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Autore: Adeia Di Elferas    13/01/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Chiara Sforza non aveva chiuso occhio per tutta la notte. A tenerla sveglia erano stati i suoi pensieri e il respiro lento e tranquillo del marito che stava al suo fianco.
 Mentre la neve continuava a cadere, fuori dalla finestra, nella sua mente si era compiuto un processo irreversibile che l'aveva portata a prendere una decisione che ormai rimandava da troppo tempo.
 Che fosse un'azione da codarda o da eroina, pensava, sarebbe stato il tempo a dirlo. Di una cosa si era fatta persuasa senza possibilità d'appello: se anche quell'uomo amava salvare le apparenze e si stava ammorbidendo col passare del tempo, nel profondo non l'aveva mai amata, nemmeno un poco.
 Le aveva preferito un'altra donna, scavalcando tutto, dai doveri nei confronti della famiglia Sforza, che gli aveva dato tutto, alle convenzioni sociali. Aveva rotto all'ultimo momento un fidanzamento per sposare quella maledetta Del Maino e poi, quando quella donna orribile era morta, tanto per non perdere troppo il favore di Milano, aveva acconsentito a sposare lei, Chiara, la seconda scelta.
 Prima che il sole sorgesse, Chiara si alzò dal letto, infilò la vestaglia e uscì dalla camera in punta di piedi.
 Attraversò il corridoio gelato, al buio, illuminata solo dal bianco rifrangente della neve fuori dalle finestre.
 Imboccò le strette scale, che percorse a tentoni e scese fino alle cucine al piano terra.
 La sguattera stava già trafficando vicino al fuoco e quando vide la sua signora si profuse in inchini e saluti cerimoniosi.
 Chiara la cacciò di malagrazia, ordinando di non disturbarla per nessun motivo. E soprattutto, per l'amore di Dio, che non dicesse a nessuno che lei era lì. Così la sguattera, agitata dal tono fermo della padrona, si ritirò in men che non si dica, lasciandola da sola.
 Chiara si passò il dorso della mano sulle labbra e sulla fronte. Malgrado il freddo stava sudando. Fece un respiro profondo e cominciò a darsi da fare. Avrebbe preparato una colazione degna di quel nome per suo marito.
 Quando spuntò timidamente il sole di quel 17 ottobre, tra le nuvole candide che avevano smesso di propinare neve alle colline, Chiara aveva appena finito di cucinare.
 Tenendo le pietanze con un vassoio di legno, risalì le scale, fino alla stanza del marito. Entrò senza annunciarsi e lo trovò ancora addormentato profondamente.
 “Pietro...” lo chiamò, con voce bassa e tranquilla: “Ti ho preparato personalmente la colazione.” disse, mentre l'uomo apriva gli occhi e sbadigliava.
 “Davvero...?” chiese Pietro, molto sorpreso.
 Chiara annuì, arrossendo in viso: “Ecco qui. C'è della carne, una mela, un pezzo di dolce e il tuo vino preferito.”
 Pietro spalancò gli occhi davanti a tanto ben di Dio, non riuscendo a ricordarsi una colazione così ricca. Di solito al mattino non mangiava quasi nulla, ma quella volta avrebbe volentieri fatto uno strappo alla sua regola di vita spartana.
 “Ti lascio mangiare in pace...” sussurrò Chiara, appoggiando il vassoio sul letto, accanto al marito, che si stava mettendo a sedere.
 “Perchè non resti? Mangia anche tu qualcosa...” fece Pietro, sorridendo con gentilezza.
 Chiara lo guardò un momento. Anche se la stanza era ancora tiepida, il camino era quasi spento e starsene scoperti come stava facendo Pietro non era molto confortevole. Eppure lui sembrava non avere freddo. Aveva la tempra del soldato e la grazia del gentiluomo. Anche in quel sorriso, sì, c'era gentilezza, affabilità, ma, Chiara non poteva non pensarlo, nemmeno una traccia di trasporto.
 “No, preferisco andare nella mia stanza e vestirmi come si deve.” spiegò Chiara, indicando la vestaglia che le avvolgeva il corpo come una coperta.
 Pietro continuò a sorridere e concesse: “Va bene. Vai pure, allora.”
 Chiara uscì dalla porta, ma non andò molto lontana. Si fermò nel corridoio e non riuscì più a fare un passo. Si mise una mano sulla bocca, per non fari sentire, si sedette contro il muro e cominciò a piangere, divorata dal rimorso e annebbiata dalla paura per quello che aveva appena fatto.

 Pietro mangiò subito il pezzo di dolce, trovandolo delizioso come pochi. Quello non l'aveva cucinato sua moglie, era il resto di una torta che avevano mangiato il giorno precedente. Però era stata carina a metterglielo nel piatto, visto che lui l'adorava.
 Poi decise di passare alla carne. Quella sì che l'aveva abbrustolita sua moglie, a meno che non avesse costretto la cuoca a svegliarsi anzitempo.
 Il primo pezzo andò giù come niente, ma il secondo era un po' secco, così Pietro afferrò il calice e buttò giù una generosa sorsata.
 Stava per tornare alla carne, quando sentì qualcosa di strano alla gola. Era come se delle mani invisibili gliela stessero stringendo. Gli mancava il fiato, gli lacrimavano gli occhi, stava soffocando...
 Nella gola, però, era certo che non ci fosse nulla... Irrazionalmente provò a bere ancora un sorso di vino, ma la cosa peggiorò solamente.
 Si alzò di scatto dal letto, rovesciando il vassoio, tenendosi la gola, ma non riuscì a fare più di un passo.
 Con un tonfo cadde in terra, gli occhi spalancati e vitrei, il viso congesto e cianotico, le mani ancora strette alla gola come artigli.
 
 Chiara aveva sentito il colpo sordo e aveva capito che era tutto finito. Non tornò nella stanza. Si alzò, lentamente, si asciugò le lacrime e, come in un sogno, raggiunse la sua camera.
 Si mise sotto le coperte e si sforzò di chiudere gli occhi, addirittura di dormire, convincendosi che quello che aveva fatto era giusto e che non c'era altra soluzione possibile.
 Quando un'ora dopo una serva arrivò da lei per darle la terribile notizia che Pietro Dal Verme era morto improvvisamente, probabilmente ingozzandosi con la colazione, Chiara non dovette sforzarsi troppo per apparire disperata e dilaniata dal dolore.

 'E brava la mia nipotina' pensò Ludovico Sforza, quando a Milano arrivò la notizia della morte di Pietro Dal Verme.
 La salma del condottiero era stata subito portata a Voghera e inumata in San Lorenzo, in onore del suo valore umano e militare.
 “Manderemo una lettera a mia nipote – annunciò Ludovico al suo cancelliere – e la inviteremo a stare da noi per qualche tempo, mentre rorganizziamo le terre del marito.”
 “Passeranno ai fratelli di Pietro, giusto?” chiese Bartolomeo Calco.
 Ludovico alzò un sopracciglio: “Credete che sarebbero in grado di governare su quelle terre?” 'Terre ricche, se ben sfruttate e in un'ottima posizione' avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne.
 “Non saprei...” ammise Calco, abbassando lo sguardo.
 “Io dico di no. Meglio per gli abitanti di Zavattarello e di tutti i paesi di Dal Verme passare sotto il nostro diretto controllo. Spiccheremo al più presto un ordine di requisizione e sistemeremo il tutto. Lo stesso varrà per i possedimenti milanesi.” disse in fretta Ludovico, mentre il cancelliere annuiva.
 “Cecilia...” disse poi Ludovico, guardando Cecilia Gallerani, seduta al suo fianco, come fosse sua moglie e non la sua protetta: “Ti piacerebbe il palazzo del Broletto?”

 “Dice che avervi a Milano in questo periodo sarebbe quanto meno irresponsabile.” le aveva detto Oliva, quando gli aveva chiesto quale fosse la risposta di suo zio Ludovico: “Il bambino potrebbe nascere da un momento all'altro e un viaggio così lungo non è auspicabile...”
 Almeno quella volta, si era trovata a pensare Caterina, aveva avuto ragione.
 Era il 18 dicembre, a Forlì faceva molto freddo e nevicava ormai da tre giorni senza posa.
 Caterina era stesa nel letto, preda del travaglio. Con lei stavano due dame di compagnia, la levatrice e il medico, che aveva tanto insistito per essere presente, malgrado la gravidanza fosse filata liscia per tutto il tempo.
 Girolamo non era stato ammesso nella stanza, anzi, nemmeno al piano. Era nel suo studiolo, ben distante, in compagnia di Matteo Menghi e Zaccheo, che gli facevano coraggio e gli facevano di continuo i complimenti, dicendogli che anche quello sarebbe stato un maschio.
 I bambini erano nella loro camera, con le balie, in attesa di conoscere il loro nuovo fratellino. Ottaviano, che aveva già quasi sette anni, si sentiva orgoglioso, di quel nuovo arrivato. Il ruolo di fratello maggiore cominciava a farlo sentire potente e importante.
 Cesare, di cinque anni, lo seguiva come un'ombra, pendendo dalle sue labbra e seguendolo in tutti i giochi che proponeva. Bianca, invece, di un anno più piccola, era comunque capace di ribellarsi ai voleri di Ottaviano, soprattutto quando il fratello cercava di coinvolgerla in qualche guaio.
 Livio, invece, che aveva sì e no quattordici mesi, per il momento preferiva ancora la compagnia della balia a quella dei fratelli.
 Il travaglio fu rapido e Caterina non ne uscì provata come l'ultima volta.
 Nel momento in cui la balia le offrì il nuovo nato, dicendole: “Un altro bel maschio, mia signora!”, Caterina guardò la testolina pelata e ancora sporca del piccolo e, prima ancora di provare per lui innato affetto o curiosità, pensò solo: 'Questo deve essere l'ultimo'.
 “Dite a mio marito – disse, stringendo al petto il neonato – che questo bambino si chiamerà Galeazzo Maria, come mio padre e che lui potrà vederlo domani, quando sia io sia il piccolo saremo più riposati.”
 I presenti si guardarono nervosamente, chiedendosi silenziosamente a chi sarebbe toccato l'ingrato compito di riferire le parole della Contessa al Conte.
 Alla fine, compreso nel suo ruolo, il medico annuì: “Andrò io personalmente.” e uscì dalla stanza, preparandosi alla reazione di Girolamo Riario che di certo sarebbe stata tutt'altro che misurata.

   
 
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