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Autore: Adeia Di Elferas    11/01/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ 'E siate di polso, con mia nipote Caterina – aveva risposto Ludovico alla missiva del suo ambasciatore in Forlì – e ditele pure che non avrà il mio permesso di soggiornare alla corte di Milano, almeno non finché non si sarà riappacificata col marito. Ormai in molte città si chiacchiera su di loro. Il suo modo di ribellarsi anche in pubblico al Conte Riario è ben noto a tanti e alcuni temono che il suo modo d'agire potrebbe dare il via a una moda molto scomoda. Inoltre, ma questo non ditelo alla mia cara nipote, se accettassi di averla qui in Milano, alcuni potrebbero pensare che io stesso sono alla base delle inquietudini del suo matrimonio, che io voglio una loro separazione e che io sia pronto a sostenere, magari pure militarmente, una sua aperta rivolta contro il marito. Non sia mai, caro Oliva, non sia mai! Comunque, se ancora dovesse insistere, ditele che qui la peste ha avuto una severa recrudescenza e che io stesso sono confinato al palazzo di Porta Giovia per evitare il contagio. Vuole forse lei, giovane e incinta, rischiare una simile condanna solo per rivedere il palazzo dov'è nata? Non credo.'
 Oliva ripiegò il messaggio e sospirò.
 Avrebbe dovuto riferire alla Contessa Riario le parole dello zio con un certo tatto. Ultimamente era intrattabile e un rifiuto così netto alla richiesta di ospitalità sarebbe stato di certo accolto molto male.
 Oliva si lasciò cadere sulla sua sedia imbottita, rallegrandosi appena del fatto che proprio in quei giorni i signori erano a Forlì, e, dunque, il suo ingrato compito era rimandato, anche se non di molto.

 'Contiamo di essere quasi a un dunque, mio illustrissimo signore. Abbiamo convinto un uomo di influenza certa a stare dalla nostra parte, anche se non può nemmeno immaginare il fine ultimo. Resto in attesa di eventuali nuovi ordini. Vostro fedelissimo M. M.'
 Lorenzo Medici chiuse la lettera con una certa soddisfazione dipinta in volto.
 Se il suo uomo era acuto come sembrava, allora ci aveva visto giusto e con i suoi modi convincenti era riuscito a tirare dalla loro parte un ignaro complice.
 Le campagne fiorentine che si stagliavano davanti ai suoi occhi parevano smeraldi, bagnati dalla luce fioca, ma fresca dell'inizio d'estate.
 Forse avrebbe potuto aspettare più del previsto, a combinare il matrimonio di Maddalena. In fondo, non avrebbe avuto molto senso accelerare i tempi, ora che la vendetta era vicina. Prima si sarebbe gustato quella vittoria, e poi, dopo aver saputo lo spirito di suo fratello Giuliano finalmente in pace, allora sì, allora sarebbe tornato a pensare solo alla politica.

 Un primo taglio alle spese dello stato costò ai Riario una grave perdita di popolarità. Pur non avendo ancora rimesso le glabelle tolte al loro arrivo, erano riusciti a inimicarsi gran parte della popolazione riducendo, anche se di poco, il numero di dipendenti statali.
 Appena i licenziamenti erano divenuti ufficiali, piccole rivolte e risse erano scoppiate in tutta la città e i Conti si erano visti costretti a chiedere l'intervento del capo della pubblica sicurezza.
 Se Caterina, però, avrebbe voluto restare in città per sedare di persona i malcontenti, cercando di trovare una saluzione sia al bilancio sia alle tensioni, Girolamo aveva invece deciso di ritirarsi per qualche giorno a Imola, con la scusa di voler rivedere anche in quella città alcuni documenti riguardanti le casse dello stato.
 Così, ad aggiungersi alle spese straordinarie affrontate per reprimere un'insurrezione, arrivò il pedaggio che i Manfredi, signori di Faenza, imponevano a tutti gli stranieri che volevano passare dalle loro terre.
 Caterina aveva cercato, tramite missive accorate e ricche di promesse, di far scendere il prezzo della tassa, ma i Manfredi avevano fatto finta di non conoscere le condizioni critiche dei Conti Riario e non avevano accettato nessuna delle proposte avanzate dalla donna.
 Così, anche quando passarono per i territori di Faenza al loro ritorno, i coniugi Riario dovettero sborsare una considerevole somma per evitare spiacevoli conseguenze, quali l'arresto immediato.
 Ed erano ancora stati fortunati, perchè i Manfredi non sempre accettavano di lasciar passare gli stranieri, seppur dietro ingente compenso. A volte costringevano i viandanti a prendere perigliose strade secondarie che oltre ad allungare i tempi del viaggio, aumentavano di molto i pericoli corsi.
 Appena arrivati in Forlì, Caterina si ritirò nelle sue stanze, senza nemmeno voler incontrare l'ambasciatore Oliva, che pur pareva impaziente di riferirle importanti novità.
 Girolamo, invece, preferì rinchiudersi nel suo studiolo assieme a Ludovico Orsi e Matteo Menghi, per chiedere novità sullo stato della città, in particolare sulle eventuali nuove rivolte o sospette congiure ordite alle sue spalle.

 'Non possiamo più aspettare' le aveva scritto suo zio Ludovico Sforza.
 Chiara aveva preso quelle parole come un ordine perentorio.
 Anche se aveva provato a spiegare allo zio come in quegli ultimi mesi le cose fossero un pochino migliorate, lui non aveva voluto sentire ragioni.
 Malgrado Pietro Dal Verme cominciasse a mostrare un minimo interesse nei confronti della moglie, Ludovico non aveva intenzione di aspettare ancora chissà quanto, magari anni, per avere a Zavattarello un piccolo erede da manovrare come preferiva.
 Ormai la decisione era presa.
 Aprofittando della bella giornata, nemmeno tanto calda, malgrado in cielo non ci fosse una nuvola, e sfruttando la nuova libertà che Pietro le aveva accordato, Chiara quella mattina era scesa fino in paese a piedi e da sola.
 Le guardie si erano affrettate a offrire la loro scorta, ma lei aveva rifiutato, dicendo pomposamente: “Se non lo sapete, anche mia nonna Bianca Maria Visconti andava nel cuore della sua città senza scorta. E lei viveva a Milano, non certo in un paesino come questo.”
 Le guardie, un po' confuse, avevano fatto un mezzo inchino e borbottando tra loro avevano fatto retro front, lasciandola andare. Dopo tutto lo stesso Dal Verme aveva avvisato tutti loro di lasciar fare alla moglie quel che preferiva.
 Così Chiara aveva ridisceso tutta la strada addossata alla collina, passando con un sollievo indicibile sotto l'arco che fungeva da ingresso al cortile del castello, e poi giù, fino al cuore pulsante di Zavattarello.
 Sapeva dove doveva andare, ma non era certa che l'uomo con cui doveva vedersi ci sarebbe stato.
 Gli aveva dato una sorta di appuntamento fisso, promettendo una grande ricompensa, sempre allo stesso posto e allo stesso giorno della settimana, con la sua parola d'onore che prima o poi si sarebbe presentata a ritirare la sua ordinazione e a pagare fino all'ultimo centesimo.
 La gente di Zavattarello, molti agricoltori e qualche negoziante, la guardava incuriosita. La conoscevano poco, ma molti ricordavano la sua bellezza fin dal giorno delle sue nozze. Inoltre quei vestiti sfarzosi altro non potevano essere che proprietà della signora Dal Verme.
 Chiara si accorse in quei pochi minuti che le servirono per visitare tutto il borgo che non conosceva affatto Zavattarello. Faticò addirittura a trovare la strada in cui il suo uomo doveva essere in fedele attesa.
 Aveva scelto un vicolo solitario, di cui aveva sentito parlare molto male da alcuni invitati al castello.
 Per fortuna, la stradina era deserta, come da aspettative, eccezion fatta che per un uomo incappucciato, vestito da frate, che se ne stava appoggiato al muro in un angolo ombreggiato.
 Chiara fece un profondo respiro e proseguì verso di lui a passo di marcia.
 Quando gli fu accanto, quello, col volto sempre coperto dal cappuccio del saio, chiese, con voce roca e bassa: “Siete voi la signora che ha chiesto i miei servigi?”
 Chiara annuì: “Sono io, buon viandante.”
 L'uomo si mise un'ossuta mano in tasca e quando la tirò fuori l'allungò verso Chiara.
 Fingendo di stringergli la mano in segno di reverenza per il suo stato di religioso, Chiara allungò verso di lui l'esile braccio.
 Quando i loro palmi si incontrarono, il frate lasciò nella mano della giovane un bottiglino. Chiara si affrettò a nascondere la mercanzia in una tasca segreta del suo abito e, con lo stesso trucco appena usato, passò all'uomo una somma considerevole di danaro.
 “Siete una signora molto generosa.” commentò il frate, chinando ancor di più il capo.
 Chiara annuì, improvvisamente spaventata. Dal frate, dalla stradina isolata, da quei giochi di luce e ombra, da quello che aveva appena comprato e da quello che avrebbe fatto.
 Senza dire più nulla, si afferrò la sottana, alzandola appena, e corse via, verso il cuore della città.
 
 “La festa del Corpus Domini è stata troppo dispendiosa, troppo.” disse Matteo Menghi, scuotendo il capo: “Servono nuove tasse, per rientrare dalle spese.”
 “Inoltre – prese la parola Ludovico Orsi – sarebbe opportuno sfoltire come si deve la macchina dello stato. I tagli fatti non bastano, dobbiamo licenziare. Gli Ordelaffi assumevano senza un piano, solo per distribuire favori. Hanno reso il peso dello Stato insostenibile!”
 Girolamo si tormentava il polsino del vestito su cui era ricamato lo stemma della sua famiglia, la rosa...
 Giusto quella mattina Caterina gli aveva intimato di non dar retta a quelle serpi, così le chiamava, che popolavano il suo consiglio ristretto. Gli aveva detto che prima di mettere tasse e balzelli, sarebbe stato opportuno disfarsi delle loro proprietà romane, che ormai rappresentavano solo una spesa...
 “Non c'è il rischio che i Forlivesi si rivoltino?” chiese uno dei consiglieri minori, accigliandosi.
 “Ma che...!” ribatté subito Menghi: “Si sono lasciati sfruttare come bestie dagli Ordelaffi per anni! Qualche tassa non farà la differenza per loro! Obbediranno come sempre, come le pecore che sono!”
 Girolamo stava ancora pensando a sua moglie, al cipiglio con cui gli aveva detto di non accettare nessuna delle proposte dei suoi consiglieri. Ma cosa poteva fare?
 Non riusciva a levarsi dalla mente il suo viso, così perfetto e severo, i suoi occhi, così irriducibili eppure tristi...
 Per quanto gli fosse sempre ostile e si fosse inferocita nelle ultime settimane come un animale selvaggio tenuto in cattività, sua moglie gli sembrava ogni giorno più bella. E non era solo una sua impressione.
 Alcuni dicevano fosse per via della gravidanza, altri, più maligni, dicevano che la Contessa si fosse trovata un amante più giovane e più bello del Conte suo marito. Solo Girolamo, però, sapeva di conoscere la verità dietro a tanta bellezza.
 Sua moglie era una strega.
 Passava ormai più tempo nel suo 'laboratorio' come lo chiamava lei, che non altrove. Arrivava anche a trascurare i figli, o le sue attività preferite – seppur deprecabili per una donna – come andare a tirar di spada coi soldati o andare a cavallo, pur di passare del tempo nella sua spelonca da megera tra fumi strani e paioli che sobbollivano.
 Alla sera, poi, Girolamo l'aveva vista più di una volta mettersi creme e unguenti sulla pelle, per far sì che restasse liscia e perfetta e che il suo volto risplendesse sempre come quello di una diciottenne.
 E poi, Girolamo ne era certo, in quella grotta da fattucchiera stava sicuramente approntando qualche terribile veleno da propinargli al momento giusto...
 Non aveva a volte sentito sua moglie citare le parole di un certo Paracelso, padre di tutti gli stregoni? Non le aveva forse sentito ripetere la massima di quel criminale? 'Tutto è veleno', così diceva...
 “Qualche tassa, non dico molto, qualche piccola glabella. E poi ridurre il numero dei soldati, indubbiamente – proseguiva Menghi – basta spie, blocchiamo subito i lavori di miglioramento alla rocca di Ravaldino. Non abbiamo in previsione guerre e per quanto la Contessa sia ossessionata da quella rocchetta, al momento non ci serve. E poi riduciamo le guardie e, per Dio, basta regalie agli ambasciatori stranieri!”
 Sì, del veleno, ne era certo. Dopo tutto da qualche tempo faceva assaggiare tutto quello che mangiava e beveva a un servo. Che male c'era? Il servo era lì proprio per servirlo, no? Per morire al suo posto, se necessario.
 “Ma come fare? La città non acceterà mai tanti cambiamenti tutti assieme!” intervenne Oliva, l'ambasciatore di Milano, che partecipava di straforo a quelle riunioni solo perchè nessuno si prendeva la briga di allontanarlo.
 “Se gli anziani daranno il loro assenso, non avremo problemi.” disse con semplicità Ludovico Orsi.
 “E come fare per avere il assenso?” chiese uno dei consiglieri, contrito.
 “Semplice. Il caro Nicolò Pansecco si è già detto favorevole e propugnerà la nostra linea, se in cambio assicuriamo a lui e ai suoi due figli un impiego statale solido e sicuro.” disse subito Menghi.
 A quel punto tutti guardarono Girolamo, che stava ancora lì con il fiore dei Riario cucito sulla manica tra le dita.
 L'uomo non sapeva di cosa stavano parlando, non aveva seguito più nemmeno mezza parola, ma era chiaro che tutti aspettavano un suo intervento.
 Così, per non doversi sorbire recriminazioni o proteste, disse la cosa più semplice da dire: “Per me va bene.”
 E mentre i suoi consiglieri apparivano abbastanza soddisfatti – a parte un paio, che invece si scambiavano sguardi torvi e parole meste – Girolamo andava avanti a rimuginare su sua moglie Caterina e un solo pensiero gli riempiva la testa: 'Sì, prima o poi mi avvelenerà, ne sono sicuro, più che sicuro, quella strega ammaliatrice mi avvelenerà...'
 

   
 
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