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Autore: gretamustdie    15/01/2016    1 recensioni
Frank vuole solo essere un ragazzo normale.
E' stufo di fingere di avere una famiglia perfetta. Stufo di non essere mai preso in considerazione. Stufo di non avere ambizioni. Stufo, semplicemente, di essere sé stesso.
Convive con la sua apatia, non trovando un senso in ogni azione compia, e si tormenta per il suo sentirsi costantemente fuori posto. Diverso.
Ma un giorno arriva una nuova famiglia nel quartiere e mai penserebbe che, da quel momento in poi, la sua breve esistenza verrà interamente stravolta.
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Dal capitolo cinque:
“Ma come fanno le persone normali a convivere con questo altalenare di umori? Come fanno a preferire il bianco o il nero al piatto grigio? L'apatia inizialmente mi spaventava, ma ho capito che non è poi male se paragonata al resto. Certo, quando assistevo alla felicità altrui un po' mi pesava, ma, si sa, è una cosa labile e rara. Quasi come una cometa: si ripresenta in cielo anche dopo secoli e non fai in tempo a godertela che già si è dissolta lasciando una misera scia che svanirà anch'essa, ma più tardi. Giusto per ricordarti quanto fosse stato bello prima del ritorno al buio.”
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[Il rating può subire variazioni.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bob Bryar, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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ANGOLO DELL'AUTRICE [strana]

Bonsoir, mes amis!
Sono qui. Sono tornata. E sono viva, cosa più importante.
Nell'ultima settimana “pace” è stata una parola mistica e distante. Tra progetti di grafica, studio, presentazioni, preparativi per diciottesimi imminenti, programmi al computer che non funzionavano e, soprattutto, la password dell'account di Efp dimenticata. Quanto sono rintronata da uno a me stessa?
AnyIero, il capitolo l'ho riletto più volte e ho apportato varie modifiche alla struttura come consigliatomi da un'utente nelle recensioni e, a tal proposito, ci tengo ringraziarla di cuore. Ma avrò modo di farlo appena postato il capitolo, quando risponderò ai vostri commenti. Mi ha fatto molto piacere leggerli.
Un grazie immenso a chi ha messo la storia fra le preferite, le seguite e le ricordate!
Fatemi sapere cosa ne pensate del nuovo capitolo.

Greta

 

 

CHAPTER THREE

Sedici anni

 

 

Suona la campanella ed un gregge di pecoroni sciama verso l’uscita della stanza, io, dal mio canto, sto finendo di annotare in fretta e furia le ultime nozioni scritte dalla professoressa alla lavagna prima che vengano cancellate e perda dei passaggi dello schema illustrato. Non appena finito, rimuovo ogni mio oggetto dal banco e lo inserisco all’interno dello zaino. Apro la tasca anteriore ed estraggo il pranzo per poi poggiarlo sopra il ripiano.

“Come sempre, Iero?”, chiede Mrs. Stewart facendomi alzare lo sguardo.

Annuisco sommessamente e lascia, dunque, un mazzo di chiavi sopra il tavolo per poi defilarsi anche lei. Apro la ruvida busta marroncina e prendo fra le mani il mio sandwich con pomodorini ed insalata, lo osservo per alcuni secondi soddisfatto e lo addento affamato.

Non mi piace pranzare in mensa. Non perché soffra d’ansia sociale o altro, semplicemente quella cosa che servono e chiamano impropriamente cibo mi fa altamente cagare e quando mangio mi piace stare tranquillo, non circondato dalla confusione. Per questo è dal primo anno che consumo i miei pasti all’interno di quest’aula e l’insegnante, conoscendomi ormai bene, mi lascia sempre le chiavi per chiuderla. Si fida, in un certo senso.

“Il pranzo del campione, eh?”.

Sorrido nel riconoscere la voce del mio migliore amico prima ancora di voltarmi verso la porta.

“Tu non dovresti essere in mensa con l’altro schifoso?”.

Ridacchia mentre mi raggiunge, sistema una sedia dal lato opposto del banco e si siede.

“Sei parecchio acidello nei confronti di qualcuno che ha fatto un’opera di bene scegliendo di digiunare per farti compagnia”. Scuoto il capo.

“Dovresti mangiare”.

“Che sei mia madre, Frank? Seriamente, delle volte sembri un quarantenne nascosto dentro il corpo di un adolescente”.

Scrollo le spalle continuando a dare morsi al mio panino e a deglutire.

Voglia di vivere, saltami addosso. Ho capito”, continua.

Svito il tappo di una bottiglietta d’acqua naturale e ne bevo un sorso.

“Non hai ancora risposto alla mia domanda”, puntualizzo.

“Cioè?”.

“Dov’è Bob?”.

“In mensa con Mikes, perché?”.

Mikes? Mi-Mikes? Si conoscono da appena sei giorni e già hanno sfondato tutte le barriere. Io ci metto ere geologiche per prendermi confidenze con chiunque, ma Ray è Ray. Lui ha il dono della buona impressione. Certo, è classificato fra gli pseudo sfigati, ma non ho mai trovato nessuno che pensasse qualcosa di negativo su di lui a primo impatto. Infonde simpatia grazie ai suoi ricci disordinati e al suo modo di essere molto alla mano. Io non so che impressione faccia alla gente e nemmeno lo voglio sapere perché temo di rimanerci male. Il parere altrui mi fa male. Come alle medie. “Ci avevo proprio visto bene quando vedendoti in faccia ho pensato: ‘Questo è proprio un finocchio’”. Scrollo via i ricordi di dosso come fossero una doccia gelata, ed effettivamente lo sono, per tornare a posare la mia attenzione sull’afro di fronte a me.

“Lo sapevo che non l’avresti lasciato da solo”.

“Sono una persona corretta”, ribatte scherzosamente.

“Talmente corretta da lasciarmi solo ogni pausa pranzo”. Inarca un sopracciglio.

“Ah, ora ti lamenti perché non sto con te durante la pausa? Tre secondi fa non avrei mai detto ci tenessi così tanto”.

Alzo leggermente un angolo della bocca, poi gli porgo il sandwich facendogli intendere che ho intenzione di condividerlo con lui. Lo rifiuta con un gesto della mano.

“Nah, non mangio queste cose da capre”.

Ingurgito ciò che rimane del panino in un sol boccone e, con la bocca ancora ancora piena, dico: “Come vuoi, volevo solo che mettessi qualcosa nello stomaco”.

“Tranquillo, prenderò qualcosa alle macchinette prima di andare in classe e mangerò durante la lezione. Tanto il professore di storia americana non si accorge mai di nulla. Ho fatto le migliori ripassate ed anche ottime mangiate durante le sue ore in questi tre anni”. Ridacchio.

Lo ammetto: lo ammiro un sacco. Prende alla leggera qualsiasi aspetto della vita e tante volte desidero essere come lui. Sempre positivo, allegro, gioviale. Anche lui ha i suoi problemi, com’è normale che sia, ma non li fa trasparire né tanto meno pesare agli altri. Io non sono in grado di far finta che tutto vada bene quando invece va di merda e tutto ciò mi riporta, come sempre, alla mia famiglia. Fingere, fingere, fingere. Odio farlo. Eppure in quella casa è un’arte a cui ci hanno ammaestrati fin da piccoli. E mi faccio schifo ad ammettere che, nonostante tutto, quei due siano riusciti a rendermi un eccellente bugiardo. Sono sempre stato per la verità, ma, in molti casi, le bugie sono più facili da dire. Sono la via d’uscita più semplice per schivare determinati argomenti o, almeno, io uso le menzogne a questo scopo.

“Senti, Frank… ammetto che c’è un motivo, se sono venuto qui”.

Piego le labbra in una smorfia strana. Cosa vorrà dirmi?

“Il tuo compleanno sarà tra due giorni e…”.

“Non mi avete ancora preso un regalo?”, azzardo. Scuote il capo.

“No, no. Non è questo. Vedi… io e Bob pensavamo che quest’anno potremmo fare qualcosa di diverso, ecco”. Corrugo la fronte.

“Diverso in che senso?”.

Si tortura le mani facendo scricchiolare le ossa delle dita visibilmente nervoso.

“Farai sedici anni, no? I mitici sedici…”, mima agitando le braccia in aria con fare festoso. “…e tu hai una fortuna immensa, ossia compierli il giorno di Halloween. Dunque l’altro ieri in mensa abbiamo preso in considerazione l’idea di andare ad una festa vera, per una volta…”.

“Festa vera?”, ribatto con stizza.

Che c’è? Non si sono mai lamentati di come celebro il mio compleanno ed ora vengono a fare i ragazzi maturi venendomi a dire che preferiscono qualcosa di più serio?

“Pensavo vi divertiste alle mie feste”.

“Ma noi ci divertiamo!”, esclama sulla difensiva. “E’ solo che Ash Newton darà una festa che si dice sarà probabilmente la cosa più epica che avremo la possibilità di vedere in questa decade ed ha invitato pure noi. Noi quattro, capisci? Ha invitato pure te!”, mi indica come fosse un evento di proporzioni titaniche.

E in effetti lo è.

“Hai presente, poi, dove vivono gli Newton, no? Hanno una casa che pare quasi una villa. Sono ricchi da far schifo, Frank”.

Accartoccio la busta nella quale vi era il pranzo e bevo un altro po’ d’acqua. Ray mi fissa con aspettativa, si è creato quella sorta di silenzio imbarazzante che segue un discorso sgradito all’interlocutore. Poggio la bottiglietta non curandomi del mio amico che non stacca gli occhi da me e dai miei movimenti.

“Allora?”, decide di pressare.

Incrocio il suo sguardo e sul mio volto faccio comparire un largo sorriso, ricambia ed il suo viso si tinge di entusiasmo.

Fa per dire qualcosa, ma lo precedo: “Allora no, Ray”.

Okay, forse sono stato ‘leggermente’ stronzo a dargli false speranze, ma non se ne parla proprio. A quella specie di raduno di gentaglia con un Q.I. inferiore ad un tubero non ci vado neanche se pagato.

“Eh dai!”.

“Se pensi che il conto in banca degli Newton serva a farmi cambiare idea, ti sbagli”. Sbuffa rumorosamente.

“Ci divertiremo, vedrai. Per favore, Frank”, piagnucola.

Prendo la spazzatura da sopra il banco e mi dirigo verso il cestino per gettarla, mi volto verso l’afro che mi guarda con una faccia da cane bastonato.

“Senti, Ray: sono sempre quello che deve subire le scelte della maggioranza, ossia tu e Bob. Non ho quasi mai voce in capitolo su un cazzo di niente e l’unica volta in cui posso decidere qualcosa perché, di fatto, si celebra il mio di compleanno…”, calco l’aggettivo possessivo per sottolineare meglio il concetto. “...mi private di questa possibilità. Non capisco cosa non vi piaccia delle feste che abbiamo sempre fatto, davvero. Non mi pareva vi facessero così cagare. Se ci tenete così tanto ad andare a quello schifo di festa va bene, ma andateci voi. Io starò a casa, a guardarmi un buon vecchio film horror e a rovinarmi i denti con dei marshmallow a forma di zucca”.

Si alza di scatto dalla sedia e mi viene incontro.

“No! Senza di te non si va da nessuna parte, hai capito? Mettitelo bene in quella testolina autocommiseratrice”.

Picchietta l’indice contro la mia fronte.

“Non permetterei mai che il mio migliore amico passi il giorno del suo compleanno da solo”.

“Allora provvedete a rivedere i vostri programmi per sabato sera”, rispondo rimanendo sulla mia posizione.

Posa le mani sulle mie spalle e punta i suoi occhi nocciola contro i miei.

“Mi spiace se ti senti così messo da parte nelle decisioni che prendiamo, mi spiace veramente. Non intendevamo in alcun modo offenderti con questa proposta, sapevamo che l’avresti disdegnata ma pensavamo avresti capito”.

Eccoli, puntuali come sempre: i sensi di colpa. Dovrei smetterla di fare la ragazzina mestruata ad ogni idea dei miei amici? Di solito alla fine mi arrendo, ma prima non mancano le lamentele cariche di dissenso. Sospiro con le spalle al muro, letteralmente. Ho la schiena poggiata contro la parete.

“A che ora è la festa?”.

Il riccioluto spalanca la bocca e mi abbraccia di slancio, ma, nonostante i secoli di conoscenza, m’irrigidisco repentinamente come fossi una trave di legno. Scioglie subito l’abbraccio ed in modo consapevole afferma: “Contatto fisico, a volte lo dimentico”.

“Vedi di ricordarlo la prossima volta”.

Vado oltre la sua figura e recupero lo zaino dal mio banco.

“Comunque non era un sì, volevo solam…”.

“Ti prometto che faremo più attività che piacciono a te se verrai!”, urla facendosi quasi sentire in corridoio.

Stringo la bretella della cartella e lo scruto pensieroso. Sembrano davvero tenerci a questa stupida festa.

“E va bene”, pronuncio sommessamente.

“Lo sapevo che avresti accettato alla fine! Sei sempre il migliore, Frank!”.

Saltella verso di me e mi dà una sobria pacca sulla spalla, il massimo che tollero in pratica.

“Già”.

Sorrido falsamente ed afferro il mazzo di chiavi sulla cattedra, usciamo dall’aula e chiudo la porta dietro di me. Per l’ennesima volta ho sacrificato la mia felicità per quella degli altri, quanto durerà ancora? Ogni tanto mi piacerebbe fossero anche gli altri a fare sacrifici per me. Troverò mai una persona in grado di arrivare a tal punto? Probabilmente no. Sono troppo insignificante, troppo accondiscendente, troppo me. So già che me ne pentirò, me lo sento.

 

Apro le palpebre lentamente, ma vorrebbero tornare a stare chiuse e continuare a dormire beatamente. Uno spiraglio di luce mi costringe a sbatterle per poter mettere a fuoco il luogo in cui mi trovo: la mia stanza. Sento un peso oltre al mio gravare sul materasso, dunque alzo leggermente il busto tenendomi poggiato sui gomiti per vedere di chi si tratti.

Alex è seduta ai piedi del letto con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.

“Auguri fratellone!”, grida e mi si getta addosso facendomi tornare alla posizione precedente.

“Uhm… hey, grazie”.

Avvolge le sue esili braccia attorno al mio busto e si accoccola contro il mio petto. Mi sento parecchio una merda perché non riesco a ricambiare con trasporto. Questa ragazzina ha bisogno d’affetto, decisamente. Affetto che non so dare, purtroppo. Non dovrebbero essere i genitori quelli adibiti a questo compito? Ah, giusto: noi è come non avessimo dei genitori.

“Potresti alzarti, Alex?”.

Cade dalle nuvole e si ricorda che non sono amante del contatto fisico, quindi torna seduta rapidamente.

“Scusami”, mormora imbarazzata.

“Tranquilla”.

Mi metto a sedere anch’io e mi passo le mani sugli occhi ancora assonnati. Ammetto che, nonostante tutto, un po’ mi piace ricevere questo tipo di attenzioni, anche se sono da parte della mia sorellina rompiscatole. Ci sputiamo veleno per trecentosessantatré giorni all’anno per poi dimostrarci un briciolo di sentimento nei nostri rispettivi compleanni, ma va bene così. Il rapporto fraterno funziona in questo modo. Una fitta allo stomaco m’investe quando la mia mente mi porta a Paula.

Non verrà. Lo so che non verrà.

Allungo la mano verso il comodino per verificare se qualche buon’anima si è ricordata della mia esistenza almeno per una frazione di secondo, il tempo di digitare un messaggio e premere ‘invio’. Cinque messaggi. Assumo un’espressione piacevolmente stupita, è tipo il record di sempre.

Noto che Alex si sporge per poter curiosare e tolgo il cellulare dalla sua visuale.

“Inizia per ‘pi’…”.

“… e finisce per ‘rivacy’. Okay, scusa”.

“Brava, vedo che se attivi quei due neuroni che ti ritrovi, riesci a ricordare ciò che ti ripeto fino allo stremo”.

“Antipatico”, bofonchia.

Mi fa la linguaccia e si mette in piedi.

“Ti aspetto di sotto per darti il regalo, mi trovi sul divano a guardare la tv”.

Le mostro il pollice alzato e se ne va lasciandomi finalmente solo. Vanno bene le attenzioni, ma, com’è risaputo, non sono stato cresciuto in mezzo ad esse e di conseguenza alla lunga m’infastidiscono.

Torno a fare ciò che stavo facendo ed apro le conversazioni partendo dalla più recente, risalente ad una decina di minuti fa: Mikey. Sì, Mikey Way: il vicino di casa strano. Però è simpatico, lo devo riconoscere.

“Sono sveglio da tipo due ore e solo ora ho realizzato che è il trentuno ottobre. So che ci conosciamo da poco, ma ci tenevo ad augurarti buon compleanno. Ci si vede stasera”.

Risponderò a tutti più tardi, ho deciso. Per ora mi limiterò solo a leggere.

“Tantissimi auguri al nostro piccolo Frank! Speriamo di riuscire a passare da voi per Natale”.

Zia Pamela, la sorella gemella di mia madre. Una delle persone più carine del mondo nei miei confronti e l’unica parente per la quale non sono invisibile.

“Sono andata a dormire ieri sera pensandoti. Questa giornata la dedicherò come sempre a te, perché non è solamente una festa macabra in cui ci si agghinda per sembrare il più brutti possibile. Oggi è il tuo sedicesimo compleanno. Stai diventando grande, ormai. Mi spiace non essere a casa anche questa volta, ma fra meno di un mese ci vedremo. Il regalo te l’ho spedito per posta, mi auguro che arrivi puntuale o, in caso contrario, sappi che arriverà fra qualche giorno. Anche Kyle ti manda dei calorosi auguri. Spero che questa volta risponderai, ti voglio bene”.

Fisso il display con la mascella serrata mentre il dolore di prima ritorna. Sarà uno sforzo destarmi dal farlo, ma a questo non arriverà alcuna risposta.

“Il mio nano da giardino preferito oggi entra ufficialmente nel magico mondo dei sedicenni! Buon compleanno, stupido. P.S. Stasera voglio vederti sbronzo, hai capito? Sbron-zo”.

Soffoco una risata e guardo l’orario d’invio: le tre e mezza del mattino. Bob non cambierà mai.

“Tantissimi grossi e grassi auguri a Mister Frank Anthony Thomas Iero Pricolo Junior. Dio, sei peggio dei calciatori brasiliani! No, seriamente: sono tredici anni che ti sopporto e che mi sopporti a tua volta. E sono veramente onorato di essere arrivato fin qua al tuo fianco, sei la miglior persona che conosca (non dirlo a Bob) e davvero meriti il meglio del meglio. Buon compleanno, sfigato”.

Sorrido come sempre, del resto, di fronte ai messaggi che mi dedica Ray ogni anno. Gli voglio davvero bene, anche se non glielo paleso quasi mai.

Ripongo il cellulare dov’era per poi alzarmi ed infilarmi un paio di jeans gettato a terra la sera prima. Non sono esattamente un tipo ordinato. La maglia non la cambio, tanto di solito dormo con una t-shirt di qualche band e i boxer. Non comprendo le persone che vanno a letto in pigiama, la trovo una tortura quasi ai livelli di quelle medievali. Mi sento vincolato, stretto, fasciato e la notte voglio solamente che le mie membra respirino. Mi passo una mano fra i capelli illudendomi che possa migliorare il mio aspetto, m’infilo le pantofole o, meglio, il bellissimo dono di qualche Natale fa, ed esco dalla camera per scendere al piano sottostante.

Alex è seduta a gambe incrociate sul divano mentre guarda il televisore e regge una ciotola di cereali disgustosi alla vista. Sono degli anelli di tutti i colori che, una volta sciolti nel latte, si riducono ad una melmaglia indistinta la quale ricorda vagamente il vomito di un unicorno. Ma non sono così male, almeno per quanto riguarda il sapore. Quando non c’è nulla di meglio da consumare, vanno bene anche quelli. Tanto a mia madre cose le importa delle nostre preferenze? Chiunque predilige una marca, un gusto o un tipo particolare di cereali. Per mamma non ha importanza: una confezione vale l’altra. Delle volte si dimentica addirittura del fatto che sono vegetariano, da ben un anno e mezzo, e per cena mi schiaffa nel piatto una bistecca grondante di sangue. Quelli sono gli unici casi in cui polemizzo su ciò che mi viene servito. Forse se fossi allergico a qualcosa farebbe attenzione prima di acquistare del cibo, ma la natura ha pensato bene di non farmi avere intolleranze. Magari se avessi un’allergia mi considererebbero di più, i miei genitori. Ma a cosa cazzo sono arrivato a pensare? Mi siedo svogliatamente nel posto accanto a mia sorella.

“Mamma è in cucina se te lo stessi chiedendo”, mi comunica portandosi in bocca una cucchiaiata senza staccare gli occhi da una stupida serie tv per ragazzine preadolescenti.

“Okay”.

Getto la testa all’indietro e poggio il collo sullo schienale fissando il soffitto che dovrebbe esser bianco, ma col passare del tempo ha assunto una tinta color crema.

“E papà è via questo weekend”.

Sbuffo, ma non dalla noia. Sbuffo perché me l’aspettavo.

“Ha delle commissioni di lavoro da sbrigare”. Mi scappa un risolino.

“A quanto pare abbiamo un imprenditore in casa e manco lo sapevamo”, sputo sarcastico.

“Frank…”, mi ammonisce.

Dal suo tono, però, traspare la consapevolezza che quello a cui mi riferisco sia vero. Nostro padre è semplicemente un ragioniere di un’industria chimica a Newark, eppure il fine settimana spesso sparisce per poi ritornare la domenica sera. Alex crede davvero sia a causa del lavoro. Delle volte muoio dalla voglia di renderla partecipe di tutto ciò, così da avere qualcun altro dalla mia parte e in modo che capisca quanto la nostra famiglia faccia realmente schifo. Sicuramente la smetterebbe di difendere inutilmente mamma e papà ogni qualvolta ne parli male. Ma non voglio rovinarle la magia ancora una volta, non come con Babbo Natale. Sarà lei a scoprirlo oppure sarebbe meglio che chi di dovere faccia il punto della situazione e decida finalmente di parlargliene.

Con me hanno fatto tre anni fa, ma solo perché ho sorpreso nostro padre assieme alla sua… amante? Compagna? Credo che compagna sia la migliore definizione, tanto i nostri genitori è come se non fossero più sposati ormai. Perché i ragazzi che ce li hanno divorziati osano lamentarsi? Certo, posso comprendere il dolore iniziale e la scocciatura di oscillare di abitazione in abitazione, ma sarà sempre meglio che avere due cretini in casa che a stento si rivolgono la parola. Sogno il divorzio fra i miei dalla terza media. Perché gli adulti sono così idioti? Cosa pensano di combinare portando avanti una farsa? Mi passo le dita negli occhi già esausto, i pensieri sono talmente pesanti da farmi venir voglia di ritornare di sopra e dormire tutto il giorno. E al diavolo il mio compleanno e pure Halloween.

“Vado di là a mangiare qualcosa”.

“E il regalo?”, scatta subito la piccola.

“Me lo darai dopo. Tutto si apprezza di più a stomaco pieno, ricordalo”.

Mi metto in piedi e vado verso la cucina.

“Sei il filosofo dei poveri”, mi punzecchia.

Per tutta risposta mi volto all’indietro, le rivolgo un dito medio e proseguo. Arrivato nell’altra stanza, trovo mia madre seduta sul tavolo intenta a sorseggiare del caffè nero mentre legge una rivista. Che vita noiosa, quella delle casalinghe.

“Buongiorno Junior”, dice senza nemmeno distogliere lo sguardo da dov’è catalizzata la sua attenzione.

“ ‘Giorno”.

Prendo una scodella dal ripiano che sovrasta il lavabo, apro il frigo e mi verso del latte freddo. Dopodiché lo richiudo, frugo nella dispensa e mi arrendo al fatto che dovrò mandare giù i cereali dall’aspetto rivoltante che avevo visto mangiare da mia sorella poco fa. Quando tutto è pronto, mi accomodo di fronte a mamma e comincio a far colazione in religioso silenzio. Noto che la sua mano si allunga trascinando con sé qualcosa, osservo meglio ed è una busta. La solita busta.

“Tanti auguri, Junior”.

Sorrido falsamente. Voglio indovinare... soldi? E’ da cinque anni che mi regalano la bellezza di trenta dollari. Né un centesimo in più, né uno in meno. Però non mi lamento, mi potrebbe capitare qualcosa di molto peggio. Tipo pantofole. Strappo la busta, rovisto all’interno e vi trovo una banconota da cinquanta.

“Quest’anno vi siete sprecati”, commento ironico.

Lo so, lo so: a caval donato non si guarda in bocca. Ed il denaro è una cosa che torna sempre utile. E’ solo che, secondo me, sono un regalo freddo e privo di sentimento. Mi sa tanto da ‘Hey, non abbiamo voglia di pensare a che regalo farti! Eccoti dei soldi, comprati ciò che vuoi e fai il bravo’. Li metterò da parte per l’auto che, facendo qualche veloce calcolo, potrò permettermi circa per il terzo anno del college. Avevo pure fantasticato sul fatto che mi donassero una macchina o, almeno, il corso per la patente, ma no. Sarebbe bastato anche solo un plettro. Sarebbe stato un segno che non è vero che a loro non importa nulla di me e che, forse, sono al corrente di cosa mi piaccia o meno.

Ho troppe aspettative da persone dalle quali non bisogna aspettarsi mai niente.

Fa per ribattere, ma la interrompo: “Puoi riferire a quel sant’uomo di mio padre che è riconosciuto il suo duro impegno nel lavoro, ma che potrebbe essersene sbattuto per una volta di suo figlio?”.

Sospira e si sistema nervosamente lo chignonne sulla sommità del capo.

“Junior, non è così semplice come credi…”.

Oh, invece è semplicissimo.

In un certo senso sono contento che non ci sia lui in giro per casa. Anche se sta sempre barricato nel suo studio personale, sento la sua presenza gravare sulle mie spalle. Quando è fuori colgo la palla al balzo per parlarle, che comunque è una persona più trattabile di quel vecchio stempiato. Mi chiedo come abbia fatto a trovarsi un’altra donna, davvero.

“Perché non glielo dite e basta”, sussurro facendo però intuire l’esasperazione nel mio tono. Sia mai che Alex riesca a sentire la conversazione.

“Sono cose da grandi, non dovresti immischiarti”.

Roteo gli occhi ed ingurgito svogliatamente il contenuto della ciotola.

“E quando sarò abbastanza grande per poter dire come la penso?”.

Chiude il magazine e lo poggia sul ripiano, poi incrocia le braccia al petto.

“So già come la pensi senza che tu me lo faccia presente”.

Serro la mano libera in un pugno.

“No, tu non lo sai”.

“Non lo so per certo, ma immagino”.

Sto per punirla ancora una volta col mio sarcasmo, ma mi precede: “Delle volte è meglio limitarsi ad immaginare che sapere con certezza”.

Dall’affievolimento della sua voce mi pare di cogliere una sfumatura di malinconia mista a delusione. Mi soffermo un secondo a squadrare il volto della donna che convenzionalmente chiamo ‘madre’ da una vita intera: ha il viso appuntito, gli occhi grandi e verdi con la pupilla contornata di nocciola ed i capelli biondi con qualche sprazzo di bianco segno dell’età che sta avanzando. E’ invecchiata molto in pochi anni, ma sarebbe ancora una bella donna se si sistemasse.

Mi rendo conto di quanto mi somigli e storco la bocca quasi disgustato. Pensavo di essere la pecora nera della famiglia e di non avere legami con essa. Sono arrivato addirittura alla teoria dell’adozione. Invece no, sono figlio loro. Sangue del loro sangue, indissolubilmente.

Mi alzo dalla sedia, afferro la scodella mezza piena e rovescio il contenuto nel cestino. Ho perso il poco appetito che avevo.

“Come mai non hai finito la colazione?”, chiede, stranamente, con una punta di preoccupazione.

“Non avevo fame e stavo mangiando per forza. Poi voglio anche vedere cosa mi ha regalato Alex”.

Prendo la mia busta e, con un enorme sforzo, dico: “Comunque grazie, almeno tu sei qui”.

Mi sorride sinceramente sussurrando un “Prego” mentre torno nella stanza accanto.

“Sei qui!”, pigola mia sorella allegra.

Devo farmi dare un corso di positività da lei, decisamente. Mi accomodo al suo fianco, sempre a debita distanza affinché i nostri corpi non si sfiorino, e congiungo le mani poggiandomi coi gomiti alle ginocchia.

“Non serviva tanto disturbo, comunque”.

E’ la prima volta che ha deciso di farmi un dono per il mio compleanno. Da un lato sono veramente convinto che una ragazzina di soli undici anni non debba scomodarsi così per me, dall’altro sono felice che abbia anche solo pensato di farmi un presente. E, nonostante sappia già che valga meno, lo apprezzerò sicuramente di più dei cinquanta dollari.

“Come no? Ti odio, ma sei mio fratello!”, dice come sia la cosa più ovvia del mondo ed alzo un angolo della bocca quasi intenerito.

Si mette in piedi e raggiunge il mobile a lato del divano. Non ha uno scopo ben preciso, dentro c’è di tutto e di più. Quello che non ci sta da nessun’altra parte della casa, praticamente. Apre un’anta ed estrae un pacchetto, poi la richiude. Raggiante, me lo porge, lo afferro e lo scruto curioso. L’ha incartato da sola, non c’è ombra di dubbio. Scotch attaccato in ogni dove, ritagli irregolari e fiocco schiacciato. E’ buffo, ma carino come gesto.

“Lo apri?”, domanda impaziente di scoprire la mia reazione.

Annuisco e strappo la carta senza badarci più di tanto. Mano a mano che la rimuovo riesco a scoprire gli oggetti che avvolgeva.

“Un quaderno e… una penna, wow”.

Aggrotto la fronte mentre fisso ciò che ho dinnanzi, poi alzo il capo facendo incrociare i nostri sguardi. Non voglio sembrarle ingrato.

“Certe cose sono sempre utili, no? Non si ha mai abbastanza quaderni e penne”.

Alex scoppia a ridere e questo suo atteggiamento mi confonde.

“Beh, hai ragione. Anche se non è proprio un quaderno qualsiasi”.

“Cosa intendi dire?”.

“Scoprilo tu stesso”, mi esorta.

Sfoglio rapidamente il quaderno e noto con piacere che le pagine sono composte da righe, ma non sono comuni. Bensì esse vanno a formare dei pentagrammi. Sorrido mostrando perfino la dentatura, evento più unico che raro.

“Oh, davvero... non so come…”.

“Ti sento ogni sera prima di cena suonare, non credere che a volte non mi fermi ad ascoltarti fuori dalla porta. Penso tu sia abbastanza bravo da comporre qualcosa di tuo, anche se suppongo tu lo faccia già. In tal caso, penso che sia giunto il momento di riportare ciò che crei, giusto?”.

Con le labbra schiuse dallo stupore e le dita ancorate attorno al regalo riesco solo a ripetere un “Giusto” debolmente. Do un’ultima occhiata al quaderno e a quella semplice penna nera a sfera, poi, riconoscente, la ringrazio. La spesa totale sarà di al massimo tre dollari, nemmeno un decimo della somma di denaro datami dai miei genitori, però il valore che possiede a livello umano è infinitamente maggiore. Qualcuno è al corrente di ciò che mi appassiona. Qualcuno mi considera. Qualcuno si preoccupa di capire cosa possa piacermi o meno. E quel qualcuno è, sorprendentemente, mia sorella minore.

 

Hanno il coraggio di chiamarla musica? Davvero? Immaginavo avrebbe fatto schifo, ma non così tanto. Potevano almeno prepararmi psicologicamente a questo trauma, a questo stupro dei miei timpani. L’avessi saputo mi sarei portato i tappi per le orecchie, quelli che mettevo da bambino quando non volevo sentire mia madre e mio padre litigare. Non ho la forza di credere che non esista una canzone che contenga più di due suoni o che non somigli maledettamente a quella precedente, così come a quella seguente e a tutte le altre che ho sentito finora. Questo è diventato ufficialmente il compleanno peggiore della storia dei compleanni. E di brutti ce ne sono stati, ma mai come questa… cosa. Non so nemmeno affibbiare un nome a questa schifezza.

Eppure la giornata era cominciata in maniera decente grazie al bel regalo di mia sorella e nutrivo persino della aspettative, ero quasi positivo. I miei amici sono passati a prendermi a sorpresa un’ora prima di quanto stabilito trovandomi, ovviamente, vestito com’ero dalla mattina a mangiare schifezze davanti al televisore assieme ad Alex. Perché, ovviamente, non comincio mai a prepararmi minimo cinque minuti prima di uscire. Avevano progettato tutto, comunque, in modo da riuscire a darmi il regalo ed assicurarsi che non avessi cambiato identità e non fossi fuggito all’estero per poter evitare la festa da Newton. L’idea era allettante, però. Mi piacerebbe andare in Messico. Non avevo detto nulla a mia madre nei giorni precedenti ed effettivamente è rimasta stupita nello scoprire all’arrivo di Ray, Bob e Mikey che non si sarebbero fermati a passare il compleanno da me. Se loro avevano pensato di presentarsi in anticipo, io avevo deciso di non dire nulla in merito ai miei. Nel profondo speravo che, così facendo, mamma s’incazzasse e mi punisse facendomi restare a casa. Nulla di tutto ciò. Ha sorriso della faccenda ed ha iniziato a chiacchierare col mio migliore amico del più e del meno tranquillamente, visto che quel ragazzo è una presenza costante fra le nostre mura fin dall’asilo. Quindi sono stato costretto a prepararmi e ad andare a questa inutile festa.

Ed ora eccomi qua: appoggiato alla ringhiera di un terrazzo a guardare le luci notturne di Belleville mentre sorseggio un po’ di punch. Quei rumori ammassati a casaccio che spacciano per musica si sentono da qui fuori, anche se in modo più attutito. Sono pure uno dei pochi cazzoni a non essersi mascherato. Speravo di mantenere un basso profilo avendo un aspetto sobrio, invece do nell’occhio appunto perché non sono travestito.

Cazzo. Amo Halloween, ma lo odio al tempo stesso. Il mio compleanno passa sempre in secondo piano per colpa di questa festività, ma pensandoci bene: quando mai sono messo in primo piano dagli altri?

Sospiro e rigiro fra le mie mani il bicchiere fissando il liquido rosso vorticare al suo interno. Chissà dove sono gli altri in questo momento. Se la staranno sicuramente spassando un mondo, in fondo era quello che volevano, no? Comportarsi come adolescenti normali. Per quanto anch’io lo voglia, so che non riuscirò mai ad essere come loro. Va contro ciò che sono. Dubito mi sarei divertito lo stesso in loro compagnia se non mi fossi dileguato di nascosto. Non che adesso sia tanto meglio, eh? Ma almeno sono in un posto tranquillo.

Improvvisamente sento la porta aprirsi e chiudersi alle mie spalle, ma non vi presto attenzione. Chiunque sia non m’interessa. Con la vista periferica noto che la persona in questione si è appostata poco distante da me, anche lei sulla ringhiera. Sorseggia qualcosa, probabilmente la mia stessa bevanda, ed emette un verso disgustato. Dalla voce capisco che è una donna.

“Questa roba fa schifo”.

Jamia.

Alzo la testa per guardarla e si volta, dunque, in mia direzione.

“Ciao Frank”.

Le rivolgo un cenno col capo per ricambiare il saluto. Ha i capelli cortissimi sparsi in tutte le direzioni, il viso truccato da scheletro ed ha indosso dei semplici vestiti neri. Almeno lei qualcosa l’ha fatto per questa festa.

“Non trovi anche tu che questa cosa faccia alquanto schifo?”, mi chiede.

Ci metto alcuni secondi per rispondere mentre mi osserva con aspettativa, poi dico solamente: “Abbastanza”.

Non perché sia agitato nell’averla di fronte a me, piuttosto non riesco a non pensare al fatto che questa sia la nostra prima conversazione vera e propria.

“Anche la festa fa schifo”, aggiungo per non sembrare scortese.

Mi sorride, probabilmente sollevata dal fatto che abbia pronunciato almeno una frase.

“Già. Mi aspettavo di più, francamente, da Ash Newton”.

Annuisco e torno a fissare l’orizzonte. Da fuori parrò sicuramente imbarazzato in quest’istante, la verità è che non sono loquace con chi conosco poco.

“Io mi aspettavo solo merda da questa festa”.

“E allora perché ci sei venuto se sapevi che non ti sarebbe piaciuta?”.

Non so se sia solo un’impressione mia, ma per porre questo quesito utilizza un tono speranzoso. Per quale motivo non si sa.

“Mi hanno costretto”, rispondo piatto scrollando le spalle.

“Ah”.

Un silenzio imbarazzante cala fra noi. Uno di quelli estremamente disagevoli perché si creano con una persona sconosciuta a cui non sai di cosa parlare.

“Beh, io ritorno dentro a vedere se riesco a recuperare Hannah. Tu che fai?”.

Estraggo il cellulare dalla tasca: le dieci e mezza. E' perfetto.

“Torno a casa”.

“Cosa?”, gracchia.

“Hai capito bene: torno a casa”.

“Come hai intenzione di tornare?”, domanda sinceramente preoccupata.

“A piedi”.

“Sei serio? Vuoi che ti accom…”.

“No”, la liquido con un gesto della mano. “So cavarmela da solo, tranquilla. Grazie lo stesso”.

Mi dirigo verso la porta in vetro prima di lei e poggio il bicchiere semipieno sul davanzale di una finestra, poi rientro in quel covo che avevo abbandonato in precedenza con tanto piacere. Non le ho accennato del mio compleanno, né tanto meno che voglio tornare a casa per godermi quel poco che mi rimane di questa giornata come Dio comanda. Ma è meglio così. Si sarebbe preoccupata ulteriormente e, sarò stronzo, ma l’ultima cosa che desidero è stare in un angolo a lamentarmi con Jamia Nestor. Ora non mi resta altro che farmi circa venti minuti di camminata e festeggiare il mio sedicesimo anno di vita nel modo più desolato possibile, ma pur sempre migliore di questo.

Per fortuna che ci sono io con me.

 

Sono da poco arrivato nel mio quartiere, riesco a vedere la mia casa da qui a circa metà della strada. Non sono mai stato così felice in vita mia di tornare in quell’abitazione da cui spesso mi piacerebbe scappare, perfino di vedere mia madre. Ed è strano, ma la disperazione è tale da spingermi a formulare questo tipo di pensieri.

Mi avvolgo nel giacchetto in jeans rabbrividendo. Novembre è alle porte ed il tipico freddo penetrante del New Jersey inizia a farsi sentire prepotentemente. Ad un certo punto scorgo delle figure in lontananza, ma la cosa non mi sorprende perché, in fin dei conti, è Halloween ed è normale che in giro ci siano dei bambini a fare ‘Dolcetto o scherzetto’. Ma non sarà un po’ troppo tardi? Guardo l’ora: meno cinque alle undici. Più mi avvicino, più assottiglio le palpebre per mettere a fuoco: un gruppo di persone è fermo nei pressi di casa mia, solo aldilà della strada.

Aspetta... sono nel giardino degli Way. Che stanno combinando?

Accelero il passo fino ad arrivare poco distante dalla scena. Dei ragazzini, probabilmente delle medie, stanno srotolando della carta igienica sui cespugli, lanciando uova contro l’ingresso e sparpagliando farina bianca sull’erba. Il tutto ridendo sguaiatamente. Che esseri privi di cervello. Scommetto qualunque cosa che questi siano figli delle famiglie che non vedono di buon occhi l’arrivo degli Way. E dopo si domandano perché odio Belleville.

Un'adrenalina mai provata in precedenza mi scuote dai capelli alle punte dei piedi. Non posso starmene con le mani in mano, questi stupidi marmocchi brufolosi sono perfino più bassi di me. Devo intervenire.

Li raggiungo silenziosamente ed incrocio le braccia al petto, nella maniera più autoritaria possibile urlo: “Che pensate di fare, idioti?”.

Improvvisamente tutti si fermano e si voltano di scatto in mia direzione.

“Sì, parlo proprio con voi, stronzi! Che c’è? Ora che vi ho scoperti avete paura faccia la spia con le vostre mammine, eh?”.

Avanzo minaccioso, mentre loro indietreggiano. Adesso che li ho vicini, vedo che sono in cinque e non avranno più dell’età di mia sorella.

“Ve-veramente noi…”, uno di loro prova ad articolare una risposta, ma le parole gli muoiono in bocca.

Veramente noi un cazzo. Fareste meglio ad andarvene se non volete passarvi brutti guai e, soprattutto, vedervela con me”.

Sgranano gli occhi intimoriti, ma restano comunque immobili come fossero pietrificati.

“Non mi avete sentito? Andatevene via di qui!”.

Non se lo fanno ripetere due volte, racimolano alcune delle loro cose e se ne vanno correndo lungo il marciapiede. Mentre fisso le loro sagome allontanarsi fino a confondersi nel buio, inizio a domandarmi seriamente cosa possa passare per la mente di certa gente. Anch’io reputo la nuova famiglia strana e, lo ammetto, sono ancora un po’ diffidente nonostante conosca Mikey, ma questo non giustifica un gesto così irrispettoso. Questo è essere coglioni, decisamente. Ah, ed è anche avere dei genitori di quelli che vanno in chiesa tutte le domeniche ed inculcano le loro inutili idee in testa ai figli. Purtroppo questa città è piena di persone del genere.

“Grazie per averli mandati via”.

Mi si raggela il sangue nelle vene. Una voce che non sento da più di una settimana, ma che riconoscerei fra mille. Il mio cuore perde un battito e non capisco il perché. Non mi aspettavo fosse qui fuori.

“Uhm… prego”, mugugno girandomi finalmente verso di lui.

Al chiaro di luna il contrasto fra la sua pelle chiarissima e i capelli scuri risalta ancora di più, mentre i suoi occhi verdi paiono composti da chissà quale sostanza liquida e sono tremendamente ipnotici.

“Davvero, grazie. Non se ne poteva più, era da una decina di minuti che andavano avanti”.

Stendo un sorriso tirato a disagio, ma questo è diverso da quello provato con Jamia poco fa. Questo è dato dal fatto che mi sento in soggezione.

“Come mai non sei alla festa?”.

“E tu come fai a saperlo?”, sbotto allarmato.

M’inquieta sempre di più.

“Forse perché ci è andato pure mio fratello?”.

Tiro un sospiro di sollievo. Forse è umano contrariamente a quanto pensi, non una creatura sovrannaturale. Un vampiro. Certo, sembra un vampiro!

“Oh, giusto”.

Inarca un sopracciglio e poggia una mano sul fianco, facendo gravare il peso su una gamba. E’ una posa molto effeminata. E solo ora realizzo quanto sia effeminato fin dal primo momento in cui mi sono scontrato con lui.

“Delle volte mi chiedo se tu lo faccia apposta oppure no”.

“A fare cosa?”, chiedo innocentemente.

“Ad essere così tonto”, sputa acido.

Dovevo aspettarmelo. Perché davanti a questo sconosciuto perdo il mio barlume di lucidità? Perché divento schifosamente ingenuo?

“Ti ho fatto una domanda”, mi esorta leggermente spazientito.

Annuisco repentinamente e cerco di formulare una risposta decente: “La verità è che faceva schifo. Odio le feste, odio i luoghi affollati, odio… tutto”.

Solleva entrambe le sopracciglia e mezzo sorriso si estende sul suo volto.

“Ah, capisco. Siamo sulla stessa barca”.

Armandomi di coraggio, riesco a trovare la forza di porgli a mia volta un quesito: “E tu, invece? Come mai non sei in giro a festeggiare la notte più spaventosa dell’anno?”. Scrolla le spalle.

“La mia famiglia non festeggia Halloween”.

Sgrano gli occhi sorpreso. Davvero al mondo esistono persone che non celebrano Halloween?

“Ecco perché non c’è alcun addobbo sulla vostra casa! Ma perché non lo festeggiate? Sempre se posso sapere…”.

Si sfrega le mani sulle braccia in modo da scaldarsi.

“Senti, posso spiegartelo dentro? Qui fuori si gela”.

Deglutisco, per poi voltarmi verso la mia casa e la fisso dubbioso. Rientrare o non rientrare? Torno a Gerard di fronte a me, sorrido per poi dire: “Certo, hai ragione”. Seguo la sua figura lungo il vialetto. Tanto mia madre è convinta che sia alla festa.

   
 
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