Credo sia più un esperimento che un prodotto ben riuscito.
Non so precisamente cosa sia.
Mi direte voi, forse.
Disegno
farfalle morte sul mobile della cucina e le coloro con le parole che mio padre
mi urla la sera a cena. Continua a gridare, ma io non l’ascolto e mi mangio le
mani assieme al pane, mentre dalla radio esce ancora quel rumore acido di
sottofondo che lo ha fatto diventare sordo.
La mattina, prima dell’alba, sento mio
fratello chiamarmi cantando una filastrocca sulla storia della Prussia,
accompagnato dalla chitarra di plastica che gli regalarono quando aveva sette
anni. Mi siedo, allora, sulle piastrelle nere del bagno e mentre lui mi rovescia
l’acqua della doccia addosso, io tiro la coda al gatto per farmi
graffiare.
Chissà perché a lui sono sempre state
indigeste le farfalle morte. Forse perché, semplicemente, gli facevano pena così
colorate ed immobili sul marciapiede davanti alla chiesa
cittadina.
Le osservo tatuate sulle mie dita e mi
sembrano dei supereroi in pensione che hanno accumulato troppi buchi nella
calzamaglia, che hanno persino dimenticato la parola magica per poter volare sui
grattacieli in fiamme senza bruciarsi il mantello.
Sono diventati piccoli modellini di plastica
che io ho trovato nell’uovo di Pasqua di qualche anno fa. Li ho disposti sul mio
comodino e con la carta colorata mi son
fabbricata un vestito da cui, però, si sono sciolti i colori, un giorno di sole
cocente in cui ero pacatamente sdraiata all’ombra di un lampione.
Tornai in quel luogo il giorno dopo, in
cerca del lampione con cui avevo stretto amicizia chiacchierando dell’odore
della pioggia e delle torte alla nocciola, ma lo avevano ormai abbattuto perché
non sfidasse più il sole con la sua piccola candela
consumata.
Avrei voluto farci l’amore, con quel sole
abbagliante; avrei desiderato bearmi fra i suoi raggi dorati, ma il giorno in cui comprai i trampoli
per raggiungerlo e sedurlo, quello mi spinse di nuovo a
terra.
A pensarci adesso, forse la colpa fu delle
mie occhiaie o magari della tempera nera che avevo ingoiato quella
mattina.
Ho deciso di colorarmi gli occhi con i
trucchi che usavo da bambina e di ritentare la fortuna.
Mentre li raccolgo dal pavimento polveroso e
sporco sul quale li avevo gettati in una sera di maggio, i pupazzi sugli
scaffali eccessivamente bianchi recitano una
commedia francese che scioglie in lacrime le punte sensibili dei miei capelli
spettinati.
Riesco a trovare un rossetto rosso
ed accecante sotto il termosifone e con esso mi riempio, soddisfatta, le
occhiaie e le guance smunte.
Indosso il mio vestito scolorito ed
un cappello viola con sopra una matassa di lana gialla per
presentare colorato ed allegro il mio corpo distrutto e sorretto a stento da
pezzi di nastro adesivo.
Mi dirigo verso la tomba del mio lampione e
rivolgo la faccia impiastricciata verso il cielo, diventato verde
per un gioco di riflessi tra le nuvole.
Sarà perché ho comprato dei fiori a metà
prezzo o, forse, perché il caldo ha fatto colare il mio trucco, fatto sta che il
sole mi getta nuovamente sul porfido gelido di questa piazzetta
deserta.
Mi sento molto come un cavaliere che ha
perso l’elmo e con esso la testa, perché, da dove sono finita, il sole non si
vede neanche.
Accanto a me v’è una farfalla morta con le
ali accartocciate che mi dice quanto sembri un cadavere e quanto sia spenta,
nonostante un falso sorriso continui a squarciarmi il
volto.
Con quelle parole riesco a dipinger di nero i miei occhi eccessivamente
anonimi e a trovare la forza per disegnare con la penna anche me stessa, su quel
mobile in cucina.
Mio padre è ancora lì, che ride delle mie
ferite e, evidentemente, non si è ancora accorto che, sulla sedia accanto a lui,
io non ci sono più.