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Autore: thebrightstarofthewest    04/01/2016    2 recensioni
Nella mia follia di fangirl, ho immaginato la mia versione della galassia lontana lontana trent'anni dopo gli avvenimenti narrati ne Il Ritorno dello Jedi. Questa è completamente diversa da Il Risveglio della Forza, senza quei personaggi, e con altri da me creati. Dal prologo:
"Trent’anni dopo la caduta dell’Impero, la Pace regna sulla galassia.
La Repubblica è rinata, nuovamente con sede su Coruscant, e grazie all’impegno dei suoi funzionari i pianeti vivono in una quiete e prosperità che da decenni non era che un miraggio.
Luke Skywalker, con l’aiuto della sorella Leia, decide di rifondare l’Ordine dei Jedi, nel quale decine di nuovi allievi si allenano per mantenere la giustizia nella galassia.
In questo clima di gioia, tutto sembra andare per il meglio… Eppure non tutti la pensano allo stesso modo. Tim, giovane Cavaliere Jedi, ha ragione di credere che qualcosa di oscuro si celi sotto il velo di tranquillità creatosi, e si reca nei bassifondi di Galactic City in cerca di risposte…"
Spero di avervi almeno incuriosito!
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Han Solo, Luke Skywalker, Nuovo personaggio, Principessa Leia Organa
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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PROLOGO
Trent’anni dopo la caduta dell’Impero, la Pace regna sulla galassia.
La Repubblica è rinata, nuovamente con sede su Coruscant, e grazie all’impegno dei suoi funzionari i pianeti vivono in una quiete e prosperità che da decenni non era che un miraggio.
Luke Skywalker, con l’aiuto della sorella Leia, decide di rifondare l’Ordine dei Jedi, nel quale decine di nuovi allievi si allenano per mantenere la giustizia nella galassia.
In questo clima di gioia, tutto sembra andare per il meglio… Eppure non tutti la pensano allo stesso modo. Tim, giovane Cavaliere Jedi, ha ragione di credere che qualcosa di oscuro si celi sotto il velo di tranquillità creatosi, e si reca nei bassifondi di Galactic City in cerca di risposte…


CAPITOLO I - Incontro nei bassifondi

Vista dall’alto, Galactic City appariva talmente immensa e brulicante di vita da lasciarlo ogni volta senza parole. Eppure ci era nato, in quella città.
I grandi occhi color nocciola di Tim si specchiarono per qualche istante nel parabrezza dello sprinter, mentre questo perdeva quota, adagio. Poi, nel momento in cui si immise nel traffico urbano cigolando con fare sinistro, continuò a guardarsi intorno, con aria indagatrice. Era da lungo tempo che non tornava su Coruscant. Probabilmente dall’esatto momento in cui l’Ordine aveva deciso di abbandonare il pianeta, lasciando lì soltanto i propri funzionari diplomatici ed i combattenti necessari alla protezione della Repubblica, così da trasferire la propria Accademia su lidi meno battuti.
Dopotutto, il grande Maestro Luke Skywalker non era affatto uno stupido e non avrebbe mai permesso che il nuovo ordine di Cavalieri Jedi cadesse come aveva fatto quello precedente: l’esposizione creava rischi inutili.
E su Galactic City era impossibile non essere bellamente esposti: l’enorme città si estendeva sull’intero pianeta, senza lasciar spazio alla natura, ed era di fatto il centro pulsante della vita nella galassia. Tim continuava a guidare il proprio sprinter, concentrato, ma gli era quasi impossibile smettere di osservare lo skyline della città in cui era cresciuto: era perennemente in cambiamento, come se ogni giorno vi fossero nuove scoperte tecnologiche ed urbane, e gli abitanti di Coruscant non potessero fare altro che applicarle, così da essere sempre al passo con il progresso. I palazzi si stagliavano grigi contro il sole morente; la loro forma era leggermente tondeggiante ed erano illuminati all’interno dalle ampie vetrate che li circondavano alla sommità, conferendogli un aspetto leggermente meno austero.
Preso dai propri pensieri, il ragazzo nemmeno si accorse che il suo comlink stava suonando furiosamente già da qualche minuto.  Si riscosse improvvisamente e rispose alla chiamata.
“Grym,?”, mormorò, mentre immetteva lo sprinter in una strada secondaria.
“Chi altri?”, borbottò una voce metallica dall’altro capo della comunicazione, “Ce ne hai messo di tempo. Non dirmi che stavi romanticamente ammirando il tramonto”.
Tim rise, grattandosi la corta barba castana con una mano. “E anche se fosse?”, rispose sarcastico, “Che può capirne un Kaleesh di queste cose?”.
Una breve pausa. “Niente, in effetti”, ammise l’altro, la voce che gracchiava nel microfono. Tim poteva perfettamente immaginarlo scuotere le spalle con indifferenza.
“Comunque”, soggiunse il ragazzo, “C’era qualcosa che volevi dirmi?”.
“Chiederti, più che dirti… Sei in posizione?”, domandò l’alieno, con una punta di criticismo nella voce.
“Non ancora”, ammise Tim, mentre pian piano si abbassava di quota: raggiungere l’underworld di Galactic City non era una pratica così veloce, soprattutto perché teneva a posteggiare lo sprinter possibilmente accanto al rendezvous… come precauzione in caso la contrattazione non andasse per il meglio. “Ma non dovrei distare molto”.
“Vai ad incontrare contrabbandieri, non ballerine. Cerca di ricordarlo”, commentò Grym, con la voce sempre più carica di rimprovero.
“Lo ricordo, mammina. E ho anche una certa esperienza a riguardo”, rispose Tim, cercando di apparire quanto più rilassato possibile. In realtà, la mano destra che abbandonò per un istante i comandi, e scivolò lentamente sul fianco, dove un cilindro metallico stava appeso, inerte.
No, la spada laser non era la risposta che cercava, non gli avrebbe dato conforto. L’avrebbe usata soltanto se strettamente necessario. La Forza lo avrebbe aiutato. Essa sarebbe stata la sua alleata. Sospirò, riportando le dita sul volante. “Piuttosto, tu fatti trovare al punto concordato… per tempo”. Con quelle parole chiuse la comunicazione; dopotutto era pressoché giunto a destinazione, come indicava lampeggiando la mappa del suo sprinter.
Si immise lentamente in un viottolo oscuro e silenzioso, mentre la luce del giorno andava morendo. Uniche fonti di illuminazione rimasero qualche insegna sgangherata e qualche finestra dall’aria malconcia. Silenziosamente, si mise alla ricerca di un luogo strategico dove lasciare il suo mezzo. La ricerca fu lunga ed infruttuosa: più avanzava, più le strade della fetta malfamata della città si facevano strette e prive di nascondigli per lo sprinter, ed il tempo stringeva. Fece retromarcia  e si risolse abbandonandolo in un anfratto buio, col muso rivolto verso la strada: voleva fidarsi dei suoi anfitrioni, ma un po’ di sana precauzione non poteva essere che un bene.
Saltò giù dalla piccola nave e, calatosi il cappuccio sulla testa bruna, si mise in cammino. Aveva fatto attendere i suoi “amici” anche abbastanza.

***

Meera non avrebbe mai voluto essere lì. Non tanto perché si trattava del quartiere malfamato della città, non era quello il punto. Era la compagnia che non gli andava proprio a genio.
Suo fratello Julian, al suo fianco, rideva sguaiatamente, sorseggiando un liquido denso dall’aroma forte. Tutto attorno a loro, una schiera di facce delle più diverse etnie sghignazzava a sua volta, accarezzate dalla penombra della sera che cominciava ad approssimarsi. La prossima volta si sarebbe guardata bene dall’accettare di uscire con suo fratello e la sua compagnia.
“Non dovremmo essere qui”, mormorò la ragazza, passandosi una mano tra i corti capelli biondo cenere. Sapeva di essere maledettamente lagnosa, ma non poteva respingere il sentore di essere del tutto inappropriata per quel luogo.
Julian la squadrò dall’alto e poi le sorrise. “Non parlare come mamma, sorellina”, le disse, facendogli l’occhiolino, “Questi sono i miei amici. Solo perché non vivono ai quartieri alti non dovremmo considerarli abbastanza per noi?”.
“Non hai colto il mio punto”, controbatté lei, stringendosi nelle spalle, ma si arrese: suo fratello era sempre stato così. Era più grande di lei di tre anni, ma in discordanza con i luoghi comuni, era sempre stato lui a creare problemi alla famiglia. Non che lo facesse con cattiveria, chiaramente: era ben più infantile che cattivo. Lui si definiva un amante del rischio, che fosse banale o sfrenato, bastava che ci fosse qualcosa da perdere. In questo caso, Julian stava del tutto perdendo di vista la via della legalità.
I suoi nuovi “amici” erano quasi tutti più grandi di lui e chi più o chi meno pubblicamente, erano tutti invischiati in questioni poco chiare: contrabbando, pirateria, furto di dati, gare di sprinter clandestine…
Julian ne era affascinato, ad ogni modo. Più andava avanti con gli anni, più Meera percepiva questo amore del fratello nei confronti del pericolo come una naturale reazione all’educazione rigida impartitagli dai loro genitori: Mya e Raymond Russell, dopotutto, erano funzionari di spicco nella Nuova Repubblica, ed avevano molto insistito perché i loro figli fossero istruiti di dovere, sotto regole più che ferree.
Un animo libero come quello di suo fratello, ovviamente, aveva propeso per la ribellione.
Meera rifletteva, ma fu riscossa da un brivido di freddo. “Era proprio necessario incontrarsi in un capannone abbandonato?”, domandò sarcastica, “Riescono ad esserci spifferi anche se Coruscant è un pianeta caldo”.
“Qui è più difficile per gli sbirri trovarci”, rispose un uomo sui venticinque con una lunga zazzera nera, poco distante.
Meera si guardò intorno per qualche istante con un sopracciglio inarcato. “Con tutta la confusione che fate ho più di qualche dubbio a riguardo”.
Il ragazzo non rispose. Nessuno rispose, in realtà. Ad essere obiettivi, Meera era un corpo estraneo a quella compagnia ed ancora doveva capire per quale ragione suo fratello l’avesse portata là. Per renderla partecipe? Per farle capire che in fondo non frequentava gente così malvagia, che in fondo sono tutti dei bravi ragazzi?
Si alzò in piedi scuotendo la testa, senza che nessuno le prestasse attenzione, e si allontanò dal caotico gruppo. Se davvero Julian l’aveva portata come testimone verso cui puntare il dito ogni volta che i suoi si lamentavano… no, non aveva voglia di pensarci. Uscì dal capannone con le mani in tasca e si domandò quanti rischi potesse correre nel farsi una passeggiata nel cuore dell’underworld di Galactic City. Non era molto brava con le casistiche, quindi alzò la testa verso il cielo ormai notturno e si mise in cammino.
Intorno a lei, la completa desolazione. La strada era sporca e vuota, e tutto intorno si alzava un leggero fumo color ocra dall’olezzo putrescente di cui era meglio non domandarsi l’origine. Ciononostante, continuò a camminare a passo sostenuto, finché un dettaglio curioso non le balzò agli occhi: in una sorta di anfratto irregolare tra le pareti di due edifici in disuso era parcheggiato uno sprinter. Non una nave scrostata e desueta, no: si trattava di un mezzo di trasporto moderno ed in ottime condizioni, non serviva un occhio esperto per comprenderlo. Per un istante, Meera ne fu piuttosto turbata: forse si trattava di una retata della polizia… E suo fratello era lì! Se fosse stato beccato, sarebbe stata la fine sia della reputazione dei suoi genitori che…
Un tonfo sordo la riscosse dai propri frenetici pensieri. D’istinto, la ragazza si girò di scatto verso la fonte del rumore: non vide nulla se non un muro con qualche brutto graffito alieno sopra; eppure, aldilà di esso ancora continuavano ad arrivare suoni. Erano voci, concitate, rabbiose; non riusciva a sentire cosa stessero dicendo, ma il tono sembrava piuttosto accusatorio.
Forse sarebbe dovuta andarsene: dopotutto, in quei quartieri dovevano essere avvezzi alle scazzottate ed ai litigi, eppure… No, non aveva senso fare l’eroina. Sarebbe potuta andare lì e far cosa? Dividere due omoni in una rissa? Mettere pace tra due spacciatori rivali? No, non avrebbe potuto fare niente di tutto ciò; doveva essere razionale e non pensare in base a ciò che era giusto o sbagliato. Girò i tacchi, con il sentore chiaro di un groppo in gola, ma non si fermò. Ogni passo le sembrava di un’immane fatica, come se dovesse trascinare con sé un enorme peso… il senso di colpa, forse?  Ancora una volta, cercò di scrollarsi di dosso quella spiacevole sensazione.
Un passo, un altro ancora, poi ancora un altro e…
Un urlo furibondo, seguito dal suono di qualcosa che veniva lanciato sulla strada, la fece bloccare sul posto. Si girò: nel mezzo alla via dove si trovava, più indietro, esattamente all’incrocio col muro scarabocchiato da cui precedentemente arrivavano le voci, una figura ammantata era stesa a terra e stava facendo per rimettersi in piedi.
Meera non ci pensò su due volte e si nascose dietro ad un cassonetto della spazzatura dall’odore piuttosto pungente.
“Non c’è alcun bisogno di reagire così”, esclamò la figura misteriosa, ormai nuovamente in posizione eretta. Da dove si trovava, Meera poteva udirne la voce chiaramente ed intuire che appartenesse ad un giovane uomo. Tentò di sbirciare al di sotto del cappuccio che gli copriva il volto, ma il buio era troppo fitto per distinguerne i lineamenti.
“E’ così che reagiamo coi bugiardi”, sbottò con sarcasmo un umano longilineo che arrivò da dietro al muro. Dietro di lui, quelli che apparivano come due grossi scagnozzi lo spalleggiavano. “Sei della Repubblica”, continuò il nuovo arrivato, “E questo a noi non lo avevi detto”.
Il giovane uomo incappucciato si strinse nelle spalle. Era piuttosto basso, ma la sua postura eretta gli conferiva comunque un’aria autorevole. “Esattamente, non l’ho mai detto. Ma bisogna anche considerare che voi non lo avete mai chiesto. Pensavo che il denaro vi interessasse di più della storia della mia vita”.
“Fai lo spiritoso?”, gracchiò uno dei tirapiedi, stringendo la mano sul proprio blaster.
“Non faccio lo spiritoso”, negò l’altro, scuotendo il capo, “Constato l’ovvio”.
L’uomo longilineo rise sommessamente. “E cosa faresti se adesso io, constatando l’ovvio, ti dicessi che nella situazione attuale potremmo comodamente ammazzarti e prendere i soldi che ci hai promesso senza ovviamente darti alcuna informazione?”.
Il ragazzo parve pensarci su seriamente, cosa che lasciò il suo interlocutore vagamente perplesso. Poi parlò: “Innanzitutto, suppongo me la prenderei un po’. Voglio dire, abbiamo fatto un patto, no? Ci rimango sempre un po’ male quando qualcuno infrange le promesse”, scosse di nuovo il capo, poi proseguì, “Inoltre, mi sentirei nell’obbligo morale di avvisarvi che se queste sono realmente le vostre intenzioni, mi vedrò costretto a farvi del male e prendere le informazioni con la forza”. Ancora Meera non riusciva a distinguerne i lineamenti, ma era abbastanza sicura che stesse sorridendo. “E non vogliamo questo, vero?”, soggiunse, alzando le mani in un gesto plateale.
La reazione degli scagnozzi fu immediata: non venne dato alcun ordine, ma entrambi impugnarono il blaster e scagliarono un singolo colpo contro l’uomo incappucciato. Questo, con una velocità sorprendente, prese lo slancio, e spiccò un salto all’indietro che gli fece schivare entrambi gli spari.
“Sembra che non mi lasciate altra scelta”, commentò, ed in quell’istante estrasse da sotto le pieghe del mantello un cilindro metallico. I nemici lo guardarono insospettiti per un istante e spararono ancora, ma non ebbero tempo di far altro: il cilindro sprigionò un fascio di luce celeste come il cielo diurno, ma più dirompente.
Meera sgranò gli occhi. Una spada laser… si trattava proprio di una spada laser!
Il ragazzo saltò in avanti, tenendo l’oggetto tra le mani, ed in un lasso di tempo incredibilmente breve mulinò la propria arma a destra ed a sinistra con rapidità. Parò ogni singolo colpo che i rivali tentarono di infliggergli, poi si fermò e sporse in avanti la mano sinistra: un istante dopo, entrambe le guardie del corpo dell’uomo longilineo caddero a terra con un tonfo sordo, come se una potenza invisibile avesse inferto loro un colpo. Il loro capo, con un tremito, scappò a gambe levate in direzione di Meera.
La ragazza non ebbe molto tempo per pensare, ma agì d’istinto: avrebbe mai potuto non aiutare un Cavaliere Jedi?
Attese il momento propizio, poi, dal proprio nascondiglio, allungò la gamba proprio nel momento in cui giungeva l’uomo longilineo, così da fargli perdere l’equilibrio e farlo cadere a terra. Cosa che riuscì a metà: quello sì inciampò, ma riuscì a mantenersi in piedi. Fu di nuovo la potenza invisibile a farlo crollare sulla strada, così come aveva fatto coi due tirapiedi.
Mentre l’uomo rotolava a terra, dolorante, la figura incappucciata giunse al suo cospetto e, ben poco carinamente, lo prese per il colletto, strattonando forte. Meera uscì dal proprio nascondiglio e stavolta riuscì a vedere il volto del ragazzo: doveva avere poco più di venti anni, con una corta barba e capelli castani e due grandi occhi marroni.
“Dammi la card”, sbottò, stringendo la presa. Non aveva più il tono ironico di prima.
“Non volevamo fregarti, amico, senti, scherzavamo, noi…”, cercò di farfugliare l’altro, impaurito.
Dammi la card”, ripeté, a voce sempre più alta. Sì, era basso, ma sapeva incutere un certo timore. L’uomo, infatti, cedette, e frugandosi un po’ tra le tasche ne estrasse una busta, che si affrettò a consegnare.
In quel medesimo istante, un colpo di blaster passò vicinissimo al volto di Meera. Si girò e così fece il Cavaliere Jedi.
“Ha i rinforzi, il bastardo”, mormorò a denti stretti. Socchiuse gli occhi, come se stesse riflettendo attentamente su qualcosa, poi scosse il capo, “Sono troppi, andiamo!”. Lanciò a terra l’uomo longilineo e prese a correre, mentre altri colpi frustavano l’aria. Dopo qualche metro si girò, il volto piuttosto contrariato. “Allora, ti vuoi muovere?”.
Meera impiegò qualche istante –e qualche colpo ravvicinato di blaster- di troppo a capire che si stava proprio riferendo a lei; allora, perplessa, prese a correre a sua volta, a perdifiato.
Lo affiancò e lui, dopo che ebbero girato un angolo per mettersi al riparo dal fuoco nemico, si presentò. “Tim”, gridò, mentre il cappuccio gli ricadeva indietro sulle spalle, “Mi chiamo Tim. E tu?”.
“Meera”, urlò lei, perplessa. Sentiva i passi di molte persone che si avvicinavano, minacciosi.
“E’ un vero piacere, Meera”, esclamò lui, concedendole un sorriso tirato, “E grazie per aver atterrato quel tale, prima. E’ un vero bastardo”.
Meera avrebbe voluto rispondere, ma solo allora realizzò che stavano percorrendo a ritroso la strada che aveva fatto all’andata. Quindi lo sprinter nascosto nell’anfratto…
In pochi istanti, vi furono proprio davanti e lui le intimò di salire. “Con un po’ di fortuna con questo li semineremo”, le spiegò, e mise in moto. Mentre venivano sballati dall’alta velocità, Tim accese un comlink e cominciò ad urlare a chiunque fosse dall’altro lato di andare subito al rendezvous, che era questione di vita o di morte.
Meera deglutì. Non che non avesse intuito la pericolosità della situazione, ma sentirlo dire dalla bocca di un Cavaliere Jedi faceva assumere al tutto una certa gravità.
Cominciarono a salire di quota, abbandonando gradualmente le aree più malfamate della città. Ormai erano quasi fuori dall’underworld e chiunque fossero quegli uomini muniti di blaster, sembrava non avessero fatto in tempo a raggiungerli. Proprio mentre questo pensiero le balenava nella mente, un paio di sprinter di colore scuro si avvicinarono minacciosamente  alle loro spalle. Tim imprecò.
“Dobbiamo arrivare il prima possibile al distretto più affollato”, mormorò, quasi più diretto a se stesso che alla nuova compagna di sventure, “Sicuramente continueranno a seguirci anche là, ma ci sono talmente tanti agenti della Repubblica che non avranno il coraggio di spararci apertamente… Spero”.
Nel frattempo, però, il problema non sembrava porsi: dalle retrovie giunse una scarica di blaster, che li costrinse ad abbassare la testa. Tim quasi perse il controllo della nave e ricominciò a gridare al comlink.
Fu allora che l’ennesimo colpo di blaster giunse e stavolta colpì nel segno… ma non Tim. Lo sparo strisciò rosso e doloroso sul lato del collo di Meera, facendola urlare. Subito dopo ne giunse un altro, che stavolta la centrò in piena spalla.
Dapprima percepì solo la sofferenza e strinse le mani a pugno talmente forte da farsi male. Chiuse gli occhi, ed avrebbe gridato ancora, ma qualcosa la fermò: una percezione, una sensazione più astratta che concreta, ma comunque forte, dirompente, ed al tempo stesso delicata, simile ad una carezza. Percepiva Tim.
La diceva di star calma, che sarebbe andato tutto bene, che la ferita non era grave, ma era normale le facesse male. Ma non le stava parlando davvero: era nella sua testa.
Confusa, cercò di risvegliarsi da quella sorta di torpore che la avvolgeva: sentì altri spari e lo sprinter che sfrecciava, la voce di Tim, poi il rumore di altri mezzi… Sì, stavano risalendo, non avrebbero più potuto sparargli! Quella constatazione aumentò la sua gioia e, con essa, il suo rilassamento. Ma perché si stava addormentando? Era come se qualcosa la cullasse…
Gli ultimi suoni che sentì furono lo sprinter che si fermava e il turbinio assordante del motore di una astronave.
Poi si lasciò scivolare nell’oscurità.

Spazio dell'autrice:
Salve, mi sono sentita in obbligo di prendermi un piccolo spazio in fondo al capitolo, giusto per spiegare un po' il perché di questa fanfiction. Beh, lo ammetto, a me Il Risveglio della Forza non ha soddisfatto, ma non è stato quello a convincermi a pubblicare. No, non è stata la voglia di "trovare un'alternativa al film". Al contrario, la pellicola mi ha riportato alla memoria tutti i viaggi mentali che mi sono fatta su Han, Leia e Luke negli anni seguenti a Il Ritorno dello Jedi quando ero più piccola. Solo che stavolta li ho messi su carta e chissà che non ne possa venir fuori qualcosa di interessante.
Spero possa almeno incuriosirvi, un bacio da Wookiee (semicit.),
thebrightstarofthewest

 
  
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