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Autore: ChiaraSerafin22    14/01/2016    0 recensioni
Elvin è uno straniero, un immigrato in un'Italia ostile. La sua vita è scandita tra la casa, la scuola, il lavoro che non si trova. E in tutto questo, la sua amica Alice rappresenta l'unico raggio di sole.
E' un racconto fatto di silenzi, di amicizia, di occasioni, di solitudine, di sorrisi rubati.
> 2° posto Premio Nazionale Leoncini 2010
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il tempo era peggiorato sensibilmente.
La pioggia aveva cominciato a scrosciare in modo quasi casuale, ma continuo, infiltrandosi nei vestiti e inzuppandogli i jeans.
Mentre procedeva a grandi falcate lungo il vialetto del condominio dove abitava, Elvin si preoccupò non poco del fatto che stava annegando nelle proprie scarpe.
Avrebbe dovuto avere altro di cui preoccuparsi: era uscito da quella casa disoccupato e tale era rimasto. Che cosa avrebbe detto a suo padre?
Quando varcò la soglia di casa, l’appartamento era stranamente silenzioso. La sua sorellina Erora, principale fonte di rumori molesti, non c’era di sicuro. Sua madre doveva averla portata con sé a fare la spesa. Suo padre doveva essere al lavoro. E suo fratello…
“Elvin! Sei tu?” La voce di Kodran giungeva dalla loro camera.
“Arrivo” rispose Elvin, mentre si toglieva le scarpe, facendo attenzione a non allagare tutto il pavimento.
Entrò nella propria stanza, e alzò gli occhi al cielo quando la vide preda del più terribile caos che si potesse immaginare: “Che cosa è successo qui?”
Kodran lo guardò col suo migliore sorriso sardonico: “Cercavo la tua giacca, quella nera. La mia ragazza dice che mi dona un sacco.”
“Non potevi aspettarmi, invece di sparpagliare la mia roba ovunque?” gli rispose, dolente, cominciando ad appallottolare le maglie sparse sul pavimento.
“Avevo fretta, Irida sarà qui fra poco e volevo presentarmi bene. Piuttosto, guarda che volevamo stare soli.”
Elvin lo fulminò: “A cosa accidenti ti serviva il giaccone se ve ne state in casa!”
Kodran alzò le spalle, sorridente: “Così, tanto per fare bella figura”. Tornò a farsi brusco: “Comunque dicevo sul serio. Vedi di sloggiare.”
Elvin scrollò la testa. Suo fratello aveva diciotto anni, solo uno più di lui, ma lo trattava come un ragazzino. A ogni modo, non aveva voglia di discutere. Si cambiò frettolosamente la felpa e i calzini e cercò un paio di scarpe che fossero meno permeabili.
Aveva appena finito di allacciarsene una, quando Kodran si corrucciò di colpo: “Come è andato l’appuntamento, a proposito?”
Il ragazzo non lo guardò in faccia: “Non bene.”
“Intendi che ti hanno lasciato a bocca asciutta sbattendoti fuori a calci.”
“Intendo che non è andata bene. Non ero… idoneo.”
Kodran si rizzò in piedi, stringendo i pugni: “Quei razzisti!”
“Ehi, calmati” sbottò Elvin, con una tranquillità affinata in anni di convivenza col fratello.
Raggiunse la porta prima che potesse ricominciare il discorso eterno sulla discriminazione che Kodran si portava ovunque andasse, accusando tutto e tutti con una volgarità che lo nauseava.
Lo calmò con quelle semplici parole, e aggiunse: “Fra poco arriverà Irida, divertitevi.”
Sua madre si era portata via gli unici ombrelli che possedevano, perciò Elvin fu costretto ad affrontare la pioggia e il suo violento picchiettare.
Decise di andare diritto al bar del centro, che da casa sua si raggiungeva in una decina di minuti. Lì sarebbe potuto stare in pace per il resto del pomeriggio.
Si sarebbe sentito fortunato nel caso avesse trovato qualcuno con cui stare, che si sarebbe accontentato anche solo della sua compagnia, per quanto potesse valere.
Il bar non era molto affollato. C’erano sempre le solite persone a occupare i soliti tavoli, e il proprietario che, da dietro il bancone, passava la maggior parte del tempo a pulire perennemente lo stesso sudicio bicchiere, fingendo un’aria indaffarata.
Quando Elvin entrò, non lo degnò di un’occhiata: era talmente abituato a muoversi fra la gente che riconosceva a occhio i clienti. In quel momento, il ragazzo con la zazzera di capelli bruni e dalla provenienza sicuramente non italiana era stato catalogato come “non pagante” o, per usare una delle sue espressioni preferite, “occupante a sbafo di sedie”.
Elvin non si comprava mai da bere. Non aveva denaro da spendere, e se anche lo avesse avuto non lo avrebbe certo fatto finire nelle tasche di quel tizio.
Sentì una mano che si posava sulla sua spalla: “Lo sai che esistono gli ombrelli, Elvin? Il ragazzo che fa il duro e si bagna pur di non usare quegli aggeggi di ferro è passato di moda, credimi.”
L’ombra di un sorriso, il primo della giornata, gli passò sul volto.
“Ah, ti ho fatto ridere! Vedi che, nonostante tutto, sono buona a qualcosa!” Alice gli si sedette accanto fra un risolino e l’altro, appoggiandosi insieme a lui allo scomodo bancone di legno.
Elvin la osservò mentre si sistemava la borsetta sulle ginocchia e i ciuffi dei capelli dietro alle orecchie, tirandosi su di morale per il puro fatto che quella risata era dedicata tutta a lui.
“Che ci fai qui?”
“Potrei farti la stessa domanda” ribatté pronta lei, osservandolo critica da testa a piedi: “Ora so cosa regalarti per il compleanno. Un k-way.”
“Sarebbe una buona idea.”
“Te ne rifilerò uno giallo fosforescente. So quanto detesti quel colore.”
“Che pensiero carino.”
“Grazie.” Risero tutti e due, di cuore. “Dai, Elvin, seriamente. Perché sei uscito con questo tempo?”
Il ragazzo si strinse nelle spalle: “Mio fratello voleva starsene in casa da solo con Irida. Mi ha letteralmente cacciato fuori.”
Alice storse il naso in quel suo modo carino da bambina piccola: “Che prepotente.”
“Non dire così. È fatto a modo suo.”
“Prima o poi gli darò una regolata io. La smetterà subito, credimi” gli strizzò un occhio. “Non prendi niente? Te la offro io una birra, getta via quell’aria imbronciata. Barista, due birre!”
Elvin non tentò nemmeno di protestare. Con Alice non ne valeva la pena, era troppo impegnata a essere se stessa per riflettere su quello che avrebbe fatto o no piacere agli altri. Era spontanea, il dono più bello che Dio le avesse fatto, e la sua genuinità la rendeva speciale come l’unico raggio di sole in una giornata di pioggia.
“Come va la vita, Elvin? È da un sacco che non ci si vede” chiese mentre sorseggiava la birra, che invece il ragazzo non aveva ancora toccato.
“Non bene” rispose lui. Non voleva turbarla con la questione del lavoro, non aveva voglia di rovinarsi ulteriormente l’umore. In quel momento, con Alice vicino, si sentiva quasi in pace.
Lei lo osservava da dietro il boccale dorato. Se aveva intuito qualcosa, non lo dava a vedere. Non fece altre domande.
Rimasero in silenzio, godendo di quell’amicizia a cui non servivano parole.
A un certo punto, la ragazza mise da parte la sua birra e abbracciò Elvin con una disinvoltura che lo sconcertò. Non fece altro, se ne stette semplicemente stretta alle sue spalle fradice, cercando in qualche modo di trasmettergli quello che provava per lui, la comprensione di cui aveva bisogno.
Il barista smise di rimestare nel bicchiere che teneva ancora in mano e li occhieggiò malamente. Alice lo sfidò con lo sguardo: era amico di suo padre, tanto bastava per farglielo detestare. Sempre a mettere il naso in mezzo agli affari degli altri e a controllarla!
I suoi occhi azzurri balenarono e, un attimo dopo, si staccò da Elvin, riprendendo a parlargli come se niente fosse: “Domani vuoi che ci troviamo? Un po’ di svago ti ci vuole, credimi.”
Lui annuì, mesto: “Facciamo colazione assieme, come l’ultima volta?”
“L’ultima volta era ancora estate, Elvin. La mattina ho scuola, te lo sei scordato?”
Non seppe cosa dire. Non andava a scuola da quando aveva compiuto sedici anni. Fra lui e suo fratello, si era deciso che sarebbe stato Kodran a continuare gli studi. “Beh, frequenti anche le lezioni pomeridiane?”
Alice ci pensò un istante: “Domani sì, la mia insegnante di matematica mi ha rifilato delle ore di ripetizioni.” Alzò le spalle e scrollò la testa. “Tu passa a scuola per le cinque. Sarò fuori ad aspettarti, va bene? Me la vedo io con i miei genitori se torno a casa tardi.” Colta da quel pensiero, guardò l’orologio che aveva al polso e scattò in piedi: “A proposito, devo andare. Saranno in pensiero.”
Anche Elvin fece per alzarsi: “Vuoi che ti accompagni?”
Lei gli svolazzò la mano davanti, sorridente: “Grazie, ma non serve. Ci vediamo domani.”
Pagò il barista e riprese l’ombrellino rosa che le era finito sotto l’alto sgabello. Prima di uscire, gli diede una pacca sulla schiena: “Devi ancora finire la tua birra. Vedi di berla tutta, mi raccomando!”
Si allontanò con quella sua strana andatura saltellante, facendo attenzione a evitare i tavolini e dileguandosi poi nel brumoso temporale.
Elvin la osservò mentre sfuggiva poco alla volta dalla sua visuale. La conosceva da quanti anni, ormai? Eppure non avevano smesso di essere amici. E quello era davvero qualcosa di cui essere grati a Dio.
   
 
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