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Autore: gretamustdie    30/12/2015    1 recensioni
Frank vuole solo essere un ragazzo normale.
E' stufo di fingere di avere una famiglia perfetta. Stufo di non essere mai preso in considerazione. Stufo di non avere ambizioni. Stufo, semplicemente, di essere sé stesso.
Convive con la sua apatia, non trovando un senso in ogni azione compia, e si tormenta per il suo sentirsi costantemente fuori posto. Diverso.
Ma un giorno arriva una nuova famiglia nel quartiere e mai penserebbe che, da quel momento in poi, la sua breve esistenza verrà interamente stravolta.
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Dal capitolo cinque:
“Ma come fanno le persone normali a convivere con questo altalenare di umori? Come fanno a preferire il bianco o il nero al piatto grigio? L'apatia inizialmente mi spaventava, ma ho capito che non è poi male se paragonata al resto. Certo, quando assistevo alla felicità altrui un po' mi pesava, ma, si sa, è una cosa labile e rara. Quasi come una cometa: si ripresenta in cielo anche dopo secoli e non fai in tempo a godertela che già si è dissolta lasciando una misera scia che svanirà anch'essa, ma più tardi. Giusto per ricordarti quanto fosse stato bello prima del ritorno al buio.”
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[Il rating può subire variazioni.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bob Bryar, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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ANGOLO DELL'AUTRICE

Sicuramente vi starete lamentando del mio ritorno quasi repentino. Eh vabbè, sopportatemi.
Se l'ho postato così presto c'è un motivo, ovviamente. Avevo già in mente di caricare i primi due capitoli a distanza di poco tempo, ma nei prossimi giorni sarò via per Capodanno e successivamente sarò impegnata coi compiti che devo ancora cominciare. Che studentessa modello.
Dopo questo capitolo, cercherò di stare dentro nelle due settimane per quanto concerne l'aggiornamento. Questo non perché non abbia i capitoli, anzi, fino al settimo sono pronti per essere rivisti. Il punto è che dall'ottavo in poi saranno piuttosto densi e mi ci sto veramente mettendo d'impegno per rendere al meglio determinati dialoghi e situazioni, dunque non voglio prendermi eccessivamente indietro con la stesura della fanfiction.
Ad ogni modo, a parte mostravi il mio essere logorroica, ci tenevo a ringraziare chi ha recensito e chi ha messo la storia fra le preferite, le seguite e le ricordate. E anche, perché no, chi si è premurato di complimentarsi contattando il mio profilo twitter. Grazie mille.
Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione, sia che sia un'opinione negativa o positiva. Sono pronta ad accettare tutto.

Greta

 

CHAPTER TWO

Un ragazzo normale

 

 

Le mie dita pizzicano le corde in ferro della mia chitarra acustica, tengo le palpebre serrate mentre lascio che sia la musica a dettare ogni mio singolo movimento. Lentamente inizio a far ondeggiare il capo armoniosamente a ritmo di una melodia lineare, ma dalle sfumature cupe e tristi. Apro gli occhi e, aldilà della finestra che ho dinnanzi a me, riesco ad intravedere la casa bianca degli Way. Poso delicatamente una mano sopra le corde per fermare le loro vibrazioni e fissare l’abitazione dall’altro lato della strada. Quella famiglia è molto strana: la madre sembra una venticinquenne nel corpo di una cinquantenne, Michael, o Mikey, è taciturno e poi c’è quel Gerard. Di lui non penso nulla, probabilmente perché se mi soffermassi a pensare la mia mente diventerebbe un luogo affollato e confusionario. So solo che mi mette a disagio, ha vent’anni ed è irrimediabilmente stronzo. Ammetto di non essere il massimo della simpatia, ma almeno mi sforzo a sembrare un minimo gentile. A lui non sembra importare. C’è un aspetto, però, che anche a distanza di ore mi turba: perché non riuscivo a rispondergli a modo? Do rispostacce a destra e a manca, spesso senza volerlo. Perché a lui no? Dovevo fare il simpatico, in fondo è quello che promesso a mia madre. Cosa dico? Non l’ho fatto per nessuno, non ero proprio in grado. Qualcuno bussa alla porta interrompendo le mie riflessioni, ho già detto che in questa casa non esiste il concetto di ‘privacy’? “Chi sei?”, chiedo svogliatamente. “Babbo Natale, chi vuoi che sia?”. Come sempre è mia sorella a sfracellare i cosiddetti. Non ha delle amiche quella ragazzina? Una vita? Un hobby? “Babbo Natale? Mi spiace, ma nego l’accesso a chi non esiste”. Un altro battito. “Alza il culo da quel letto e scendi che è pronta la cena”, sbotta. Roteo gli occhi, faccio scivolare la chitarra sotto il letto ed esco dalla camera. La trovo a braccia conserte intenta ad aspettarmi e le punto il dito contro. “Tu devi portarmi rispetto, ragazzina. ‘Alzi il culo’ lo dici a qualcun altro, non a me. Intesi?”. Ironico come per me Alex sia l’equivalente di una ragazzina ed io sia lo stesso per Gerard. Perché mi torna ancora in mente quello lì? Scaccio subito il pensiero, infastidito solamente per averlo concepito. “Mi sento giustificata dal momento che, dicendo che Babbo Natale non esiste, mi hai ricordato qualcuno che me l’ha rivelato in maniera decisamente insensibile”. Sbuffo. “Avevo solo nove anni”. “Ed io ne avevo quattro!”, ribatte. “Sai quant’è stata dura per me superarlo? Mi hai rovinato la magia del Natale praticamente da sempre”. Faccio le spallucce, come se me ne importasse qualcosa della magia del Natale. “Tanto il Natale fa schifo, non ti perdi granché. Solo regali più belli perché c’è dietro il mito di Babbo Natale, da quando sai che non esiste ti donano la bellezza di pantofole e portachiavi. Oh, ma aspetta: io non sono il cocco di casa, non hanno continuato a farmi doni strafighi nonostante tutto”. Le lancio un’occhiataccia mentre percorriamo il corridoio per scendere al piano di sotto. “Cosa ci posso fare? Mica li decido io i regali”. Imbocchiamo le scale e dico: “Però le richieste le fai, le fai eccome. Ricorderò sempre quando, due anni fa, a Paula è arrivato un cellulare, a te un walkman come volevi ed io, che come un cretino avevo chiesto una chitarra elettrica, ho trovato un paio di ciabatte sotto l’albero. ‘Ma sono pure antiscivolo, pensa alla comodità'. Me ne frego della comodità se tutti hanno avuto regali tecnologici ed io no”. “Come sei lamentoso”. “Vorrei averti vista al posto mio”. Arrivati in salotto, lo attraversiamo e varchiamo l’arcata che collega alla cucina. Il tavolo al centro di essa è apparecchiato e vi sono già i nostri genitori seduti in attesa del nostro arrivo. Il cibo è servito nei piatti, manchiamo solo noi. Silenziosamente li raggiungiamo e ci accomodiamo sui nostri rispettivi posti: io accanto a mamma e Alex di fronte a noi vicino a papà. E’ dalla separazione dei miei che si respira un’aria malsana quando ci troviamo tutti nella stessa stanza, se non fosse per i pasti nostro padre, ad esempio, sarebbe sempre barricato nel suo studio personale. Si capisce che qualcosa è rotto e non funziona, ma si sono accaniti a portare avanti questa sceneggiata e chissà quando porranno fine ad essa. “Com’è andata a scuola?”. Ed ecco la solita domanda che viene puntualmente fatta ad ogni cena, in fondo quali altri argomenti potremmo affrontare? In questa famiglia il dialogo fra i vari membri è pari a zero. “Bene, papà”. Un rumore di posate mi fa rinsavire. Mi rendo conto di essere ancora immobile a fissare la zuppa di verdure di fronte a me, quindi mi decido ad afferrare il cucchiaio e mangiare. “E te, Junior?”. Ne porto un po’ alla bocca e deglutisco, per poi rispondere: “Il solito”. Giocherello col liquido raccogliendolo e poi facendolo gocciolare all’interno del piatto ripetutamente, è evidente che non abbia fame stasera. Strano, di solito l’appetito non mi manca. “Sai, Junior, stavo pensando al fatto che tu non ci abbia mai presentato una ragazza”. Involontariamente lascio cadere il cucchiaio, il quale finisce rovinosamente all’interno della minestra sguazzandomi. “Cazzo, la felpa con le ossa”, impreco fra me prendendo un tovagliolo e tamponando dove vi sono delle macchie. “Domanda scomoda?”, insiste. Alzo lo sguardo e lo incenerisco, poi poso il rettangolo di carta a lato del piatto. “No, perché?”. Allunga la mano al centro del tavolo per prendersi un po’ di pane. “Era solo per chiedere. Insomma, hai sedici anni ormai ed almeno un’amichetta l’avrai avuta”. Amichetta. Cristo, quanto odio la terminologia degli adulti. “Beh, non è detto. E poi è ancora giovane per pensare a queste cose”, s’inserisce mia madre nel discorso. In un certo senso sono felice che abbia difeso la mia posizione, in un altro no perché sono sicuro che ciò che sta dicendo mio padre abbia un fondo di verità: dovrei aver avuto almeno una storia, magari di quelle senza impegno, ma non l’ho mai avuta. “Ancora giovane? A sedici anni hai gli ormoni a mille, è naturale pensare a certe cose”. Arrossisco e chino il capo verso la zuppa, la posata non è ancora stata rimossa. “Non credi che, magari, Junior sia diverso e stia aspettando il momento giusto?”. Diverso. No, non lo sono. O, meglio, lo sono, ma non voglio esserlo. Torno a guardare mio padre timidamente. “In verità ci sarebbe una ragazza…”, mento con la voce tremolante. “Oh, mi fa piacere. Stavo iniziando a preoccuparmi”, dà un piccolo colpetto di tosse. “Frank”, lo ammonisce mamma. “Che c’è? Sai come la penso”. I miei occhi guizzano da una parte all’altra della tavola sospettosi, mi stanno sicuramente nascondendo qualcosa. “Anche tu sai come la penso”. La tensione fra i miei genitori è palpabile, si stanno lanciando occhiate di fuoco e decido di rivolgere a mia sorella un’espressione che esprima il disagio nell'assistere a questa situazione scomoda. Per tutta risposta deglutisce e si mette a giocherellare col bordo del tovagliolo, è tipico di questa famiglia far finta di niente. Il non voler accettare la realtà e recitare in modo del tutto improvvisato dei ruoli che non ci appartengono, ma che ci ostiniamo a mostrare per una questione di facciata. Io sono la pecora nera, quello che, nonostante si adegui ai dettami impartiti fin da quand’era in fasce, non riesce a nascondere la parte più viscerale di sé, la più intransigente. No, non sono decisamente il figlio modello che vorrebbero. Sono sfrontato, cocciuto, non ho peli sulla lingua e piuttosto di mentire spudoratamente, preferisco stare zitto e far trasparire comunque la mia opinione. Questi aspetti del mio carattere, dunque, sono ardui da soffocare e fatico a non farli emergere. Soprattutto da quando è cominciato quel magico periodo della vita che gli adulti tanto rimpiangono, ma che realmente è a dir poco raccapricciante, più comunemente chiamato ‘adolescenza’. Do un colpo all’indietro con la schiena in modo da scostare la sedia dal tavolo e potermi alzare. Non sarebbe la prima volta che lascio un pasto a metà e, a dire il vero, questo non l’ho neppure toccato. “Dove pensi di andare?”, chiede papà con tono severo. “Non ho fame”. Cerco di dileguarmi, ma ci si mette pure mamma: “Almeno aspetta che tutti abbiano fini…”. Non fa in tempo a terminare la frase che mi sono già precipitato in salotto, diretto alla rampa di scale. Arrivo spesso al punto in cui l’unica cosa che riesco a fare quando li vedo è detestarli, detestarli con tutto me stesso. Loro non capiscono, nemmeno ci provano. Quand’è stata l’ultima volta che ho parlato da solo con mio padre? Forse tre o quattro anni fa. E con mia madre? Sì, abbiamo minimo uno o due dialoghi al giorno, ma nulla d’importante come sempre. I soliti stupidi e banali argomenti, tipo la scuola. Arrivato al piano di sopra mi fiondo a falcate verso la mia stanza, vi entro e mi ci chiudo dentro a chiave. Non so di preciso perché lo faccia, l’unica che potrebbe disturbarmi è Alex e per me è già tanto. I miei genitori non si prenderebbero mai l’incommensurabile briga di alzare il culo, venire fin qui e chiedermi cosa ci sia che non va. No, troppo faticoso. Meglio fingere di essere la famiglia unita ed indistruttibile che tutti sognano, quando invece se osservati con la lente d’ingrandimento paiamo quattro sconosciuti messi a vivere sotto lo stesso tetto forzatamente. Siamo già distrutti da un bel pezzo. In questo momento invidio Paula più che mai, lei sì che ha fatto la scelta migliore: ha avuto il fegato di abbandonare Belleville per frequentare l'Università dei suoi sogni, sebbene si trovi in un altro Stato. E' scappata da questa cittadina fin troppo stretta per una ragazza di larghe vedute come lei. Se n’è andata e mi ha lasciato qui, passandomi il peso di figlio maggiore sulle spalle. Mi ha abbandonato in questo posto odioso a gestire una situazione familiare che mi fa venire il voltastomaco. Forse è per questo che la nomino poco e non le telefono mai, non capisco perché mi senta così tradito da lei. Avevamo un bellissimo rapporto, era una delle poche persone in cui riponevo la mia totale fiducia e mi aveva promesso che avrebbe frequentato un college poco distante per mantenere i contatti. Bugiarda. Sono quasi sicuro che Chicago non sia in New Jersey. In un certo senso sono contento che abbia deciso di pilotare la sua vita come meglio crede, ma al contempo non riesco a non provare una sorta di rancore. E sì, anche se tendo a sviare il discorso o a sminuirlo, mi manca un sacco. In fondo, è pur sempre mia sorella e ci sono cresciuto assieme. Certo, non avevamo il dialogo libero e senza censure che si può avere con un amico, ma era senz’altro meglio di niente. Quando ne avevo bisogno c’era, anche quando, spaventato a morte dai mostri, facevo capolino nella sua camera a chiederle se potevo trattenermi a dormire con lei per una notte. Poi, con l’avvento dell’adolescenza, ci siamo allontanati sempre più e penso sia normale, ma da bimbi eravamo inseparabili. Ammetto che a volte capitavano delle serate in cui ci aprivamo sugli argomenti che ci toccavano maggiormente, in particolare sui nostri genitori. L’ultima è stata due anni fa. Da quando ho scoperto che se ne sarebbe dovuta andare lontano da qui non sono più riuscito a trattarla nello stesso modo. Ogni tanto rimpiango di aver passato quasi un anno ad ignorarla per poi salutarla il giorno della sua partenza in maniera fredda e distaccata. Poi torno in me, ricordandomi come monito personale che sono Frank Iero e non me ne frega niente di nessuno. Nemmeno di mia sorella. Sento dei rumori provenire dal corridoio, istintivamente mi tolgo le scarpe e mi nascondo sotto le coperte. Faccio scivolare un braccio da sotto il piumone e spengo la luce, almeno così crederanno che sono davvero andato a dormire. Ogni piccola cosa è finzione in questa casa. Sobbalzo quando avverto il brusco tentativo di aprire la porta abbassando la maniglia, ma senza produrre alcun risultato. Ho fatto bene a chiudermi dentro a chiave. Dall’altra parte nessun segno di vita così come, volutamente, dalla mia. Dopo alcuni secondi di stallo, la persona in questione se ne va. Mi rannicchio su me stesso promettendomi di alzarmi e mettermi in pigiama di lì a poco, ma il sonno mi coglie impreparato facendomi annegare in esso.

 

Sono fermo sul marciapiede adiacente al giardino di casa mia, mi volto all’indietro e constato che mamma è ancora sull’uscio ad osservarmi. Sbuffo e torno a guardare l’abitazione degli Way dall’altro lato della strada, spazientito. Voglio solo che quell’altro si sbrighi e venga posta fine a questo teatrino per niente simpatico. Finalmente la porta d’ingresso si apre e sbuca Mikey con un cappello di stoffa in testa, un giubbotto decisamente fuori misura vista la sua esile corporatura e guanti mezze dita. Un look perfetto per andare a spacciare nei luoghi più malfamati della città. Attraversa il giardino e, andando oltre con lo sguardo, noto che pure Donna è intenta a studiare le mosse del figlio. L’ho già detto che non sopporto quando i genitori vogliono farti stringere amicizia con qualcuno per forza? Il ragazzo dà un’occhiata a destra e a sinistra per assicurarsi che non stiano per passare automobili. Belleville. Sette e un quarto del mattino. Quartiere meno trafficato delle praterie irlandesi. Chi vuoi che passi? Probabilmente è un’azione dettata dall’abitudine. Per un secondo mi balena la curiosità di sapere dove la sua famiglia abitasse precedentemente e come mai avessero deciso di trasferirsi in questo posto dimenticato da Dio, ma prontamente la scaccio. “Ciao”. Scuoto il capo e constato che a parlarmi è stato proprio lui, mi ero incantato a fissare la strada immerso nei miei ragionamenti. “Uhm… ciao”. Istintivamente lancio un'occhiata alle mie spalle e mia madre ci saluta con la mano. Non posso fare a meno di guardare Mikey che, imbarazzato forse più di me, solleva il palmo a mezz’aria senza un minimo di trasporto. “Andiamo?”, propongo. Non aspetto altro da cinque minuti, i quali si sono dilatati parendomi ore, giorni, anni. Annuisce sommessamente e c’incamminiamo lungo il marciapiede, m’infilo le mani in tasca e catalizzo l'attenzione sulle mie Converse sgualcite. Teoricamente dovrebbero essere nere, in pratica sono di un marrone indistinto. Non mi sono mai preso la briga di lavarle e credo che mai lo farò, non avrebbero senso pulite. Le scarpe pulite sono brutte perché non hanno una storia, osservandole non viene suggerito nulla riguardo chi le indossa e che luoghi frequenta. Sembra stupido, ma le scarpe possono dire molte cose di una persona. “Agitato?”, chiedo. Mi sono appena ricordato disgraziatamente della promessa fatta a mamma, ossia di essere simpatico con questo sconosciuto o, almeno, tentare di esserlo. Fa le spallucce e continua a fissare dritto di fronte a sé. Come faccio ad intavolare un discorso se non gliene frega niente? Non poteva capitarmi qualcuno un po’ più loquace? Gerard sotto questo punto di vista è nettamente migliore. In maniera stronza, ma migliore. Perché la mia mente intricata mi ha portato ancora a quello lì? Basta, Frank. Basta. “Oggi ti siederai accanto a me in autobus. Di solito occupo due posti da solo, ma farò l’enorme sacrificio di non stravaccarmi per una volta”. Si sistema il cappello e, dopo alcuni secondi, risponde: “Okay”. Che nessuno venga a dirmi che non ci abbia provato a rendermi simpatico, non mi sembrava tanto male come battuta. Forse non capisce il sarcasmo oppure gli sto sulle palle. O forse sono io il coglione che sta andando troppo a fondo, dal momento che sono le sette e venti del mattino e molto probabilmente ha solo sonno. “A che ora è la ricreazione?”. Cristo, grazie. Finalmente mi rivolge la parola in modo degno. “Dopo la terza ora, perché?”. “Niente”. Mmh, non era proprio il genere di responso che mi sarei aspettato, ma può considerarsi un inizio. “Fra poco conoscerai i miei migliori amici: Bob e Ray. Ho accennato loro di te ieri sera, per cui avrai ben tre guide in questi primi giorni”. Solleva leggermente un angolo della bocca, un’apparizione quasi miracolosa. “Grazie, non serviva tanto disturbo”. “Figurati”. La fermata è poco distante da noi, in neanche un minuto saremo lì ed il bus arriverà a momenti. “Ho sentito che hai incontrato mio fratello”. Arresto improvvisamente la camminata e ruoto la testa di scatto per vederlo in volto. “Chi te l’ha detto?”, sbotto. “E’ stato lui a parlarmene”. Sollevo entrambe le sopracciglia sorpreso, dunque lui ha parlato di me. Uno stupido senso d’importanza m’investe e non ne comprendo appieno il motivo, chissà cosa gli avrà raccontato. “Ti ha parlato di me?”. Punto l’indice contro me stesso. “Sì”. “E cos’ha detto?”, domando di getto. “Che non gli sembri un tipo molto sveglio”. Rimango pietrificato. Che dovevo aspettarmi? In fondo gli sono andato addosso nel corridoio di casa sua e farneticavo neanche fossi afflitto dalla diarrea verbale. Non abbiamo condotto chissà quale conversazione e di certo era da escludere che gli avessi fatto una buona impressione. “Ah”. Attraverso gli occhiali spessi ed il cappello che gli arriva a circa metà fronte riesco ad intravedere un’espressione lievemente corrucciata. “T’interessa?”. Simultaneamente mi metto scuotere il capo, poi riprendo a camminare per sembrare più disinvolto. “No, era solo per curiosità. Chi se ne frega, insomma”. Un pochino m’importa, in verità. Temo di aver fatto la stessa figura con Mikey, a questo punto. Fingere di essere simpatici e gentili porta solo a risultare dei rimbambiti, lo sapevo. Arrivati in fermata, ci posizioniamo accanto all’apposito cartello e mi poggio con la spalla sul palo. “Non dargli troppo peso”. “Perché?”. Sospira. “Gerard non è proprio il massimo della simpatia, diciamo”. Uh, questo l’ho notato, ma non è che io sia da meno. “Poi col tempo magari cambia, dipende da come lo prendi e da come lui prende te”. Beh, è normale. Anch’io con Bob e Ray non mi comporto da stronzo o, meglio, mi comporto meno da stronzo. “Più da come lui prende te, comunque”. Solamente ora mi rendo conto che mi sta parlando senza che gli strappi le parole di bocca a forza, ma sono talmente concentrato sul contenuto del discorso che quest’aspetto passa in secondo piano. “E’ molto selettivo nei rapporti umani ed in un certo senso non lo biasimo, però adesso basta parlare di mio fratello che già lo vedo tutti i giorni”. Mi sfugge mezzo sorriso e, un po’ a malincuore da parte mia, abbandoniamo l’argomento Gerard. Un rumore di vecchia ferraglia ci fa sussultare: il catorcio è arrivato a prelevarci per portarci in quella gattabuia più comunemente chiamata scuola. L’autista frena ed apre le porte per permetterci di entrarvi, salgo per primo e mi ritrovo nel bel mezzo del corridoio fra i sedili. Fra la moltitudine di teste spicca quella estremamente riccioluta di Ray che alza il braccio in segno di saluto, dal mio canto mi limito a rispondere con un cenno rapido del capo. Lo raggiungo e premurosamente rimuove lo zaino dal mio posto davanti al suo e quello di Bob, lo mette lì ogni mattina per assicurarsi che nessuno vi si sieda all’infuori di me. Mi accomodo ponendo la cartella ai miei piedi e, poco dopo, Mikey fa lo stesso accanto a me. Mi volto all’indietro aggrappandomi con le mani allo schienale per poter vedere i miei amici. Di solito non devo condividere i miei spazi con nessuno, dunque mi è più facile parlare con loro quando ho la schiena poggiata contro il finestrino e le gambe stese lungo i sedili. “Buongiorno idioti”. “Buongiorno anche a te, Frank”, ridacchia Bob. “Come avrete potuto ben constatare, stamattina c’è qualcosa di diverso”, esordisco. “Ti sei tagliato i capelli?”, ribatte ironicamente l’afro. “No, mi sono cresciute le orecchie”. “La battuta più trita e ritrita che abbia mai sentito. Frank, mi deludi. Da te non mi sarei mai aspettato un repertorio così antiquato”. “Non sai che quello che era in voga in passato, può tornare ad esserlo nel presente? Pensavo lo sapessi, Ray. Insomma, giri con quei capelli che nessuno porta dagli anni Ottanta. Credevo li tenessi nella speranza che un giorno tornassero di moda”. Bob si dà una pacca sulla gamba e scoppia a ridere sguaiatamente, mentre l’altro riduce gli occhi a due fessure. “Okay, lo ammetto: sei il migliore in quanto a battute”. “La tua perspicacia mi commuove”. Per un secondo mi sono scordato completamente della presenza di Michael, chissà quanto si sentirà a disagio quel poveretto. “Tornando alle cose serie…”, richiamo l’attenzione del ragazzo al mio fianco pungolandolo al bracco per poi continuare: “…Mikey, questi sono Bob e Ray, Bob e Ray questo è Mikey”. Si volge anche lui all’indietro e sorride flebilmente. La seconda volta in una mattinata, wow. “Ah, sei il ragazzo di cui Frank mi ha parlato al telefono! Abiti di fronte a lui, giusto? Nella famiglia stra…”. Do un rumoroso colpo di tosse volontario per non farlo andare oltre, poi gli lancio sottecchi un’occhiataccia. Non credo il caso di riportare tutte le mie impressioni su di lui e la sua famiglia, sennò probabilmente non mi parlerebbe più. “…nuova, intendevo dire nuova nel quartiere”. Annuisco per fargli capire che ha appena salvato il salvabile. “Sì, siamo arrivati da alcuni giorni”. “Cosa te ne pare di Belleville?”, si intromette Bob. Ci pensa un po’, poi dice: “Non ho ancora un’impressione definita nella mia testa e non me la sento ancora di fare paragoni con Summit…”. Dunque gli Way sono da Summit. “…certo è che un trasloco non è mai facile da digerire, soprattutto se per sedici anni hai vissuto nello stesso posto, ma non è dipeso da me”. Aggrotto la fronte e lo fisso incuriosito. Ironico come abbia dovuto attraversare un travaglio prima di farlo interagire ed i miei amici ci abbiano messo alcuni secondi, allora mi pare ancora più chiaro che ci sia qualcosa di sbagliato in me. “Genitori?”, chiede prontamente il biondo. “Non propriamente, diciamo di sì... per la maggior parte”. “Domandone di vitale importanza: ti piacciono i videogames?”. “Ray!”, esclamo come per ammonirlo. “Che c’è? Era solo per sapere e poi non stavo parlando con te, sapientone”. Mi rivolge una linguaccia che contraccambio, poi torna a posare l’attenzione su Mikey. “Sì, parecchio direi!”. Spalanca la bocca e batte il cinque col compagno accanto a lui, mi poso una mano sulla fronte sospirando. Sono dei bambini cresciuti in altezza ed anche esageratamente sotto il mio punto di vista. “Fantastico! Che videogiochi hai?”. “Troppi per elencarli tutti”. “Il tuo preferito?”, insiste l’afro. “Ce ne sono tanti che mi piacciono parecchio, ma credo che Call of Duty sia quello che preferisco di più”. Sul viso dell’altro si estende un enorme sorriso. “Ma sai che è pure il mio preferito? Sei forte, Mikey!”. Michael è alquanto imbarazzato dal complimento anche se cerca di nasconderlo, non deve averne ricevuti molti in tutta la sua vita vista la reazione. “Oh, grazie. Anche tu mi sembri simpatico”. “Non come questa checchetta a cui non piace praticamente nulla”, punta l’indice verso di me. Mi sento ferito nel profondo. Checchetta. Non lo accetto, no. Tutto, ma non quello. Mi ricorda brutti momenti che preferirei scordare completamente. Femminuccia. Rabbrividisco solo al pensare a quel soprannome. “Vedi di moderare i termini, stronzo!”. Il mio migliore amico rimane sconvolto dalle mie maniere brusche, così come Bob ed anche un po’ Mikey che sembra piuttosto confuso. “Frank, sto scherzando”, mi palesa. Abbasso la testa a disagio, dentro di me si fa strada la consapevolezza di aver esagerato per una battuta innocente. Lui non lo farebbe mai per farmi star male, è ovvio che l’abbia detto scherzosamente. Stupido, stupido, stupido. Perché sono costantemente sulla difensiva? Perché ho sempre paura che qualcuno voglia farmi soffrire? “Lo so, scusami”. Improvvisamente mi arriva una gomitata dal biondo che mi fa l’occhiolino, inarco un sopracciglio stranito. “Che c’è?”. “Indovina chi è appena salita alla fermata?”, domanda retoricamente gongolando. Mi volto verso il corridoio e la vedo avanzare verso di noi, si passa una mano nei capelli corti finché non incrocia il mio sguardo. “Ciao Frank”, mi saluta. “Ciao Jamia”. Avanza oltre i nostri posti per accomodarsi nel suo solito sedile accanto ad Hannah. “Perché non vai da lei e le parli?”, chiede Ray. “Perché mai dovrei?”, ribatto acidamente. Odio quando s’improvvisano un’agenzia matrimoniale. “Frank, Frank, Frank, ma proprio tutto ti devo spiegare?”. Lo liquido con un gesto della mano e mi siedo compostamente dandogli le spalle, detesto quando incappiamo in questo argomento. “Ti pare un atteggiamento corretto, signorino? Non ho finito di parlarti!”. Sposto lo sguardo al finestrino, ignorandolo volutamente. Sbuffo rumorosamente quando sento il suo dito picchiettare insistentemente sulla mia spalla. Emetto un suono simile ad un ringhio sperando che lo fermi, ma continua. “Smettila”. “No”. “Smettila”. “No”. “Smettila”. “Indovina? No”. Mi giro di scatto con gli occhi sgranati. “La smettete di rompere i coglioni, tutti quanti?”. Calco involontariamente le ultime due parole, ma effettivamente c’è un fondo di verità: ne ho le palle piene di tutti indistintamente. “Oh, finalmente ti sei girato!”, esclama suscitando una risatina di Bob e mezzo sorriso di Mikey. Questa me la segno, nuovo arrivato. Ti prendi gioco di me, eh? Qualcosa mi dice che si unirà a quegli altri due idioti nell’esclusivo gruppo ‘Sfottitori di Frank’. “Stavo dicendo: ma proprio tutto ti devo spiegare?”. “Tu non hai proprio niente da insegnarmi”, ridacchio. Dalla sua espressione trapela scetticismo. “Mmh, ne sei proprio sicuro? In che fase sei, Frank?”. Lo fisso confuso. “Fase?”. Scuote il capo, deluso. Gesù, adesso che ho fatto? “Non dirmi che non ricordi la teoria delle fasi”. “Uhm, dovrei?”. Lui e Bob si scambiano un’occhiata delusa mentre Michael ascolta il tutto interessato. “Te ne ho parlato diverse volte quindi sì, dovresti. Non mi ascolti quando parlo?”. Tasto dolente. In verità seguo i discorsi di Ray, ma quando atterriamo puntualmente nel pianeta Christa sconnetto automaticamente il cervello dalla realtà circostante per crogiolarmi nei miei strani ragionamenti. Una volta sono rimasto un bel po’ di minuti con un sorrisetto da ebete ed ho dovuto mentirgli dicendo che stavo pensando a Jamia, in realtà nella mia mente dominava il pensiero che sarebbe stato forte andare in un ristorante il giorno di San Valentino per fare una sceneggiata di gelosia in un tavolo con una qualsiasi coppietta fingendo di essere l’amante e dopo andarsene. “Certo che ti ascolto”. “Non credo, sai?”, ribatte prontamente. “Sennò non ti dimenticheresti la teoria delle fasi. La teoria delle fasi è fondamentale”. Inarco un sopracciglio, scocciato da questo comportamento. Adoro il mio migliore amico, ma riesce a non farsi sopportare molto facilmente. E’ la testa di cazzo più adorabile che conosca. “Oggi sono particolarmente buono, quindi te la spiegherò sommariamente. Solo perché c’è Mikey, sia chiaro. Divulgare il verbo è sempre cosa buona e giusta”. Alzo un angolo della bocca. Ha una teoria per ogni cosa e le prende davvero seriamente, trascinando anche il biondo al suo fianco. Sono davvero io l’unico normale? Oppure sono loro quelli normali ed io quello diverso? “Vedi, Frank, ci sono diversi fasi in amore ed ognuno, quando ha una relazione, rientra in una di queste. Ad esempio io e Christa siamo nella fase intermedia in quanto stiamo insieme, ma abbiamo approfondito il nostro rapporto fino ad un certo limite. Poi c’è Bob che è in quella dilettantistica…”. “Hey!”, piagnucola quest’ultimo. “Tranquillo, tu e Johanne vi state spianando la strada per raggiungere quella inferiore”. L’afro sposta la sua attenzione dal biondo a me. “E poi ci sei tu che sei in una categoria a parte”. “Che?”, esclamo stupito. Non dovrei dar peso a queste stronzate da sedicenni che di amore ne sanno tanto quanto giocatori della squadra di football di grammatica, ma mi lascia di stucco il fatto che sia diverso anche in questo. “Non hai ancora intrapreso una relazione, come dire, fisica. Dunque sei rilegato in una specie di bolla di sapone in cui vengono raggruppati gli appartenenti alla fase platonica”. “Platonica”, ripeto con un pizzico di cinismo. “Sì, platonica. Vi guardate da distante, vi piacete, vi parlate poco e molto formalmente e nessuno dei due si decide a fare un passo verso l’altro. Un amore platonico in vera e propria regola”. Riesco a leggere soddisfazione per aver esplicato esaustivamente la propria opinione a riguardo ed aver abbozzato la teoria delle fasi in modo comprensibile. “Ha ragione Ray, è dal primo anno di liceo che andate avanti con questo scambio di sguardi estenuante e nulla di concreto. Cosa ti blocca, amico?”. Mi mordicchio il labbro inferiore in imbarazzo. Non tanto per la tematica, più per la risposta che non c’è. Sì, non c’è. Non so cosa mi blocchi, cosa mi abbia trattenuto dal provarci con lei in due anni. Anzi, forse lo so: Jamia, semplicemente, non mi piace veramente. Ovviamente la trovo carina, simpatica e sempre gentile nei miei confronti, ma non riesco a pensare a lei a come ad una possibile fidanzata. Dovrei baciarla, aspettarla davanti casa, portarla fuori a cena, conoscere i suoi, andare oltre il bacio, svegliarmi accanto a lei, farle un regalo il giorno della festa degli innamorati. Attività di coppia che sento di non voler condividere con nessuno finora. “Non lo so”, mormoro. Non so se mi abbiano sentito, ma poco m’importa. Torno nella posizione originale, per poi mettermi a guardare al di fuori della lastra di vetro che mi divide dal paesaggio grigio e cupo che scorre rapidamente. Vorrei solo andare a dormire e svegliarmi nel corpo di un ragazzo normale.

 

 

Immergo una mano in una ciotola colma di pop corn ed osservo il televisore mentre sono appollaiato sul bracciolo del divano occupato interamente da Ray, Bob e Mikey. Quest’ultimo durante la ricreazione ci ha invitati a passare il pomeriggio a casa sua e sono certo che ci sia di nuovo lo zampino di sua madre. Sospiro tra me, mi sto quasi annoiando di più che durante le ore di trigonometria. “Spara alla vecchietta, spara alla vecchietta!”, grida eccitato l’afro. Li guardo per alcuni istanti accigliato. Come possono trovare divertente un gioco in cui bisogna andare in giro per una città ad uccidere persone e creare disastri? O, meglio, come si può impiegare il proprio tempo davanti ad una scatola con in mano degli aggeggi dalla dubbia forma? Non capirò mai cos’abbiano di speciale queste console per videogiochi. “Ray, sbrigati a morire che così dopo viene il mio turno”, dice Bob. “Ti piacerebbe, eh?”. Raschio il fondo del contenitore colorato con la testa quasi infilata dentro esso, ormai sono rimasti solamente dei chicchi di mais bruciacchiati che adoro rompere coi denti. Ho trovato finalmente un'attività più interessante che seguire i miei amici giocare con la Play Station. “Oh, Mikey! Avvicinati a me che voglio pomiciare!”. Alzo la testa di scatto, piuttosto turbato, ma mi rendo conto che si riferisce ai due personaggi che stanno manovrando in quanto Mikey, il giocatore uno, gestisce un uomo e Ray una donna. “Potresti andare a puttane visto che si può”, propone il biondo. “Ma io sono già impegnato con Raymonda!”. La battuta di Michael suscita una risata sguaiata dei miei due compagni. Nessuno avrebbe mai detto che sotto quella scorza di timido ci fosse una persona così ironica. Inoltre oggi a scuola non è stato molto taciturno, è incredibilmente socievole per l’introversione che dimostra. “Devo pisciare”, annuncio posando la ciotola sopra il tavolino dinnanzi a me. “Finalmente ti sei risvegliato, Frank”. Mi metto in piedi senza nemmeno rispondere a Bob, purtroppo non ho potuto ignorare le loro stronzate neanche per sbaglio. Detesto quando si dilettano in attività che mi fanno altamente cagare, penso sia naturale isolarsi. “Terra chiama Frank Iero, Terra chiama Frank Iero”. Faccio ancora volutamente l’indifferente per rivolgermi al padrone di casa: “Posso andare al bagno?”. Annuisce. “Ci sei già andato ieri, no? Sai dov’è”. “Certo, mi ricordo”. “Vai a segarti pensando a Jamia, eh? Bravo”. Le mie gote si tingono simultaneamente di rosso, sento il viso avvampare. “Fanculo, Ray. Devo pisciare veramente”, sibilo. Mi allontano per dirigermi verso le scale, avverto la sua risposta distante: “Ma dai, potevi stare al gioco! Non ti si può mai dir niente, Mister Permalosità”. Non avrebbe senso replicare, per cui procedo e raggiungo il piano superiore. Mi blocco improvvisamente all’inizio del corridoio, quasi spaventato, poi aggrotto la fronte. Una figura completamente vestita di nero è posizionata di spalle intenta a guardare fuori dalla finestra. Una figura che, purtroppo, riconosco facilmente. La porta del bagno è collocata proprio alla sua destra, quindi devo passare di lì per forza. Avanzo lentamente senza far rumore, non ho idea del perché stia tenendo un atteggiamento da ladro quando invece devo fare una cosa innocente come andare al cesso. Quando sono ad un metro da lui mi fermo e poso lo sguardo aldilà della sua figura. L’unica cosa che si vede da questo punto è la mia casa, non la trovo molto interessante. “Ciao”, esordisco titubante. Gerard si volta di scatto all’indietro cacciando un urlo e terrorizzando pure me, perciò involontariamente mi unisco a lui gridando. Si porta una mano al petto e si poggia con l’altra al muro per non cadere sul pavimento. “Ma sei cretino?”, strilla con voce strozzata. “Ti ho solo salutato”, cerco di giustificarmi. “Piombandomi dietro come un serial killer!”. Effettivamente non è stato il migliore dei modi per salutarlo, ma come potevo farlo d’altronde? “Prima mi precipiti addosso mentre sto uscendo dalla mia stanza, poi appari dal nulla alle mie spalle. Cosa vuoi dalla mia vita?”, sputa acido. Inarco un sopracciglio perplesso. Va bene essere sulla difensiva, ma così mi pare eccessivo. “Ah, adesso alzi pure il sopracciglio con fare di superiorità, ragazzino?”. Rimango imbambolato senza proferir parola, praticamente mi sta attaccando verbalmente su tutti i fronti ed io non trovo la forza di rispondere. Fantastico. “Ci risiamo”, bisbiglia a denti stretti. “Non mi sento superiore né a te, né a nessun’altro. Come potrebbe una nullità come me essere superiore a qualcuno?”. La rabbia svanisce dal suo volto per lasciar spazio ad un’espressione sorpresa, come se non si aspettasse un responso del genere. “Come avevi detto che ti chiamavi?”, domanda alzando leggermente il mento e scrutandomi in maniera indagante. “Frank”. “Giusto, Frank”, ripete fra sé per poi inclinare la testa di lato. “E compirai sedici anni fra poco più di una settimana”, aggiunge. “Tu ti chiami Gerard, hai vent’anni e sei un pessimo attore”. Mi sfugge un timido sorrisetto che, incredibilmente, ricambia. “Che ci fai qui?”. Scrollo le spalle. “Mikey ha invitato me e i miei due migliori amici a passare il pomeriggio a casa sua”. Annuisce ed incrocia le braccia all’altezza del petto. “Uhm, e cosa ti ha portato a recarti al piano di sopra?”. Mi stupisco di me stesso quando realizzo di starci davvero riflettendo su, è evidente il motivo che mi abbia portato qui. “Devo pisciare”. “Oh, allora mi sa che debba togliermi dal passaggio”, dice per poi ridacchiare. Alzo leggermente un angolo della bocca ed attorciglio le dita attorno alla maniglia. Detesto fare sorrisi sbilenchi, ma quando sono a disagio è il meglio che mi riesce. E Gerard Way mi mette terribilmente a disagio. “Grazie”, quasi sussurro. Mi chiudo la porta alle spalle e butto fuori un bel po’ di aria trattenuta nei polmoni, mi avvicino al water e faccio quello per cui sono venuto. Dopo aver tirato lo sciacquone, mi lavo le mani ed il mio sguardo cade disgraziatamente sullo specchio. Ho gli occhi troppo grandi, il viso troppo appuntito, i capelli troppo banali. Non mi sorprende che non abbia mai avuto una ragazza, sono troppo io. Ed io non piaccio alle persone. Scuoto la testa come per svuotarla fisicamente dalle mie riflessioni e decido di uscire. Appena torno a metter piede in corridoio Gerard mi chiama. Incespicando raggiungo la soglia di quella che suppongo essere la sua stanza e faccio gravare tutto il mio peso su uno stipite. “Sì?”, chiedo flebilmente. “Cosa stanno facendo di sotto?”. Sta rovistando dentro ad un cassetto in cerca di qualcosa a me sconosciuto e, senza volerlo, ci esce all’unisono: “Videogiochi”. Ci lanciamo un’occhiata stranita e ridiamo, forse non è così stronzo come immaginavo. “E ti stavi divertendo?”. Faccio le spallucce. “Sì, dai”. Mi punta il dito contro. “Tu menti”. Nego col capo. “Cosa? Io? No!”. Mi sono sempre reputato un ottimo bugiardo, è impossibile che abbia capito. Non è che sa leggermi il pensiero? Magari attraverso quegli occhi così verdi ed intensi. Effettivamente il suo corpo dalla carnagione cangiante pare emanare un’aura sovrannaturale. Si siede svogliatamente sul letto ed innalza entrambe le sopracciglia armandosi di un’espressione che sembra comunicare: ‘E tu la vorresti dare a bere a me?’. “Okay, lo ammetto: detesto giocare ai videogiochi”. “Lo sapevo”, gongola trionfante, per poi aggiungere: “Pensi di startene lì in eterno o di entrare? Non ho mai ucciso nessuno, almeno finora”. Faccio il mio ingresso a passi incerti, poi mi fermo al centro della camera. E’ stranamente ordinaria per un tipo all’apparenza eccentrico come lui: vi è una scrivania con dei fogli sparpagliati disordinatamente e delle matite colorate, un armadio in betulla, una sedia in cui vi sono poggiati dei panni sporchi ed una libreria straripante. Improvvisamente il mio occhio cade sulle carte che ho analizzato sommariamente in precedenza: sono disegni. Una moltitudine di bozzetti, definitivi e scorgo pure delle frasi scritte a mano. Non faccio in tempo a concentrarmi su uno di essi che il diretto interessato si frappone fra me e la scrivania impedendomi di vedere, dopodiché posa la schiena su di essa ponendosi frontalmente rispetto a me. “Non mi piace che la gente veda cosa creo”, farfuglia. “Perché?”, domando incuriosito. “Non saprei, ho un rapporto molto intimo coi miei disegni e con ciò che scrivo. Sono come pezzi di me sedimentati su carta”. “E giustamente non vuoi che nessuno ti guardi dentro più di quanto tu non voglia”, continuo al posto suo. Schiude le labbra ammutolito, come se non trovasse le parole adatte da aggiungere. “Giusto”. Abbassa lo sguardo, poi lo rialza come se avesse avuto un’illuminazione. “Posso domandarti una cosa?”. Assento. “Tu suoni la chitarra, giusto? Volevo chiederti circa…”. “Come fai a saperlo?”, sbotto. Inizia a spaventarmi il fatto che sappia cose su di me senza conoscermi. L’aura sovrannaturale pare aumentare sempre di più. “Non ha importanza, volevo chiederti circa a che livello sei”. Mi coglie impreparato, dunque, pensieroso, mi mordicchio il labbro inferiore. “Non ne ho idea. Non ho un maestro che mi possa indicare con certezza il mio grado d'abilità. Sono un autodidatta e, soprattutto, suono per me. Non ho mai fatto sentire niente a nessuno, tanto meno i pezzi che compongo personalmente”. Rimane con lo sguardo fisso su di me metabolizzando filo per segno ogni frase uscita dalla mia bocca. “Perché è un modo per esternare ciò che senti e non vuoi che nessuno ne sia al corrente e, anche se lo fossero, sei convinto non capirebbero”. Deglutisco. Ha centrato il punto: comporre musica è una maniera per non lasciare che il marcio che ho in me si rapprenda fra le viscere, attraverso il suono riesco ad estirparlo dalla parte più profonda e sfruttarlo per creare qualcosa di concreto. Non voglio che nessuno conosca anche solo una minima parte di ciò che ho dentro. In verità alcune persone ci sarebbero, ma sono troppo impegnate con le loro vite per perdere tempo con la mia. “Giusto”, mormoro. “Mi piacerebbe sentirti”. Sgrano gli occhi sconvolto, spero sia uno scherzo e, se lo è, non lo trovo per niente divertente. “Perché?”. “Come posso sapere come te la cavi con la chitarra se nessuno ti ha mai sentito?”, risponde come sia la cosa più ovvia del mondo. Corrugo la fronte. “Perché ci tieni a sapere il mio livello?”. Si tortura le mani visibilmente agitato. Strano. “Scrivo canzoni”, confessa tutto d’un fiato. “Scrivi? I testi?”. “Sì”. “Forte, potrei legger…”. “No!”, scatta prontamente. “Prima devo valutare se sei bravo abbastanza, poi se farmi aiutare ed infine, forse, ti farò leggere i testi”. Farsi aiutare? Da me? Cerco nel suo viso un accenno d’ironia, ma pare veramente serio. “Vorresti che ti aiutassi con la parte musicale?”. Rotea gli occhi. “Ma come sei perspicace, metro e trenta”. Eccolo, eccolo il vero Gerard. “Non sono alto un metro e trenta”, ribatto. “Sono alto un metro e trentaquattro”. Mi fissa per alcuni secondi, probabilmente per riuscire a decifrare le mie intenzioni con quella frase, dopodiché scoppia a ridere. Chissà perché le uniche volte che l’ho visto abbandonarsi ad una sana e spontanea risata è stato quando mi sono praticamente preso per il culo da solo. Ieri con la storia delle entrate gratis, ora con questo. Non so se essere fiero di essere autoironico oppure no. “Sei divertente, ragazzino”, constata. “O dovrei chiamarti metro e trentaquattro?”. Sorrido, più per il complimento rivoltomi che per il buffo scambio di battute. “Chiamami Frank che facciamo prima”. Picchietta l’indice contro la guancia fingendosi pensieroso. “Mmh, troppo banale. Ci vuole qualcosa di speciale, non credi?”. “E ‘metro e trentaquattro' sarebbe speciale?”. “No, ma sempre più di Frank”. Faccio le spallucce. “Scusami se è così che i miei genitori mi hanno chiamato. Sono conscio di quanto brutto sia il mio nome senza che tu me lo dica, grazie lo stesso”. Mi sorprendo della naturalezza con cui mi sto esponendo, quando non è aggressivo nei miei confronti è molto più facile interagirci. Oserei dire quasi piacevole. “E comunque praticamente nessuno mi chiama Frank”. “Come mai?”, domanda incuriosito. “Non vuoi farti chiamare in questo modo?”. Scuoto la testa. “No, è che possiedo lo stesso nome di mio padre perciò vengo chiamato Junior. Gli unici a usare ‘Frank’ sono i miei amici e di amici ne ho due, quindi”. Annuisce. Davvero gli interessa di come vengo denominato? O, meglio, davvero gli interessa una qualsiasi cosa riguardante la mia persona? “Sappi che non ti chiamerò Frank e tanto meno Junior”. “E come mi chiamerai?”. Okay, questo discorso sta leggermente degenerando. “Ancora non lo so, ma troverò il nome adatto. Intanto continuo ad usare ‘ragazzino’, se non ti dispiace”. “Frank! Frank dove sei… oh”. Mi volto di scatto verso la soglia della stanza: appena affacciato da essa vi è Ray con un’espressione alquanto stranita e dei riccioli ribelli che gli ricadono davanti agli occhi. “Ci chiedevamo dove fossi finito, non tornavi più di sotto. Tu dovresti essere Gèrard?”. Sento uno sbuffo alle mie spalle. “E’ Geràrd, si pronuncia alla francese”. Improvvisamente rimpiango l’arrivo del mio migliore amico perché il Gerard acido è tornato più carico di prima, soprattutto ora che hanno osato deturpare il suo nome storpiandolo. Ringrazio di averlo sentito personalmente dalla sua bocca per la prima volta sennò mi avrebbe incenerito all’istante, un po’ come sta facendo adesso con Ray. “Uhm… scusa, non era mia intenzio…”. “Sì, certo. Sei perdonato, hai la mia benedizione e puoi uscire dalla mia camera”. Vorrei intervenire in sua difesa, ma non ho il coraggio di proferir parola. La paura che sbrani pure me è tanta e forse gli sto pure simpatico, non voglio rovinar tutto proprio ora. Anche perché Gerard è un tipo interessante e mi piacerebbe approfondire la sua conoscenza, attorno a lui gravita quell’alone di mistero che ti spinge volerne sapere di più. E io devo sapere di più, mettermelo contro non aiuterebbe. “Ma non sono nemmeno entrato”. “La tua testa è protesa verso l’interno, se non erro”, puntualizza. Repentinamente la ricaccia all’indietro come per volersi salvare in extremis. Lo scorgo implorarmi, sussurrando il mio nome, probabilmente per andarsene al più presto da questa situazione scomoda. “Ehm… io vado”, farfuglio raggiungendolo. “Di già?”, piagnucola il moro. Mi si chiude la bocca dello stomaco senza un'apparente ragione. Veramente ci tiene alla mia presenza? Un lieve tremolio mi attraversa il corpo. “Uhm, io…”. “Fa niente, lascia stare. Me la sbrigo da solo”. Aggrotto la fronte. “Sbrighi cosa?”. “Niente, lascia perdere. Ci si vede”. Do la caccia ai suoi occhi disperatamente, bisognoso di risposte, ma il massimo che ottengo è una porta sbattuta in faccia ed un amico che sicuramente ora mi porrà dei quesiti a raffica fino alla nausea. Cosa deve sbrigare? Perché aveva un tono rassegnato? Ed io a cosa servo? Forse per la storia delle canzoni, ma non voleva prima sentirmi suonare? E, ricollegandomi a questo, come faceva a sapere del fatto che suono la chitarra? Solo una cosa mi è chiara: questo ragazzo mi sta facendo diventare matto dopo neanche un giorno di conoscenza. E, non so perché, sento che questa sensazione non sarà passeggera.

   
 
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