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Autore: Frheya    08/01/2016    1 recensioni
-Nessun sistema amministrativo è perfetto e per quanto funzionante non può durare per sempre. Qui è successa più o meno la stessa cosa. Da un giorno all’altro questo reparto è stato cambiato e abbiamo cercato di riorganizzare tutto il personale e ricatalogare tutti i soggetti nelle liste a noi disponibili. Lei è una di queste-.
La guardo confusa, stranita. –Sta cercando di dirmi che sono in un centro psichiatrico?-
La ragazza continua a sorridere, inclinando leggermente la testa. –Mi scusi?-
-Non c’è bisogno di spiegarmi cose riguardanti l’amministrazione o cose che non mi interessano minimamente. So che ho qualcosa che non va. Io…- deglutii a disagio. –Prima mi era sembrato come se mi fossi svegliata qui, nell’altra stanza. E non ricordo come ci sono arrivata, forse perché ho problemi di memoria o non so cos’altro. Non c’è bisogno che giri intorno al fatto che potrei essere mentalmente disturbata e che mi volete mettere chissà dove-.
Accade qualcosa di strano. La ragazza scoppia a ridere.
-Signore Rife! Oh, signora Rife. E’ la cosa più esilarante che abbia mai sentito da uno di voi-.
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Capitolo II
 
Il cartoncino che ho in mano è consumato ai bordi.
Quando me l’hanno dato? Non ricordo bene. E’ come se lo stessi osservando da un sacco di tempo. Sopra vi è  scritta una strana sequenza di numeri e lettere. 000475-42a/375F. Non ho idea di cosa significhino.
Perché ho questo cartoncino?
Alzo gli occhi e mi ritrovo una fila di persone sedute –alcune in piedi- con in mano un biglietto simile al mio. E’ davvero strano. Non ricordo di essere venuto da un medico quando sono uscito di casa oggi. Sono uscito di casa, vero? Me lo ricordo abbastanza bene… Poi più niente.
Mi  accorgo che c’è qualcosa che non va. Attorno a me, nessuno si muove. Sembrano tutti delle bambole dagli occhi vuoti e immobili.
Dove diavolo sono finito?
Mi  volto e accanto a me c’è un ragazzo giovane, probabilmente non ha più di vent’anni. Anche lui non si muove e non si accorge che lo sto osservando. La mia preoccupazione cresce, ma tento comunque di attirare la sua attenzione.
-Scusa…- provo a dire. Niente.
Alzo un po’ la voce, certo che abbia parlato troppo piano per farmi sentire. –Scusami, posso chiederti una cosa?-
Il ragazzo continua ad ignorarmi e a fissare il vuoto. Ora il senso di terrore in me cela una sfumatura di rabbia. Sollevo una mano intento a riscuoterlo da quello stato catatonico quando…
-Io non lo farei se fossi in te-.
Mi  blocco. E’ così surreale sentire qualcuno finalmente parlare da apparire bizzarro, come se un corridoio pieno di gente immobile non fosse già abbastanza di per sé strano.
Mi  volto lentamente per vedere da dove viene quella voce e davanti a me, dall’altra parte del corridoio, osservo un giovane ragazzo dai capelli neri seduto comodamente su una delle poltrone con le gambe incrociate, che mi guarda tranquillo. Una cosa che stranamente mi inquieta è che non tiene nessun cartellino tra le mani.
-Ciao- mi dice, sorridendomi. Dovrei essere felice che, finalmente, qualcuno si sia rivolto a me e che fosse disponibile a parlare. Ma non lo sono, per niente. Tutto ciò che la mia mente riesce a recepire è che il ragazzo non ha nessun cartoncino. Come se non mi dovessi fidare di lui.
-Da quant’è che ti sei svegliato?- mi chiede. Devo rispondere. Ma non ho una risposta assurdamente adeguata ad una domanda assurda.
-Come?- mi ritrovo a balbettare.
Il ragazzo inclina la testa. Sembra un bambino. –Sei arrivato da poco no? Come me-.
-Un momento… Arrivato dove?-.
Il ragazzo sorride entusiasta. –Allora lo sei-.
Confuso più che mai, chiedo: -Sono che cosa?-.
-Uno di quelli che non ricorda-.
Quest’uomo è pazzo, mi ritrovo a pensare.
Si alza ondeggiando sulle gambe e subito lo imito velocemente. Col cavolo che mi faccio scappare l’unico tizio sveglio qui dentro. Anche se il termine “sveglio” non è proprio ciò che userei in questo momento per descriverlo. Credo di essere finito in una gabbia di matti.
-Aspetta- dico. –Cosa vuoi dire che non ricordo? Cosa dovrei ricordare?- Faccio un cenno veloce alle persone che mi circondano e chiedo: -Perché qui nessuno si muove o parla?-
Il ragazzo scoppia a ridere e alza le mani per interrompermi. –Uoh, uoh, vacci piano amico. Hai delle domande, è comprensibile. Giustissimo. Ma non sarò certo io a rovinarti la sorpresa-.
Lo guardo per un momento, scioccato. E’ pazzo, sicuramente, e a questo punto direi che lo sono anche io. Come tutti in questo corridoio penso.
-Sono…- mormoro, più a me stesso che con lui, come a voler esternare un pensiero che mi si è formato improvvisamente e prepotentemente nella testa. –Sono in una specie di centro di riabilitazione? Un istituto psichiatrico, oppure…-
-Incredibile-.
Alzo gli occhi sull’unica persona “sveglia” –perché non ho altro termine per descriverla-  e sembra che voglia confermare i miei dubbi. –Cosa? Ho ragione, vero?-.
-Affatto. Trovo solo incredibile quanto siate simili, voi due-.
Con cautela chiedo: -Voi chi?-.
In quel momento vedo la porta –porta? C’era una porta anche prima?- in fondo al corridoio che mi pareva infinito aprirsi e sbucarne fuori una giovane donna in camicie bianco. La vista dell’indumento mi fa pensare che sia un dottore.
Questo conferma ciò che pensavo.
La ragazza mi guarda dritto negli occhi sorridendomi, come se mi conoscesse già da tempo. O meglio, come se sapesse esattamente che mi avrebbe trovato al di là della porta. Questa nuova consapevolezza che mi sfiora l’anticamera del cervello è abbastanza da farmi provare finalmente paura.
-Finalmente è arrivato anche lei, signor Rife-.
Mi fa cenno con una mano di seguirla all’interno, ma tutto il mio corpo mi sembra inchiodato al pavimento, come se avesse una qualche repulsione nell’oltrepassare quella porta. O forse, repulsione nell’avvicinarmi a quella strana donna.
-Si accomodi dentro, per favore-. Lo dice con tono gentile, a me sembra una minaccia velata.
Noto che lancia un’occhiata al ragazzo ancora in piedi davanti a me e il suo sorriso vacilla, come se quel ragazzo rappresentasse un fastidio per lei.
Ma il ragazzo non lo nota, o sembra non importargli, e le fa l’occhiolino mentre torna a sedersi e in un istante è nello stesso stato di tutta le altre persone intorno a lui. Sguardo vuoto e fisso.
Faccio un respiro profondo, conscio che non ho scelta e nessun’altra via di fuga, e mi avvicino a quella che penso sia una dottoressa. Devo capire, e per farlo ho bisogno di qualcuno che risponda alle mie domande.
Non sapendo bene cosa fare, le porgo il mio cartoncino, ma lei alza una mano dicendo: -Non ce n’è bisogno signor Rife. Lo so che è lei-.
-Lei chi è?- chiedo atono. –E dove sono?-.
-Ogni cosa a suo tempo, signore. Le verrà spiegato tutto, glielo prometto. Così anche lei capirà-.
Anche io?
Poi mi accorgo di qualcosa di cui avrei dovuto accorgermi prima. Qualcosa che avrebbe dovuto azionare un altro campanello d’allarme nella mia testa. Che avrebbe dovuto farmi capire quanto la situazione fosse grave.
Seduta su una sedia all’interno della stanza oltre la porta, una ragazza piange. Una ragazza che io conosco molto bene. Ne ho la certezza quando alza gli occhi su di me e si porta la mani alla bocca, sul punto di scoppiare in lacrime di nuovo.
-Oh mio Dio…-. Non so chi dei due lo dice per primo. Ma io corro dentro e lei si alza e mi butta le braccia al collo. Io la stringo come se ne dipendesse la mia stessa vita. E forse è così.
-Signora Rife- dice la donna in camice. –Riconosce quest’uomo?-.
-Certo che sì!- le sento dire. E provo un senso di nostalgia, come se la sua voce mi fosse mancata per troppo tempo.
-E’ Mark. E’ mio marito-.
Solleva lo sguardo e mi guarda negli occhi e io faccio lo stesso. Ora mi ricordo. Sono Mark Rife e tre anni fa ho sposato questa donna. E ricordo altre cose ancora. Ricordo che si chiama Amanda.
-Bene…- sussura la ragazza e sorride. Nulla in quel sorriso mi rassicura.
E mentre io non riesco a staccare gli occhi di dosso a mia moglie  non mi accorgo che dietro di me, nel corridoio, il ragazzo si copre la bocca con una mano, impedendosi di iniziare a ridere istericamente.
   
 
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