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Autore: Adeia Di Elferas    12/01/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ L'estate era arrivata e stava già passando, torrida, ma velocissima. Napoli era stata scossa fin nelle fondamenta da una congiura dalle dimensioni epocali e Innocenzo VIII si era affrattato ad appoggiare i rivoltosi, opponendosi al vecchio regime.
 A sussurrare i consigli nell'orecchio spaurito di Giovan Battista Cybo era stato Giuliano Della Rovere, che aveva creduto nella promessa di una nuova alleanza, più solida e redditizia, col sud dell'Italia.
 Infastidito dalla decisione quanto meno avventata del Santo Padre, Lorenzo Medici si era affrettato a dare il suo appoggio a Napoli, così come fece Ludovico Sforza per conto del nipote Gian Galeazzo.
 Il papa si vide costretto, allora, a chiedere aiuto a Genova, Venezia e ai Francesi, ma la realtà era semplice: la Santa Sede, per quanto facesse la voce grossa, non era pronta per una guerra di simile portata.
 “Non potremo mai vincere.” disse con calma Rodrigo Borja, davanti al papa, che lo fissava senza parole.
 Con l'inizio dell'inverno, le truppe sforzesche e medicee erano entrate in territorio pontificio e minacciavano senza mezze parole di arrivare a conquistare la stessa Roma.
 “Ora che anche Paolo e Virginio Orsini sono passati al soldo di Ludovico Sforza, non abbiamo più speranza di vincere con le armi.” proseguiva Rodrigo, cominciando a misurare a lunghi passi la stanza.
 Innocenzo VIII aprì la bocca, ma prima di riuscire a dire qualcosa balbettò alcune sillabe senza senso: “Ma... Se... Io... Insomma! Cosa proponete allora?”
 Rodrigo Borja fece un sorrisetto mellifluo e si avvicino al Santo Padre: “Lasciate a me le trattative. Datemi carta bianca e vi farò chiudere la guerra nel modo più vantaggioso possibile.”
 Innocenzo VIII respirava a fatica, il petto schiacciato dal peso che lo opprimeva da quel maledetto giorno in cui aveva dato retta al Cardinale Della Rovere.
 “O se preferite – disse con disinvoltura Rodrigo Borja, allontanandosi di nuovo – proseguite pure con le vostre ridicole rappresaglie armate. Sappiate solo che quando in Vaticano sventolerà la bandiera di Napoli, io non sarò certo qui a rammaricarmene. E credo che nemmeno i miei fratelli in Cristo lo saranno.”
 Innocenzo VIII deglutì, passandosi nervosamente l'indice sul naso adunco: “E sia, e sia...” sussurrò: “Provate pure con le vostre trattative. Per Dio, siamo nelle vostre mani, Borja, nelle vostre mani...”
 Rodrigo annuì, compiaciuto, ma, prima di lasciare la stanza, aggiunse: “Ho una clausola...”
 Innocenzo VIII lo stava guardando come chi è ormai pronto a dire di sì a ogni cosa, pur di vedersi salva la vita, così Rodrigo parlò a cuor leggero, certo della risposta che avrebbe ottenuto: “Esigo che non vi avvaliate più dei consigli di Giuliano Della Rovere. Se vi serve un consigliere, sarò io e io soltanto.”
 Innocenzo VIII si affrettò a dire: “Certo. Certo... Io mi fido completamente di voi.”
 Rodrigo sorrise con calore alle parole del papa e finalmente uscì dalla sala, pronto a scrivere lettere piene di falsità e parole gentili per blandire questo e quel signore e porre fine a quella scellerata guerra.

 “Piuttosto vendiamo i gioielli.” disse Caterina, con toni che non ammettevano repliche: “Li disimpegnamo e li vendiamo. Ci converrebbe molto di più che non mettere nuove tasse.”
 “Tu non capisci...” fece Girolamo, scuotendo il capo: “Qui servono soldi di continuo! Le tasse ce li faranno avere, vendere quei due ninnoli che chiami gioielli no!”
 Caterina si massaggiò la fronte, richiamando a sé tutta la pazienza di cui era capace: “Se mettereai le tasse che avevi giurato di cancellare per sempre, allora sì che il tuo incubo di rivolte e congiure diventerà una realtà.”
 Girolamo appariva furibondo, ma anche incredibilmente spiazzato. Sapeva che doveva fidarsi di sua moglie, ma non riusciva a credere che i suoi consiglieri si stessero sbagliando in modo così clamoroso come sosteneva Caterina.
 “Piuttosto – fece la giovane, massaggiandosi il ventre che cominciava a farsi pronunciato, anche se non quanto lo era stato nel corso della quarta gravidanza – cerca di non farti mettere strane idee in testa da quel Matteo Menghi. Quell'uomo non mi piace.”
 “Ma che dici...!” esclamò Girolamo, alzandosi di scatto: “Lui è un mio amico carissimo e se non fosse per lui...!”
 “Se non fosse per lui...?” lo punzecchiò Caterina, arrivata ormai al limite della sopportazione per quel giorno.
 “Se non fosse per lui sarei caduto vittima di una congiura la settimana prossima!” disse Girolamo, quasi soddisfatto.
 “Ma figurati...!” fece invece Caterina, scuotendo il capo.
 “Sì, invece! E sai chi è alla base di tutte queste congiure nei miei confronti? Venezia! E sai perchè? Perchè Venezia odia Milano e io sono andato a sposare una milanese!” gracchiò Girolamo, il dito puntato verso il soffitto.
 “No...” soppesò Caterina, restando calma: “Non credo sia Venezia la tua nemica. Direi piuttosto Firenze.”
 Girolamo perse la testa, come Caterina si era aspettata. Richiarmargli alla mente Firenze era come riportare alla sua memoria i giorni in cui assieme a suo zio, il papa, aveva tramato alle spalle dei due fratelli Medici, senza nemmeno riuscire a farli uccidere entrambi.
 Caterina era convinta che parte delle fissazioni di Girolamo derivassero proprio dalla paura mai sopita di una vendetta da parte di Lorenzo Medici. E il modo in cui le mani del marito tremavano in quel momento le davano una conferma ulteriore.
 “Che c'entra ora Firenze!” ululò Girolamo, battendo un piede in terra: “Cosa ne vuoi sapere tu! Non so nemmeno perchè te ne parlo!”
 “Perchè non sai che fare e hai paura.” disse Caterina, scoppiando a ridere.
 Provava un perverso piacere nel vedere il marito contorcersi a quel modo. Pur avendo rinunciato a vendicarsi di lui uccidendolo, non poteva tirarsi indietro dal prendersi gioco di lui.
 Girolamo era furente. Perchè sua moglie doveva sempre fare così? Perchè non si limitava a dare il suo consiglio e basta? Perchè non perdeva occasione per deriderlo e farlo sentire un uomo così piccolo...?
 Lasciandosi trascinare dall'ira, Girolamo alzò una mano, come per colpirla, ma quando si accorse che la moglie continuava a ridere e non si muoveva di un millimetro, la rabbia lasciò il posto allo sgomento e così l'uomo uscì di corsa dalla camera, bianco come se avesse davvero incontrato una strega.
 Caterina smise di ridere nell'istante in cui il marito la lasciò sola. Quella situazione avrebbe condotto entrambi alla follia, ormai ne era certa. Era come una lenta, ma inarrestabile discesa agli inferi. Girolamo non era mai stato un uomo solido, ma il suo stato era peggiorato sensibilmente negli ultimi mesi. Non era mai stato l'uomo giusto per lei, ma ora non lo sarebbe stato per nessuna. Doveva andarsene da lì, stargli lontana per qualche giorno almeno...
 Se solo suo zio Ludovico si fosse deciso a darle il permesso di raggiungerlo a Milano...
 
 Era la notte del 16 ottobre e Zavattarello e le terre vicine erano completamente succubi della neve.
 Il castello si stagliava imponente, ma spoglio, sulla collina più alta. Le torce sui camminamenti delle sentinelle rilucevano incerti sotto i fiocchi di neve e i passi infreddoliti dei soldati di guardia scricchiolavano sul leggero strato di ghiaccio che nemmeno la segatura e la paglia erano riuscite a debellare.
 “Forse avremmo dovuto restare a vivere per più tempo al Broletto, a Milano.” stava dicendo Pietro Dal Verme, un braccio attorno alle spalle di Chiara e gli occhi fissi sul camino acceso: “In città è più facile svagarsi. Da quando ci siamo trasferiti qui...”
 “Ma tu ami questo castello.” disse piano Chiara.
 Sentire la pelle calda del marito contro la sua era una sensazione piacevole. Le lenzuola del loro letto erano soffici e accoglienti, in quella notte di neve.
 Da pochi giorni avevano deciso di comune accordo di darsi del tu e, con grande sorpresa di Chiara, Pietro aveva cominciato a provare interesse per lei, o almeno a cercarne la compagnia.
 Tuttavia c'era qualcosa, nello sguardo dell'uomo, che lo rendeva ancora distante, impossibile da raggiungere. Come se in realtà non fosse lì con lei, ma relegato a un tempo passato, ai giorni in cui in quelle stesse stanze si aggirava un'altra donna.
 “Amare un castello è da folli.” disse con freddezza Pietro, i muscoli del braccio che si tendevano appena: “Soprattutto quando questo è pieno di ricordi.”
 Chiara abbassò lo sguardo, mettendosi a guardare i ricami del copriletto rosso. Ecco di nuovo lo spettro di quella maledetta Del Maino che faceva la sua comparsa. Sempre così, velatamente, mai nominata, sempre e solo evocata con un che di misterioso e tragico.
 “Sei mai stata innamorata?” chiese di punto in bianco Pietro, fissando gli occhi indagatori sul viso giovane e liscio della moglie.
 Chiara inarcò le sopracciglia, non poco sorpresa da quella domanda, ma alla fine si limitò a dire: “Non lo so, forse.”
 “E di chi?” chiese Pietro, apparentemente molto interessato.
 “Dell'uomo sbagliato.” rispose in fretta Chiara: “Ho sonno, forse faremmo meglio a dormire.”
 Pietro fece un cenno del capo e lasciò che la moglie si accomodasse meglio al suo fianco. Quelle stanze erano tanto fredde che avere vicino il corpo di qualcuno era estremamente piacevole, doveva ammetterlo. Altrimenti avrebbe invitato la giovane a spostarsi nelle sue stanze, per riposare.
 “Tu eri molto innamorato di lei?” chiese Chiara, mentre Pietro era già in dormiveglia.
 “Lei era tutto per me.” rispose l'uomo, bofonchiando, già in parte immerso nel mondo dei sogni.
 “E di me?” domandò Chiara, titubante.
 Ma non ottenne risposta.
 Forse Pietro già dormiva, si disse. O forse, più probabilmente, non voleva risponderle con un secco 'no', se non altro per vergogna.
 Così Chiara si morse il labbro e represse lacrime di rabbia. Quella situazione la faceva impazzire. Le toglieva lucidità. Più si macerava in quelle sensazioni caotiche e spiacevoli, più le parole di suo zio Ludovico diventavano un balsamo per la sua anima. Aveva la sua benedizione, la sua totale complicità, il suo pieno consenso.
 Lei era una Sforza, nipote di Francesco e Bianca Maria Sforza, i signori di Milano e quel paesanotto continuava a preferire una Del Maino a lei...

   
 
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