco” e non “il ragazzo di Marco”.

Jean voleva che la loro relazione restasse privata, e lui rispettava la sua decisione. Certo, non gli sarebbe dispiaciuto poter stringere la mano di Jean mentre camminavano per strada, o poterlo baciare anche di fronte ad altra gente. Non gli sarebbe dispiaciuto fare coming out se questo avesse significato stare al fianco di Jean senza preoccupazioni.

Ma questo non era ciò che Jean voleva. E Marco rispettava la sua decisione.

Il vibrare del telefono nella tasca dei jeans distrasse Marco dai suoi pensieri.

J: non vale. Sai che farei di tutto per te

 
M: sfigato          

J: nerd

M: fatti trovare pronto per le sette         

Marco si sedette al tavolo della cucina, con un sorriso che gli attraversava il volto da parte a parte. Quello del giorno seguente sarebbe stato il primo, vero appuntamento con il suo ragazzo da due mesi.
 
***

“Questo era il tuo piano perfetto? Entrare dal retro di un ristorante?”

Marco chiuse la portiera dell’auto, raggiungendo Jean dal lato del passeggero. Nonostante si sentisse estremamente sdolcinato nel fare ciò, non riuscì a impedirsi di fissare il proprio sguardo su di lui, lasciando che una calda sensazione gli si diffondesse all’altezza del petto.

Quel pomeriggio Jean gli aveva scritto chiedendogli dove sarebbero andati, ma Marco gli aveva detto che sarebbe stata una sorpresa. Jean si era lamentato dicendo che sarebbe stato meglio saperlo, almeno per vestirsi in maniera adeguata. Di nuovo, Marco non si era lasciato sfuggire nulla. Così adesso ammirava Jean, vestito con jeans scuri e stretti, t-shirt della sua band indie rock preferita e una giacca scura per rendere il look più sofisticato. I ciuffi più chiari dei suoi capelli erano stati lavorati con del gel per alzarli. Quando Jean era entrato in macchina Marco aveva tentato di arruffarglieli e Jean era sgusciato via emettendo un suono impanicato, esclamando: “Non osare! Ci ho messo un’ora a sistemarli!”

C’era qualcosa di tremendamente tenero nel sapere che Jean si era impegnato tanto per apparire al meglio all’appuntamento. Per Marco era stato semplice decidere cosa indossare: aveva optato per pantaloni scuri e un maglione verde, di una tonalità che faceva risaltare la tonalità della sua carnagione e le lentiggini che gli costellavano il viso.

“Che stai guardando?” domandò Jean nell’uscire dalla macchina.

Marco sorrise. “Te.”

Jean voltò il capo per nascondere il rossore diffusosi sulla sua faccia, ma dopo essersi guardato intorno con fare circospetto si allungò verso Marco, prendendogli il viso tra le mani per poi baciarlo sulle labbra. Marco sospirò, e le sue braccia andarono a circondare il corpo di Jean. Poggiò la fronte contro la sua, chiudendo gli occhi per qualche istante prima di posare nuovamente le labbra sulle sue in un bacio più lento e intenso.

Si stavano permettendo di farlo solo perché si trovavano nel vicolo buio sul retro del ristorante, dove l’unica illuminazione era fornita da un lampione e lo spazio della strada era occupato quasi del tutto dall’auto di marco e da qualche cassonetto dell’immondizia. Si stavano permettendo di stringersi l’uno all’altro solo perché da soli, nell’ombra. Marco strinse Jean appena un po’ più forte prima di lasciarlo andare.

“Aspetta,” gli sussurrò prima di allontanarsi e digitare un numero sul proprio telefono. Lascio squillare per qualche secondo prima di riattaccare, con Jean che lo guardava con aria incuriosita.

“Il mio complice,” si giustificò Marco con un sorriso sghembo. Rimasero in silenzio per circa un minuto prima che la piccola porta del retro del ristorante si aprisse. Marco e Jean si ritrovarono a osservare una ragazza dai capelli scuri legati in una coda di cavallo, con quella che sembrava una bandana bianca sulla testa. “Marco!” esclamò la ragazza, facendosi da parte per lasciarli entrare in un piccolo ingresso da cui provenivano i rumori confusionari di una cucina. La ragazza accolse Marco con un abbraccio. Profumava di buon cibo.

“Sasha,” la salutò Marco. “Grazie per esserti resa disponibile. Lui è Jean,” aggiunse poi, voltandosi verso Jean. “Jean, lei è Sasha. Eravamo compagni di scuola alle superiori.”

Jean, con le mani nelle tasche dei jeans e l’aria di qualcuno che si trova a disagio, salutò Sasha con un cenno del capo. “Qualcuno mi spiega che sta succedendo?” brontolò poi. Marco rise e aprì la bocca per chiarire ogni dubbio, ma Sasha lo precedette.

“Voi, miei cari, state per assaggiare un vero e proprio pezzo di paradiso,” disse, portandosi poi le dita di una mano alle labbra e baciandole con uno schiocco, in un gesto a dir poco comico.

“Ho prenotato un tavolo qui al ristorante. Sasha ha spiegato al proprietario che necessitiamo della massima privacy,” disse molto più eloquentemente Marco.

Sasha aggiunse, con un sorriso enorme: “Il vostro tavolo è in una delle sale private del ristorante e io sarò il vostro cameriere personale, quanto è forte questa cosa? Forza, seguitemi,” disse, prendendo a camminare. L’ingresso si affacciava su di un corridoio decorato con carta da parati rossa e oro, ma per il resto del tutto autonomo. Marco si stava avviando verso Sasha quando si sentì tirare per il polsino del maglione.

“Quanto ti è costato tutto questo?” disse Jean, incredulo.

Fu il turno di Marco di arrossire, e scosse il capo come a minimizzare. “Non importa. Ne vale la pena, una volta tanto.”

 
***

La sala in cui era stato preparato il loro tavolo era piccola ma accogliente. La carta da parati manteneva gli stessi toni caldi di quella nel corridoio, ma veniva smorzata da decorazioni semplici e neutre. Una lunga tovaglia color crema ricopriva la tavola, al centro della quale troneggiava un candelabro con tre candele spente.

Marco deglutì a fatica. L’ambiente era davvero gradevole e intimo. Forse troppo intimo. Romantico sarebbe stato il termine giusto, pensò con una punta di panico. Di certo anche lui era rimasto sorpreso dell’organizzazione del ristorante.

“Be’,” disse a Jean quando si furono seduti al tavolo. “Io, umh… spero che tutto questo non sia troppo.”

Jean, che era caduto in un silenzio interrotto soltanto dalle ordinazioni che Sasha aveva preso, alzò lo sguardo su di lui. Sulle sue labbra si formò un sorriso e Marco sentì una piccola parte della tensione che aveva accumulato in petto sciogliersi.

“Tu, Marco Bodt, sei il miglior ragazzo che chiunque possa mai desiderare.”

Marco arrossì con così tanta violenza che si sbrigò a riempire d’acqua il proprio bicchiere per poi svuotarlo con grandi sorsi, nascondendo così il proprio viso.

Jean continuò a sorridere per tutto il resto della serata. Sorrise quando Sasha tornò con le prime portate, diffondendo nell’aria un aroma delizioso, sorrise quando rubò a Marco un boccone dal suo piatto, sorrise nell’assaggiare il vino in tavola e nel fare conversazione.

Nella vita di ogni giorno, Jean era diverso. I suoi atteggiamenti, la sua maniera di porsi nei confronti degli altri, persino il suo apparire, tutto era studiato per calarsi nella parte del ribelle, del chitarrista oscuro e misterioso per cui centinaia di fan perdevano la testa. Era un’immagine che attirava e vendeva. Poteva anche essere stata genuina, in principio, ma di sicuro negli ultimi tempi era stata esasperata. Marco se ne rendeva conto dal fatto che Jean aveva cominciato a sorridere sempre di meno quando si trovavano insieme al resto della band. Le sue risposte alle interviste erano diventate sempre più secche. La sua disponibilità verso i paparazzi era scesa sotto lo zero.

Il Jean di quei momenti era un’altra persona rispetto al ragazzo seduto adesso al tavolo insieme a Marco.

“…e ti giuro, avresti dovuto vedere la faccia del tassista quando mi ha riconosciuto: è stato epico, mi ha chiesto un autografo da portare alle sue figlie e – Marco? Mi stai ascoltando?”

“Uh?” sobbalzò Marco. Jean corrugò le sopracciglia, assumendo la consueta espressione offesa di quando Marco non ascoltava ciò che lui aveva da raccontargli.

“A cosa stai pensando?” disse poi, allungando una mano a sfiorare quella di Marco, abbandonata mollemente sul tavolo. “Sei distratto,” lo accusò Jean, e Marco sorrise, bloccando le dita di Jean tra le sue e godendosi il vago rossore imbarazzato che si diffuse a macchia d’olio sul suo viso altrimenti pallido. Era assurdo come Jean potesse comportarsi come la persona più arrogante e spocchiosa del mondo, per poi arrossire come una ragazzina quando si trattava di Marco – che, segretamente, era orgoglioso di questo suo potere.

“Stavo pensando,” disse con voce bassa, guardando Jean attraverso le folte ciglia scure. “Che come primo appuntamento non sta andando affatto male.”

Jean rimase in silenzio. Ciò che fece fu spostare di poco la mano, per poter accarezzare ripetutamente con il pollice le nocche di Marco. Mormorò poi qualcosa, e Marco non se ne sarebbe neanche accorto se non avesse visto le sue labbra sottili muoversi. Si avvicinò a lui sporgendosi sul tavolo e gli chiese di ripetere.

“Ho detto,” disse allora Jean a un tono di voce accettabile. “Che mi dispiace aver dovuto aspettare interi mesi per questo momento.”

La tristezza che trapelava dalle sue parole si mescolava alla rabbia. Marco lasciò che le proprie labbra si schiudessero per formare una piccola “o” muta, mentre si malediceva per aver lasciato che la conversazione finisse su questi tasti dolenti. Doveva rimediare. Non voleva veder traccia del broncio di Jean per quella sera: meritavano, almeno per una volta, di trascorrere una serata come una normale coppia senza pensieri.

Per cui Marco fece la prima cosa che gli saltò in mente: afferrò un pezzo di pane all’aglio, unico superstite della loro cena, e dopo averne staccato una mollica la tirò sul naso di Jean.

“Ma che cazzo–” esclamò Jean. Sbatté le palpebre più volte con la bocca aperta in un’espressione sconcertata, e Marco non poté fare a meno di scoppiare a ridere. “Oh, no, Bodt. Non mi hai appena sfidato in una battaglia di cibo.”

Marco non ebbe tempo di giustificarsi. Riuscì a malapena a ripararsi il viso con le mani prima che qualcosa di viscido e freddo lo colpisse sul polso. Quando abbassò lo sguardo, Marco si rese conto che era un boccone di carne avanzato dall’ordinazione di Jean.

“Jean Kirschstein,” disse allora, osservando il ragazzo davanti a lui con aria vendicativa. “Non si gioca,” sussurrò mentre staccava un altro pezzo di pane, “con il cibo!”

Il pane lanciato da Marco volò in un perfetto arco prima di scomparire tra i capelli di Jean, che emise un verso strozzato per poi scagliarsi addosso a Marco nel tentativo di strappargli di mano ciò che restava del pane all’aglio. “Dammi quella roba!” esclamò, ma Marco tese il braccio allontanando il suo bottino. Con l’altra mano cercò di allontanare Jean, che gli si stava letteralmente arrampicando addosso, fino a che Marco non pose fine a quel teatrino portando velocemente il pane alla bocca e facendolo sparire tra le labbra. Jean lo trafisse con lo sguardo e lui quasi si strozzò per via della risata che ne scaturì.

“Complimenti per aver rovinato l’atmosfera,” fece Jean. Chinò appena il capo quando Marco allungò una mano verso il suo viso, rimuovendo la mollica di pane rimasta intrappolata tra i suoi capelli. Marco lo guardò poi con le sopracciglia inarcate.

“Da quando in qua t’importa dell’atmosfera?” domandò. Gli ci volle qualche istante, unito al “Non è fottutamente possibile” mormorato da un avvilito Jean, perché la situazione gli apparisse chiara. In primo luogo: Jean era letteralmente seduto sulle sue gambe. Seconda cosa: le sue mani erano risalite lungo le cosce di Marco, fino a posarsi pericolosamente vicine al cavallo dei pantaloni. Marco deglutì. Jean sogghignò.

“Potremmo pagare e andarcene,” mormorò, sporgendo il proprio viso verso quello di Marco. “Casa tua non è molto lontana.”

“O-Oh,” fu tutto ciò che Marco riuscì a dire. Non riusciva a staccare lo sguardo dalle labbra di Jean. Le sue mani si posarono sui suoi fianchi e Marco si sporse per baciarlo, ma fu proprio in quel momento che Sasha fece irruzione nella sala.

Marco! Mi dispiace, non so come sia potuto succedere, ma io – ah! Ho… ho interrotto qualcosa?”

Marco sapeva che la scena davanti agli occhi di Sasha lasciava ben poco spazio a varie interpretazioni. Lo stesso doveva pensarlo Jean, che quasi cadde a terra nel tentativo di divincolarsi dalla stretta delicata di Marco. Il suo viso aveva assunto tinte di un rosso tanto vivo quanto quello che decorava la carta da parati e la sua espressione era un misto tra la furia e la vergogna. Marco avrebbe voluto rassicurarlo. Avrebbe voluto dirgli che non doveva preoccuparsi, perché conosceva Sasha da anni ed era certo che con lei il loro segreto si trovava al sicuro, ma non ebbe modo di farlo. Sasha, con la sua voce colma di panico, reclamò per sé ogni attenzione.

“Non so come sia successo, davvero, a sapere di questa sera eravamo solo io e il capo, proprio perché hai detto che c’era bisogno di privacy, e ti giuro che non ho aperto bocca, Marco, te lo giuro, e –”

“Sasha,” la interruppe. “Respira. Che succede?”

“Paparazzi. Qualcuno deve averli avvertiti. Mi dispiace davvero tanto.”

Qualunque calore avesse invaso il corpo di Marco fino a qualche istante prima parve svanire di colpo, sostituito da un brivido che gli corse affilato lungo la schiena. Jean, al suo fianco, aprì la bocca come a dire qualcosa, ma nessun suono uscì dalle sue labbra. Marco lo guardò con le sopracciglia corrugate: era rimasto come pietrificato dalla notizia.

“Ehi,” mormorò, allungando una mano verso di lui, ma Jean si scostò. Fu dura per Marco far finta che il suo cuore non fosse sprofondato di fronte a quel gesto, ma questo non era il momento adatto per avvilirsi.

“Possiamo ancora uscire dal retro?” domandò a Sasha, che anticipò la sua risposta stringendosi nelle spalle.

“Penso abbiano assediato più l’uscita del retro che quella principale.”

“Allora forse dovremmo uscire da lì. Dalla principale, intendo.”

“Che cosa?” esclamò Jean, guardando Marco con aria incredula.

“Non abbiamo nulla da nascondere,” ribatté Marco. “Siamo due compagni di band che hanno approfittato di una serata libera per andare a cena fuori, prendendo le dovute precauzioni per non doversi preoccupare di paparazzi indiscreti. Giusto?” aggiunse, facendo saltare lo sguardo da Jean a Sasha, che annuì. “Non c’è nessuno scoop grandioso. Sono solo foto.”

Jean alzò una mano e prese a sfregarsi violentemente la fronte. “Come puoi prenderla così alla leggera?”

Marco distolse lo sguardo.

Sasha fu un angelo quella sera. Continuò a scusarsi mentre i ragazzi recuperavano le loro giacche e mentre Marco pagava il conto per la cena – il proprietario del ristorante, un uomo calvo la cui caratteristica di spicco era un folto paio di baffi ingrigiti, offrì le proprie scuse per l’inconveniente dei paparazzi con un generoso sconto.

“Se scopro chi è stato,” stava dicendo Sasha nell’accompagnare Marco e Jean all’uscita principale del ristorante, “gli farò saltare così tanti denti che dovrà mangiare a vita attraverso una cannuccia.”

Nonostante la situazione, Marco rise. “Non farti arrestare a causa nostra, Sash,” le disse davanti alle porte d’ingresso prima di abbracciarla. Indugiò qualche istante nella stretta della ragazza, affondando il naso tra i suoi capelli castani per un istante prima di allontanarsi. Jean era rimasto in disparte, con lo sguardo basso, voltato quasi del tutto di spalle. Marco gli batté una mano sulla spalla in un gesto non fraintendibile prima di uscire dal ristorante.

Il rumore delle macchine fotografiche arrivò ancor prima dei flash, che lasciarono Marco scombussolato. I paparazzi non erano in tanti, solo tre. Marco cercò di darsi forza e rivolse loro un sorriso incoraggiante.

“Ehilà, ragazzi! Siete restati fuori con questo freddo?” domandò, facendosi strada tra di loro con Jean alle calcagna. Sperava che il suo approccio riuscisse ad oscurare lo sguardo assassino che era certo Jean stesse lanciando in quel preciso istante.

I paparazzi, in fin dei conti, furono gentili. Una volta ottenute le loro foto si fecero in disparte per lasciar passare i ragazzi, che proseguirono in silenzio lungo il marciapiede per raggiungere l’uscita secondaria nel vicolo dove avevano lasciato la macchina. Lì la situazione si fece più pesante.

“Eccoli!” gridò uno degli altri fotografi che li stavano aspettando lì nel vicolo. Marco ne contò almeno altri cinque prima i flash lo abbagliassero nuovamente. Ancora una volta tese le labbra in un sorriso e alzò una mano per salutare i paparazzi.

“Buonasera,” cercò di salutare, ricordando a sé stesso che avere un approccio affabile poteva servire a rendere la situazione più sopportabile per tutti. Jean, però, non parve della stessa opinione.

“Non abbiamo tempo per i convenevoli, Marco,” mormorò in un ringhio, e si avviò a grandi passi verso la macchina. Ignorò del tutto i fotografi, tenendo le mani nelle tasche dei jeans e la testa incassata tra le spalle. Probabilmente si farebbe fatto strada a forza di spintoni se non l’avessero lasciato passare. Marco sospirò e lo seguì in fretta.

Sarebbero entrati in macchina nel giro di pochi secondi se uno dei paparazzi non avesse improvvisamente gridato: “Seratina romantica per due?” accompagnando le parole con una risata. Marco stava cercando qualche frase mordace per spiegare che si trattava di una cena tra amici, ma Jean fu più veloce di lui.

“Chiudi quella fogna che hai per bocca, coglione!”

“Jean!”

Marco lo afferrò istintivamente per un braccio, allontanandolo dall’uomo verso cui sembrava avere tutta l’intenzione di scagliarsi. “Non dare spettacolo,” mormorò fra i denti. Jean, una spanna più basso di lui, alzò lo sguardo per fissarlo negli occhi per un istante, dopodiché a denti stretti fece il giro dell’automobile. Marco sbloccò le portiere ed entrambi salirono in macchina, ignorando i flash che avevano ripreso a illuminare il vicolo altrimenti buio.

 
***

Marco spense il motore della macchina, ma né lui né Jean accennarono ad abitare l’abitacolo. Tutt’altro: Marco avrebbe voluto poter rimanere per sempre all’interno della vettura. Jean non aveva spiccicato parola da quando avevano lasciato il ristorante, e Marco non aveva cercato di iniziare una conversazione. Erano rimasti in silenzio fino a che non erano giunti davanti casa di Jean. Marco aveva guidato con nelle orecchie solo il rombo del motore, a disagio nell’atmosfera surreale scesa durante il viaggio.

“Jean,” azzardò tutto d’un tratto, con le mani ancora strette sul volante nonostante la macchina fosse ferma. Si voltò, e i suoi occhi incontrarono il profilo elegante e affilato del viso di Jean illuminato dalle luci dei lampioni e dei fari delle poche macchine in strada a quell’ora. “Mi dispiace.”

Jean portò i pugni al viso, premendo le nocche contro le palpebre con forza mentre sospirava con forza. “Non è colpa tua, Marco. Non devi scusarti.”

“Ma è stata mia l’idea di andare a cena fuori. Non… non avrei dovuto insistere.”

“Già,” sussurrò Jean. Marco aggrottò le sopracciglia e strinse la presa sul volante, guardando davanti a sé con lo stomaco che gli si contorceva. Con la coda dell’occhio vide Jean voltarsi verso di lui e guardarlo mentre diceva: “Ma io non avrei dovuto dartela vinta così in fretta.”

Jean stava sorridendo, o per meglio dire sogghignando. Era una miserevole copia di un normale sogghigno alla Jean, ma bastò a rassicurare Marco. Jean non era arrabbiato con lui. La consapevolezza di ciò lo spinse a lasciar andare il respiro che non si era accorto di aver trattenuto.

Calò nuovamente il silenzio, e fu ancora una volta Marco a parlare per primo.

“Posso chiederti una cosa?” domandò.

“Mh.”

“Ti da davvero tanto fastidio che si sappia che frequenti un altro ragazzo?”

Aveva posto quella domanda consapevole delle diverse reazioni che avrebbe potuto ottenere in risposta. E davvero, Marco si era ripromesso che avrebbe lasciato a Jean i suoi tempi e che non avrebbe preteso nulla da lui. Ancora adesso voleva mantener fede alla promessa fatta a sé stesso, ma non poteva far finta che reazioni come quella che Jean aveva avuto al ristorante non istigassero in lui un profondo senso di malessere.

Corrugò le sopracciglia, fissando con ostinazione le proprie gambe mentre aspettava che Jean gli rispondesse con fare arrabbiato. Ciò che Marco non si aspettava era però che la risposta di Jean arrivasse a lui con voce amara, più che irritata.

“Far sapere che sono gay è solo la più piccola parte del problema.”

Marco alzò ancora una volta lo sguardo su di lui. Jean, una mano fra i capelli e il capo leggermente inclinato all’indietro, l’altra mano stretta a pugno e posata contro la propria coscia. Le luci della strada che l’illuminavano mentre si mordeva il labbro inferiore, lo sguardo corrucciato, come se nella sua mente si stessero rincorrendo miriadi di pensieri e lui faticasse a star dietro a tutti loro. Marco aveva voglia di baciarlo, lì, in quell’istante, di stringerlo a sé e di perdersi nel suo corpo fino a dimenticare qualunque interferenza del mondo esterno. Ma si trattenne. Con fatica, si trattenne. 

“Sto pensando di lasciare la band,” disse infine Jean. Marco sobbalzò letteralmente alle sue parole, come se lo avessero colpito in maniera fisica.

“Che cosa? Perché?” domandò, stupito e preoccupato. “E’ per la storia delle classifiche? Vedrai che è solo un momento negativo, ci risolleveremo presto!”

Jean quasi grugnì, alzando poi gli occhi al cielo. “Marco, l’unico motivo per cui siamo ancora in piedi come band è perché la nipote di Ackerman ha un’ossessione per Eren.”

“Il fatto che Eren e Mikasa siano amici non è importante. Ackerman non è il tipo da lasciar influenzare le sue scelte da cose del genere. Se siamo arrivati fino a questo punto è perché ce lo siamo meritato.”

“Certo,” borbottò Jean in risposta. “Con i miei testi martoriati dalle vostre scelte in fatto di sound.”

“Jean, non fare la vittima,” lo accusò Marco. Jean lo guardò ad occhi sgranati, come se non ritenesse possibile che Marco gli avesse detto una cosa del genere, ma questo non fermò le parole a lui rivolte. “Ti comporti sempre come se ti imponessimo le nostre scelte quando non è così, non è affatto vero. Siamo una squadra, e per quanto Eren possa comportarsi in maniera prepotente quando si tratta di compiere delle scelte tutti noi valutiamo il tuo parere e accogliamo le tue proposte, per cui finiscila con le stronzate e dimmi per quale motivo vuoi lasciare la band.”

“Marco,” mormorò Jean in un sussurro. Pronunciò il suo nome con un’intensità tale che Marco credette fosse la sua risposta alla domanda che gli era stata posta. Jean lo stava fissando con sguardo supplichevole. Alzò una mano come a volerlo toccare, ma Marco vide il braccio ricadere lungo il suo fianco.

Fu allora che intuì le implicazioni di ciò che Jean aveva detto.

“Se lasci la band,” disse con un filo di voce. “Hai intenzione di lasciare anche me?”

Il silenzio che seguì fu per Marco una risposta più che esauriente. Jean portò una mano alla bocca, premendola a pugno contro le labbra. Le parole che poi pronunciò arrivarono alle orecchie di Marco distorte.

“Sai che Bertholdt e Reiner stanno insieme?”

Il primo istinto di Marco fu quello di ridere. Era congelato sul sedile della propria macchina, reso immobile da parole che Jean non aveva neppure pronunciato, e si domandò perché diamine un’informazione del genere dovesse riguardarlo in quel momento.

“L’ho scoperto per caso,” continuò Jean, ignorando forse volontariamente la reazione di Marco. “E’ stato qualche settimana fa, a quello stupido party della casa discografica. Li ho visti insieme. Ho giurato loro che avrei tenuto la bocca chiusa, e da quel momento abbiamo iniziato a tenerci in contatto. Non lo so. Credo che siamo diventati amici,” disse, chiudendo gli occhi mentre poggiava la nuca contro il sedile.

“Credevo che Reiner stesse uscendo con Christa Lenz,” mormorò Marco con un filo di voce. Quella conversazione non aveva senso.

“E’ una montatura. Christa ha già una ragazza, una certa Ymir qualcosa. E’ nel loro contratto, a quanto pare,” disse Jean con un’alzata di spalle, mentre Marco si domandava quale fosse l’effettivo numero di persone non eterosessuali nell’industria musicale e se ci fosse un qualche rito d’iniziazione segreto per entrare a far parte del loro circolo. Non riusciva a credere che Jean fosse a conoscenza di tutto questo. Scosse il capo, tornando a prestare attenzione a Jean. “Il manager dei Titans ha organizzato il tutto. Ha praticamente impedito a Reiner e Bertl di fare coming out fino a quando non scadrà il loro contratto, e si parla di anni.”

Jean fece una pausa, e quando ricominciò a parlare Marco rabbrividì nell’individuare un tono ferito nella sua voce. “Anni, ti rendi conto? Dovranno vivere nascondendosi come se fossero due fottutissimi fuorilegge invece che due persone che vogliono stare insieme.”

“Hai paura che la stessa cosa possa succedere a me e te?” domandò allora Marco.

Jean rimase in silenzio per qualche istante e si mosse chiaramente a disagio sul sedile, prima di mormorare: “Già.”

“Allora battiamo tutti sul tempo! Hai detto che far sapere che sei gay è solo la più piccola parte del problema, no? Allora usciamo allo scoperto. Rendiamo pubblico il fatto che stiamo insieme. A differenza di Bertholdt e Reiner il nostro contratto non ci impedisce di farlo!”

“Dio, Marco!” sbottò Jean, con un tono di voce talmente aspro e impanicato che Marco temette di aver esagerato. “Come puoi essere così ingenuo? Non m’importa che la gente sappia che sono gay, Cristo, persino mia madre oramai lo sospetta! Ma questo non significa che io voglia rendere pubblico tutto questo. Non voglio che la gente parli di me come del chitarrista gay dei Wings of Freedom. Voglio essere famoso per la mia musica, non per qualche articolo scandalistico da quattro soldi!”

Jean aveva preso ad agitarsi. Marco, nonostante fosse rimasto sconcertato dalla sua reazione, tentò di scusarsi e di calmarlo, ma le parole di Jean continuarono a sommergerlo come fossero un torrente in piena.

“Ti rendi conto di quanto internet sia pieno di pagine che parlano di noi due? Dio, tumblr è un covo di esaltati che urlano alla cospirazione ogni volta che durante un’intervista o un’esibizione ci scambiamo uno sguardo, e lo sai anche tu, non negarlo. Sei stato persino tu a mandarmi quel commento l’altro giorno. Non è questo che voglio, Marco, non è questo! Non voglio che la mia vita venga analizzata ogni singolo istante da persone che neanche conosco, non voglio che la mia vita sentimentale o la mia sessualità siano sulla bocca di chiunque, non voglio essere privo di uscire di casa con te per paura di essere assalito dai paparazzi! Non mi sembra di chiedere molto, non ti sembra? Voglio essere famoso per la mia musica e le mie canzoni, non per altro. E’ l’unica cosa che ho sempre voluto, il motivo per cui mi sono gettato a capofitto in quest’avventura. Il primo disco è stato una favola perché nessuno sapeva chi eravamo e potevo essere me stesso e fare ciò che più amo fare senza dovermi sentire come se stessi nascondendo qualcosa, mentre ora invece sta andando tutto a puttane. Non riesco a scrivere, non riesco a creare musica, non riesco a funzionare come artista perché penso costantemente a te e a quanto questa situazione mi stia uccidendo dentro. Se ci fosse un modo per stare con te ed essere al tempo stesso un artista di successo lo farei, Marco, ti giuro che lo farei. Ma non c’è modo di conciliare tutto questo, no?”

Jean fece una pausa. Aveva il respiro pesante, il viso rosso e gli occhi lucidi, e il cuore di Marco si strinse alla vista di tutta la sofferenza che Jean doveva essersi tenuto dentro nel corso dei mesi passati. Allungò una mano, posandogliela sulla spalla, e Jean chiuse per un attimo gli occhi prima di posare la propria mano su quella di Marco.

“Non ho intenzione di fare coming out, ma non riesco ad andare avanti come abbiamo fatto fino ad ora. E’ troppo. Ma piuttosto che vedere la mia carriera scivolare sempre più in basso mentre sto con te preferisco tentare una nuova strada senza la band e rinunciare alla persona che amo,” disse Jean, deglutendo poi con gli occhi sbarrati. Con gesti tremanti portò la mano di Marco alle labbra, baciandone le nocche prima di lasciarla andare.

“Mi dispiace, Marco,” mormorò infine.

Marco rimase in silenzio, sopraffatto dal turbine di emozioni che le parole di Jean aveva fatto nascere in lui. Lentamente ritrasse la propria mano, allontanandola dal corpo di Jean e facendola ricadere inerme nel proprio grembo.

Sentì una risata nascergli nel petto, nonostante il nodo formatosi nella sua gola. Non riusciva a credere che fino a poco più di un’ora prima lui e Jean erano insieme, felici, con magari la prospettiva di trascorrere la notte insieme, mentre adesso…

Adesso Jean lo stava guardando con aria preoccupata. No, non solo preoccupata. C’erano rimpianto, dolore, angoscia e tristezza nel suo sguardo, oltre a una scintilla che Marco non riuscì immediatamente a definire. Somigliava a una supplica. Era come se nel profondo Jean lo stesse scongiurando di far qualcosa, qualunque cosa.

Ma sei tu che te ne stai andando, Jean. Cosa mi resta da fare?

Alla fine, dopo minuti che sembrarono eterni, sotto al peso sempre più schiacciante del silenzio di Marco Jean aprì la portiera della macchina, richiudendola poi alle proprie spalle. Una folata di vento gelido riuscì comunque a infiltrarsi nell’abitacolo dell’automobile. Marco rabbrividì.

Quando rimise in moto la macchina il rombo del motore riuscì per qualche istante a sovrastare il rumore dei suoi pensieri. Marco iniziò a guidare in direzione del suo appartamento nella solitudine della notte, e se ad un tratto alcune lacrime furtive gli scesero sulle guance, nessuno era lì a guardare.









Quindi, umh, se avete letto fin qui non posso che dirvi GRAZIE DI CUORE! La seconda parte arriverà prestissimo, è stata già scritta ma non l'ho inserita perché altrimenti avrei reso la fanfiction davvero troppo, troppo, troppo lunga. 34 pagine di word neppure me le caricava, Efp. 
  
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