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Autore: lawlietismine    05/01/2016    3 recensioni
C'era una volta– Tutte le belle storie iniziano con un “c'era una volta”, tutte quelle fantastiche, quelle da raccontare ai bambini prima che si addormentino, quelle storie che fanno sognare e che si allontanano fin troppo dalla realtà, creando illusioni che portano solamente delusioni, ma comunque, naturalmente, anche questa storia ha il suo “c'era una volta”.
Dal capitolo 2:
Per poco non gli sfuggì un grido esterrefatto, quando – addormentato ai suoi piedi – non trovò quel lupo dal manto nero e gli occhi verdi, ma un uomo, a vista poco più grande di lui, nudo, il corpo forte e atletico illuminato alle spalle dal camino acceso, il respiro calmo e i muscoli rilassati.
Stiles – fra tutte le cose che avrebbe potuto fare – si riscoprì a pensare che era bellissimo.
#werewolves are known #au
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Era scontato come fosse per lui necessario sfuggire da una realtà troppo opprimente, soffocante, con un costante bisogno intenso di trovare altrove un rifugio per la mente, mettere momentaneamente in pausa la sua vita per schiarirsi le idee: per Stiles questo era davvero scontato, e in fondo era la sua vita.
Certo, però, il bisogno che sentì in quel momento, mentre tutto intorno a lui pareva condurlo nella direzione di quella enorme casa abbandonata, era tutt'altra cosa, era ammaliante, ipnotico, quasi fosse quello un luogo magnetico per tutti i suoi sensi: non riuscì a fermarsi, sentiva di non poter cambiare direzione, sentiva di dover saziare una curiosità irrazionale e impetuosa, e sentiva un richiamo melodico, incessante, che quasi voleva indurlo a proseguire perché sarebbe giunto finalmente a casa.
Stiles era noto per la sua curiosità, per il suo spirito avventuriero, e non sarebbe stato Stiles se avesse rifiutato quel celato invito, quel canto soffiato dal vento, che ancora gli indicava la via verso l'entrata.
Oltrepassò il cancello malmesso e circondato dai rovi, proprio come lo spiazzo di terra – difficile chiamarlo giardino – scuro e tagliente per le spinte che fuoriuscivano da alcuni cespugli e dai gambi delle rose rosse che si arrampicavano sui resti di una fontana antica e sulle mura dell'edificio oscurato: sembravano passati anni dall'ultima volta in cui qualcuno era stato lì, ma lui affrettò il passo e la pressione sulla sua schiena cessò nello stesso istante in cui varcò la soglia, semiaperta dall'esatto momento in cui l'aveva raggiunta.
Stiles poté constatare presto che l'esterno rifletteva esattamente ciò che c'era all'interno: totale desolazione, completo abbandono, una scia insopportabile e melanconica di tristezza, rabbia, frustrazione, sensazioni che lui percepiva inspiegabilmente e che sentiva come proprie, mentre un senso di empatia lo avvolgeva e la voglia di rimediare, un bisogno viscerale di consolare quei sentimenti, lo travolgeva allo stesso tempo.
Si guardò intorno con circospezione e fascino, mentre di fronte a sé una scalinata portava ai due piani superiori, altre stanze lo circondavano lì al piano terra, alla sua sinistra quella che probabilmente un tempo era stata una sala da pranzo, alla sua destra la cucina e vicino alle scale – appurò avvicinandosi – un bagno: fu impossibile, per lui, non notare come al suo passaggio ciò che vedeva fosse fin troppo in buone condizioni per lo stato in cui era quel luogo.
Nella sala da pranzo il buio circondava una grossa tavola, Stiles rabbrividì quando notò del cibo su di essa, che era apparecchiata come in attesa di ospiti, e una candela si illuminò dal nulla con del fuoco: indietreggiò, Stiles, strabuzzando gli occhi castani, fino a scivolare maldestramente a terra vicino alla cucina, dove l'acqua scendeva costante su delle posate nel lavandino, della polvere si trovava radunata ai piedi di una scopa, come se qualcuno si fosse impegnato a mantenere – ironicamente, pensò – un po' di pulizia.
Si tirò su in piedi, sia più incerto che più desideroso di proseguire con la perlustrazione di quel luogo e, prima ancora che potesse bloccare l'impulso, le parole uscirono dalla sua bocca.
“C'è qualcuno?” domandò al nulla, guardandosi intorno, mentre nel frattempo iniziava a salire le scale: si resse al corrimano, lanciando anticipatamente qualche occhiata in su, ma – non scorgendo niente, né ottenendo alcuna risposta – non si fermò.

Si sentì travolto dalle sensazioni che stava provando, una parte di lui pareva dirgli che avrebbe fatto bene a voltarsi e lasciarsi tutto alle spalle, sparire il prima possibile, ma un'altra, una molto più convincente e intensa, sembrava indurlo a continuare, a scoprire ogni singolo angolo di quella casa, ogni singolo segreto che nascondeva, senza timore e senza preoccupazioni, come se – in un modo tutto suo – appartenesse a quel luogo, come se la sua presenza fosse stata valutata e accettata.
Stiles, non sapeva né perché né tanto meno come, percepiva che – se non fosse stato il benvenuto fra quelle mura – non si sarebbe neanche potuto avvicinare di un passo.

Non riusciva a capire come quella casa fosse stata lasciata a se stessa, come nessuno se ne fosse occupato o l'avesse reclamata: era bellissima, grande e sembrava importante, da una parte metteva perfino timore. Le stanze erano numerose e buie, era ovvio – a parte per le stranezze al pianterreno – che nessuno ci abitasse, che nessuno entrasse in quel posto da un tempo indefinito, e la cosa era piuttosto triste e sconcertante, era impossibile capire come una proprietà di tale valore potesse essere ridotta così.
Stiles sfiorò le pareti del corridoio che stava ripercorrendo, portandosi dietro un po' di polvere e qualche ragnatela depositata su quadri squarciati e irriconoscibili, un po' riluttante di fronte al tremendo odore di chiuso e di rovina che impregnava l'ambiente: non appena un porta socchiusa attirò inevitabilmente la sua attenzione, vi si diresse senza remore e – con un'ingenua esitazione – entrò.
Si ripulì le mani sui jeans stretti, mentre curiosava con lo sguardo e si addentrava nella camera, un letto matrimoniale se ne stava alla parete opposta rispetto alla porta e – oltre a quello – solo una scrivania, una libreria e un armadio, tutto rigorosamente immerso nell'ombra se non per qualche misero raggio di sole che penetrava da qualche fessura nelle assi di legno con cui erano sigillate le finestre alla sua sinistra.
Senza realmente pensarci due volte, Stiles si guardò intorno, afferrò qualcosa di duro che gli parve un bastone di ferro e finalmente lasciò che la luce inondasse la stanza, staccando con tutta la forza che aveva in corpo le assurde assi logore, che caddero a terra rotte con un tonfo secco.
La cosa che attirò la sua attenzione quando la luce solare illuminò ciò che lo circondava, fu la libreria colma di libri.
«Verso i boschi della luce delle lucciole» lesse distrattamente il titolo, dopo aver soffiato sullo scaffale pieno di polvere.
«I racconti di Terramare»
«Iliade»

Poi scrutò una fiaba, «La sirenetta», subito accanto «La regina delle nevi» e infine il suo sguardo cadde su «La bella e la bestia», lo prese curioso e ne pulì la copertina con il palmo della mano, sembrava davvero vecchio e di valore, una prima edizione in francese, quando fece per leggerlo, però, un ringhio basso e roco alle sue spalle gli fece gelare il sangue nelle vene e accapponare la pelle: sobbalzò, Stiles, e quando molto lentamente si voltò e incrociò sulla porta un paio di occhi, il cui rosso acceso delle iridi scintillava minaccioso, la gola parve seccarsi all'improvviso, il respiro si mozzò e – inevitabilmente – il libro cadde rumorosamente a terra.
Un altro ringhio, che portò a un suo passo indietro, fino a scontrarsi con la schiena contro la libreria: il lupo dalla folta pelliccia nera avanzò intimidatorio verso di lui, le fauci scoperte che vibravano all'emissione di quel basso verso animalesco, il muso e il corpo chini in una posizione che Stiles, tremante e in preda a mille emozioni contrastanti, non riusciva bene a capire se fosse di difesa o di attacco – dal suo sguardo avrebbe detto la seconda – e gli artigli fin troppo visibili mentre lasciavano il segno sul pavimento malconcio.

Oh cazzo” imprecò tra i denti, aggrappandosi con le mani agli scaffali quasi a volersi fare più piccolo, deglutì a vuoto e fissò l'animale cercando di ideare qualcosa il più velocemente possibile, prima che quello decidesse di ucciderlo senza tante storie: tutto si sarebbe aspettato entrando laggiù, Stiles, tutto tranne trovarsi un lupo alle spalle.
Le sue possibilità gli vorticarono in testa come saette: aspettare e sperare che gli venisse a noia, che capisse quanto non ne valeva la pena di mangiare quel coso tutto ossa, o tentare uno scatto verso la finestra che aveva aperto e saltare sperando di farcela, oppure afferrare il pezzo di ferro usato per togliere le assi e... lo sguardo del lupo gli rese impossibile proseguire con quell'ultima ipotesi, l'animale – ancora chino, gli occhi rossi e tutto il resto – aveva improvvisamente iniziato ad annusare l'aria, poi aveva fatto uno strano verso, che Stiles non avrebbe saputo catalogare, e ora lo stava fissando insistentemente, il muso leggermente inclinato, come se lo stesse studiando attentamente, ma non come aveva fatto fino a quel momento: il ringhio era cessato, il corpo era più dritto e rilassato e pareva confuso quasi non sapesse lui stesso cosa fare.
Si mosse di nuovo in avanti, verso di lui, ma questa volta con più grazia e cautela, spostandosi quasi in un semicerchio, gli occhi assottigliati e un che di diffidente, a Stiles sembrò quasi umano.
“Da bravo, cucciolo, lascia che...” tentò scioccamente, facendo per muoversi verso la finestra, ma il ringhio d'avvertimento che uscì dall'animale a quell'accennato movimento, lo riportò di scatto a sbattere contro la libreria e la polvere si scosse tutta intorno, facendolo tossire malamente: era già tanto, si disse sarcasticamente in un moto di autoironia nervosa, che non gli fosse preso un attacco di panico.
Ma, non avrebbe saputo spiegarsi come fosse possibile, Stiles non riusciva a capire se il lupo rappresentasse realmente una minaccia.
“Lascia che...” disse di nuovo, stavolta in un mormorio rapito, e mosse – senza quasi neanche rendersi conto di ciò che stava facendo – la mano verso il muso dell'animale, lo sguardo perso, come ipnotizzato: voleva raggiungerlo, nemmeno si accorse – tanto era ammaliato – del ruggire improvviso del vento.

 


Si svegliò di soprassalto, scattando su a sedere, e si guardò intorno senza capire, il cuore gli batteva fino allo stremo e dal respiro e il corpo coperto di sudore sembrava che avesse appena corso per dei chilometri: era nel suo letto, però, riconobbe la sua camera, nessuna foresta a circondalo, nessuna casa abbandonata e – soprattutto – nessun lupo a ricambiare il suo sguardo perso.
Era stato solo un sogno, si era immaginato ogni cosa.
Si concesse cinque minuti, forse dieci, per riprendere fiato e calmarsi, perché era stato così reale come sogno – avrebbe saputo raccontare ogni singolo dettaglio – e, in cuor suo, gli dispiaceva di essersi svegliato, sentiva un peso sul petto e una sensazione di vuoto allo stesso tempo.
Com'è che non si ricordava di essere tornato a casa dopo la sua fuga dal bar in cui non era mai entrato? Si disse inizialmente che probabilmente si era immaginato anche l'intrusione in camera sua da parte di Lydia e Scott, ma poi – forse perché gli sembrava strano, o forse perché aveva bisogno di credere che non fosse così e che era effettivamente successo qualcosa – cercò con lo sguardo il suo telefono, poi si alzò di fretta e l'afferrò.
“Stiles non dirmi che hai poltrito tutto il giorno, per favore” il sospiro esasperato di suo padre, chiaro e improvviso dalla porta, lo fece sobbalzare e voltare di volata, lasciando perdere la chiamata che voleva fare: suo padre lo fissava in attesa di una risposta, stretto nella sua divisa, passando lo sguardo da lui alle coperte sfatte.
Lui si concesse un'occhiata veloce all'orologio sulla sua scrivania e si sorprese nel constatare che era già quasi ora di cena: un attimo dopo strabuzzò gli occhi.
“Farò tardi a lavoro, dannazione!” sbottò, mise il telefono nei jeans, afferrò il portafoglio sul comodino e le chiavi della jeep e poi corse giù per le scale, lasciandosi dietro suo padre, completamente basito, un attimo dopo nella casa risuonò il rumore della porta sbattuta, seguito da quello dell'auto che partiva e usciva dal vialetto.


“Tieni, mangia un muffin” Erica gli porse il dolce e lui lo accettò senza fare tanti discorsi, mentre lei scuoteva nell'aria il suo straccio e tornava a pulire uno o due tavoli, concedendogli un sorriso divertito: Stiles, tanto per mettere qualcosa da parte prima di tornare al college, lavorava durante l'estate in un bar vicino alla riserva di Beacon Hills, un bar che restava aperto anche di sera solo d'estate due giorni alla settimana.
Erica era una sua collega e amica da quando aveva iniziato tre estati prima e – lavorando lì già da un anno al suo arrivo – l'aveva aiutato a prendere dimestichezza con il nuovo lavoro: finita l'estate, però, avevano continuato a uscire insieme.
Erica era un licantropo.
“Allora, come va con Boyd?” le chiese distrattamente nel solito silenzio del bar deserto, mentre sgranocchiava un po' del suo muffin al cioccolato, la vide con la coda dell'occhio poco distante mentre passava lo straccio sulla superficie del tavolo e poi lo raggiunse di nuovo fino al bancone, dove si sedette con una piccola spinta.
“Il solito, domani sera andiamo al cinema” scrollò le spalle, rubandogli un morso del dolce, poi si leccò maliziosa le labbra e lui fece una smorfia. Erica era bella, aveva dei lunghi capelli biondi e mossi e sembrava sempre così sicura di sé, senza però essere altezzosa o arrogante, era simpatica ed era stato facile per Stiles avvicinarla, lei gli aveva presentato Boyd, il suo ragazzo, anche lui licantropo, e alla fine erano diventati amici.
Bofonchiò qualcosa tra sé e sé, voltandosi per preparare un po' di sano caffè sia per sé che per l'altra, quando però fu interrotto da un tintinnio alla porta che annunciò l'arrivo di un cliente e lasciò che fosse Erica a prendere l'ordine, lui lo avrebbe invece preparato.
“Ma che...” la sentì sbottare dopo un attimo di silenzio, poi udì un tonfo per il balzo giù dal bancone e quando si girò verso di lei, nel bar erano ancora soli, la bionda stava andando a chiudere la porta aperta.
Quando la chiuse e fece per tornare al suo posto, una forte folata di vento la riaprì e, insieme a quella, si spalancarono una alla volta anche le due finestre ai lati: Stiles vide Erica guardarsi attentamente intorno fiutando l'aria, con circospezione, ferma sul posto, e allora superò anche lui il bancone per raggiungerla.
“Non c'è nessuno” si calmò subito, non percependo alcuna presenza con i suoi sensi sviluppati e insieme riportarono tutto all'ordine senza dire niente.
Stiles però sentì una sensazione di familiarità – un pizzicore insistente alla base del collo – quando il vento lo colpì nel chiudere la finestra, e per un attimo rimase spiazzato a guardare fuori, verso la riserva, come se fosse certo di vedere succedere qualcosa da un momento all'altro, quando però Erica lo richiamò all'attenzione, lui lasciò perdere e tornò a preparare i loro caffè.

Erano le due di notte passate quando finalmente scese dalla sua amata jeep ed entrò in casa silenziosamente, cercando di non svegliare suo padre: si sfilò la tracolla e la poggiò da una parte, mentre continuava a procedere verso la sua camera, si tolse la maglia salendo le scale e – una volta arrivato a destinazione – era già pronto a mettersi il pigiama.
Quando entrò nel letto, si pentì di aver bevuto quel caffè con Erica.
Era stanco, ma era quella stanchezza che ti coglie malamente senza che però tu riesca a soddisfarla, insopportabile e inevitabile. Non avrebbe saputo dire quanto tempo restò a pancia in su nel buio, a fissare il soffitto senza neanche vederlo e a pensare a qualsiasi cosa potesse dargli il colpo di grazia. Inviò un messaggio a Scott, un secco e speranzoso “dimmi che sei sveglio, perché io lo sono e quindi devi esserlo anche tu” che però non ricevette alcuna risposta, Stiles sbuffò, rigirandosi distrattamente la stoffa della canottiera sulla pancia fra le mani e gli tornò in mente che alla fine si era dimenticato di chiedere a Lydia e all'altro se erano usciti davvero o se si era sognato tutto, ma questo pensiero non fece in tempo a svilupparsi nella sua testa, che crollò finalmente addormentato.

Quando si svegliò di soprassalto, la prima cosa che pensò fu che stava diventando un'abitudine, la seconda – e ci mise un po' a realizzarlo – fu che era in piedi, scalzo su della terra e – la cosa gli fece accelerare il battito – si trovava nel bel mezzo della foresta, davanti a lui solo una maestosa casa abbandonata. 

 


 





Angolo della pazza: 
Sono tornata prima di quanto pensassi e sperassi! Ma in fondo non rientrerò a scuola fino al sette, perciò è ovvio che al posto di studiare io passi il mio tempo a scrivere e leggere fic sterek... oh mamma mia ho bisogno seriamente di aiuto. Se continuo così la maturità sarà un casino.   
Btw, nel capitolo ho nominato «Verso i boschi della luce delle lucciole» e «I racconti di Terramare», il primo sarebbe in giapponese "Hotarubi no mori e" (Into the forest of fireflies' light in inglese) ed è un manga one-shot di cui è uscito anche l'anime di 44 minuti (è bellissimo ç.ç ho scritto anche una os merthur basata su quello) e il secondo in realtà è il titolo di un film d'animazione giapponese di Gorō Miyazaki.
Vabbé! Avevo pensato di non pubblicare, di lasciarmi il capitolo lì e postarlo magari nel weekend (soprattutto visto che domani devo studiare perché dal 7 fino a martedì avrò mille compiti e interrogazioni e quindi non potrò scrivere granché), ma alla fine ho lasciato perdere ed eccomi qui. Grazie mille a IrenePlutone per avermi lasciato un pensiero e grazie mille anche a tutti quelli che hanno già messo la storia fra le preferite/seguite/ricordate.
Spero vi sia piaciuto questo capitolo ^^ fatemi sapere cosa ne pensate. 
Alla prossima, 
Lawlietismine 
  
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