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Autore: Ajik    05/01/2016    0 recensioni
-Ci pensi mai al fatto che potrebbe non finire bene?- chiesi allora, timorosamente, quasi a bassa voce. Mi rendevo conto che non era un bel pensiero da esprimere. Che era una frase di chi aveva perso la speranza, come me. E che non avevo diritto di costringerlo a pensare ad un evento così brutto, eppure inevitabile.
Perché lo sapevo che non ce l'avesti fatta.
Non lo dicevo a nessuno, a volte nemmeno a me stesso. Tuttavia la medicina era il mio futuro lavoro ed ero troppo immerso negli studi per non rendermi conto che da un tumore del genere non c'era via di scampo. Tutti quanti eravamo in attesa di un miracolo che sapevo benissimo non si sarebbe mai verificato.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sarebbe davvero perfetto se iniziasse a piovere - Novembre 2015 (II)

Te ne andasti due giorni prima del mio compleanno. Di notte. Mi alzai alle sei e mezza del mattino con la strana urgenza di controllare il telefono. Allungai la mano nell'oscurità della solitaria stanza che avevo affittato per l'università finché non trovai il cellulare.
Il led lampeggiava, segno che nella notte mi erano arrivati messaggi. Non che fosse una novità, dopotutto. Assonnato sbloccai il telefono e vidi l'anteprima del messaggio della tua migliore amica. Recitava circa “lo zio mi ha mandato un messaggio stanotte” e poi citava ciò che tuo zio le aveva mandato, continuando con “aiuto, non sto capendo”.
Ma il messaggio di tuo zio non lasciava spazio a fraintendimenti. Te ne eri andato. Alla fine, dopo un anno e mezzo avevi abbandonato la lotta.
Restai dieci minuti senza sapere cosa fare. Ben presto iniziai a tremare per un freddo indicibile. Le uniche cose che riuscii a scriverle furono “scusa, non riesco a dire nulla”. Lei comprese.
Rimasi per dei lunghi minuti in silenzio, pensando al da farsi, dunque scivolai fuori dal letto, senza ancora aver versato una lacrima. Non era una notizia inattesa. Dall'ultima visita ero uscito con la certezza che non avresti resistito un'altra settimana: i miracoli non si ripetono due volte.
Preparai la valigia con rapidità, presi ciò che dovevo ed uscii di casa. Dieci minuti dopo ero in stazione e dopo altri venti minuti un treno regionale affollato e pieno di gente felice mi conduceva sobbalzando verso casa. Intorno a me la gente sembrava spensierata, col cuore leggero. Imprecai, più e più volte, poiché il mondo intero doveva piangere la tua morte.
Mi resi conto subito che fosse un pensiero davvero stupido. Il mondo conta sette miliardi di individui e tu ne conoscevi solo una modestissima frazione di frazione. Forse volevo solo qualcuno a cui appoggiarmi in quel momento, ne sentivo i bisogno, ma ero solo su quella carrozza che pareva annaspare ogni volta che accelerava.
Quando scesi dal treno c'erano alcune persone ad attendermi. Amici che ti conoscevano da sempre ed anche chi non ti conosceva da molto. C'era anche lei, sempre. Sapevo che sarebbe andata il prima possibile da te, a salutarti.
I tuoi genitori decisero di disporre una camera ardente in ospedale così da dare modo a tutti quanti di vederti un'ultima volta e dirti addio. Durante il viaggio fino l'ospedale, in quella mezz'ora, in auto c'era un silenzio quasi spettrale. Era una delle rare volte che finivo per accomodarmi nei sedili posteriori. Sono troppo grande per starci comodo e far star comodi gli altri.
Lei era vicino a me, con un paio di grandi occhiali da sole sul viso a nascondere gli occhi rossi. Aveva fatto l'errore di mettere un po' di fondotinta, così le lacrime avevano disegnato solchi sulle sue guance. Non dissi niente. Allungai solo una mano, cercai la sua, la strinsi forte e non la lasciai finché non fummo arrivati a destinazione.


La camera ardente era piccola. Troppo piccola. Una decina di file di banchi di chiesa disposti in due file sui quali la gente raccolta in un silenzioso commiato guardava la tua bara di legno chiaro al centro della sala. Davanti ad essa, un altare ornato e dietro ad esso, sul muro, un imponente dipinto di Gesù. Non riesco a richiamare la frase che vi era dipinta, ma fissai con disprezzo l'icona pacchiana.
Lo sai, l'hai sempre saputo, che non credo nell'esistenza di alcuna divinità. Per questo motivo rabbrividivo dinanzi l'ipocrisia di alcune affermazioni che imponevano quasi di gioire per la tua scomparsa. Eri in un posto migliore? No. Semplicemente, non eri più con noi. Il tuo corpo aveva già iniziato a disfarsi, anche se non potevamo vederlo. Ben presto di te, della tua gentilezza, della tua forza, dei tuoi sogni e progetti che programmavi con infinita accuratezza non sarebbe rimasto nulla: solo fredde ossa.
Mi fermai all'ingresso, cercando di entrare, senza riuscirci subito. Lei, come me, non ce la fece ma mentre io rimasi a guardare cercando di raccogliere la forza per riuscire a vederti nelle tue spoglie mortali lei si voltò ed uscì.
Spirava un vento freddo quel giorno. L'inverno andava avvicinandosi rapidamente. Il cielo era plumbeo. Qualcuno avrebbe pensato che stava piangendo per te.
Se proprio volevamo dar qualche merito al cielo, potevo solo dire che ti stesse rendendo omaggio. Il cielo grigio e lo scrosciare della pioggia, meglio se accompagnato da qualche tuono, era il clima che amavi più di tutti.
“Sarebbe davvero perfetto se iniziasse a piovere”, pensai mentre uscivo per raggiungerla. Continuavo a ripetere di dovermi far forza, perché per quanto soffrissi c'era qualcuno che stava peggio di me. La trovai a fissare l'infinito verde attorno all'ospedale che si poteva osservare a perdita d'occhio dal parcheggio fuori la camera ardente. Mi avvicinai, l'abbracciai, desiderando quella stretta più di quanto lei ne avesse realmente bisogno.
-Ti sporco il cappotto.- mi disse, riferendosi ancora alla pessima scelta del fondotinta. Posai un bacio tra i suoi capelli, trovando da qualche parte la forza di muovere i miei muscoli facciali in un mezzo sorriso.
-È solo un cappotto.- risposi.
Rimanemmo per qualche secondo così, poi lei sciolse l'abbraccio e con una rinnovata decisione decise di entrare a salutare il suo più caro amico. La seguii ed insieme mettemmo piede nella camera, camminando con lentezza infinita verso la tua bara.
Eri sereno.
Il tuo viso non aveva niente a che vedere con la sofferenza che avevi mostrato gli ultimi giorni. La tua bocca sembrava piegata in una specie di sorriso. I lineamenti erano sempre lontani da quelli del ragazzo che avevo conosciuto dall'età di tredici anni, ma parevano distesi, quasi sereni. Indossavi un vestito elegante, una cravatta ovviamente blu. Tra le dita ti avevano sistemato un rosario di color perla che avresti certamente apprezzato. Vicino ai piedi c'era piegata una maglia dell'Inter.
La riconobbi all'istante: era un regalo di tutti noi i tuoi amici, quando tra l'autunno e l'inverno dell'anno scorso la malattia che stavi combattendo ti stava consumando. Era una maglia ufficiale e personalizzata, sopra il numero uno stampato c'era il tuo nome. Il sapere che un nostro regalo sarebbe stato col tuo corpo, per sempre, mi colpì più del vederti morto.
Avevo avuto tempo e modo di prepararmi a quella visione, non avevo mai pensato al fatto che qualcosa di nostro potesse finire con te, in quell'ultimo viaggio. Le lacrime vennero naturali come dovevano, ma poche rispetto a quanto mi sarei aspettato. Non osai toccarti, ma lei allungò una mano sulle tue, le strinse appena con delicatezza mentre piangeva.
Poi fece una risatina. Una breve risatina umida di lacrime, che terminò quasi nel momento stesso in cui era iniziata.
-È caldo. È più caldo lui di me.- disse. Sorrisi anche io pensando al fatto che lei stessa mi aveva fatto notare: aveva le mani sempre, costantemente gelide.
Il resto della mattinata fu un continuo entrare ed uscire. Qualche volta sedetti sulle panche, notando con sorpresa che nessuno pregava. Forse, internamente, qualcuno stava struggendosi di preghiere sbagliate, domandando a Dio dei perché ai quali non vi era risposta. Certe malattie accadono e basta.
Non vi è giustizia nella biologia.
Anche se come te non si fuma, si fa sport, si mangia bene, non si beve molto e si hanno solo ventitré anni può sempre accadere l'irreparabile: una mutazione, un semplice errore di replicazione del DNA e da lì il rischio di iniziare un circolo vizioso che porta alla catastrofe. Questo è accaduto a te.
Gli enzimi che replicano il DNA fanno un errore ogni miliardo di basi replicate. Il DNA umano è lungo 3,2 miliardi di basi. Significa che ad ogni ciclo di replicazione è possibile che vi siano tre errori circa. Ma il DNA umano è anche composto per il 98% da zone che non codificano per nessuna proteina.
Quante possibilità c'erano che ti capitasse ciò che alla fine ti è capitato? Pochissime. Per questo dico che non c'è giustizia: è un terno al lotto ogni volta volta che una cellula si scinde ed il premio per lo sfortunato vincitore è un tumore più o meno grave. Non importa quanti anni hai, il tuo stile di vita o le buone azioni compiute: tutti siamo partecipanti alla lotteria, vivere male significa solo comprare più biglietti.
Arrivarono altri amici. Fu un susseguirsi infinito di baci, abbracci, strette di mano e pacche sulle spalle. Tutti ti volevano bene. Riuscivi a farti amare da chiunque.
Molte qualità vengono decantate con ipocrisia solo quando una persona non c'è più per dimostrare il contrario. Non era il tuo caso: tu eri davvero così. Eri amico di tutti, nemico di nessuno e per questo motivo la gente accorse a salutarti.
Dopo un po', senza rendermene conto, ero fuori dalla camera ardente, avevo girato l'angolo ed ero seduto per terra in un vicolo nascosto tra i cespugli. Con me, altre due persone: uno dei tuoi amici storici, quello un po' scemo ma sensibile, che aveva viaggiato con noi di comitiva in comitiva senza perdersi mai. L'altro era una delle persone che avevi conosciuto meno, ma che aveva già subito una perdita simile.
Era un curioso triangolo.
-Ti viene da chiederti perché a lui.- disse il vecchio amico. Una domanda che tutti si ponevano senza pensare al fatto che non vi era risposta.
-Non è così.- rispose il nuovo amico. -Può succedere a tutti.-
Quel pensiero mi trovava d'accordo eppure mi irritava tremendamente. Possibile che non vi fosse un minimo di giustizia in questo mondo?
-Io ho un pensiero che mi aiuta- proseguì poi, riferendosi alla sua perdita. -Io sono credente e credo davvero che qui siamo solo di passaggio. C'è chi rimane un anno, chi cento. Questo pensiero mi ha aiutato. Perché sono di passaggio anche io e so che potrò raggiungere chiunque al di la della vita.-
-Sì, ma ti rendi conto?- rispose l'altro, che come me e tanti altri era ai minimi termini con la fede. -Ventiquattro anni...-
-Non c'è giustizia.- calai perentorio nella discussione, fissando la vegetazione avanti a me.
-Non qui, almeno.- disse il nuovo amico.
-Non lo so. Io non credo, per cui non ritengo che dopo ci sia qualcosa... tuttavia, su questa terra, non esiste giustizia. Certe cose accadono solo per caso.- risposi, stringendo le gambe al petto.
-Come fai a saperlo?- mi fu detto, non ricordo bene da chi dei due. Una domanda legittima, dopotutto.
-Non lo so.- risposi -So solo che puoi vivere ottant'anni fumando venti sigarette al giorno e morire a venti senza averne mai toccata una dello stesso male che le sigarette ti provocano.-
-Aiuterebbe, forse, se tu credessi che lui è solo andato dall'altra parte.- mi disse il nuovo amico. Voleva solo tirarmi su, lo comprendevo e glie ne ero grato ma non vi era conforto che potessi trarre dalle sue parole.
-Non riesco a concepirlo. Nemmeno ora, che ne avrei bisogno: è totalmente al di fuori delle mie possibilità di comprensione. Lui è andato.- sapevo di essere cinico e crudele. Non cercavo però di abbattere le credenze altrui, quanto solo ribadire le mie dolorose convinzioni.
-Tuttavia...- ripresi, dopo un po' che le mie parole avevano strappato totalmente la speranza in quel luogo. -Credo che sarebbe un insulto dimenticare ciò che ha fatto e permettere che vada perduto del tutto. E voglio credere che ci sia una possibilità di rivedersi...- ricordai allora quella sera d'estate, le parole pronunciate vicino casa mia. Il sole del mattino copriva le stelle, eppure sapevo che esse erano lì, fisse nella volta celeste eppure sempre in movimento, apparentemente immutabili eppure in continuo cambiamento.
-Mi confondi alquanto.- mi disse il nuovo amico.
-Lo so, ma è l'ultima speranza che rimane ad un cinico.- dissi a bassa voce, ricordando che – come lui mi disse – avevo in me molta più fede di lui stesso per poter credere in ciò che era il mio concetto di “aldilà”.
Alzai lo sguardo al cielo, mentre la pioggia iniziava a cadere mescolandosi con le lacrime sulle mie guance.
Era tutto perfetto.
  
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