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Autore: Adeia Di Elferas    16/01/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Il 27 Dicembre del 1485, al cospetto del Conte Riario e dei suoi più stretti consiglieri, si presentò il Consiglio degli Anziani al completo.
 La riunione cominciò con i soliti convenevoli e un susseguirsi di inutili e ossequiosi scambi di salamelecchi che cominciavano a nauseare perfino Girolamo Riario, che fino a quel giorno aveva sempre aprezzato tutte quelle parole inutili.
 Alberto Ercolani, che aveva preso il posto dell'appena defunto Andrea da Chilino, fu il primo a parlare con franchezza e senza peli sulla lingua.
 Si alzò, passando con lentezza lo sguardo su tutti i presenti e soffermandosi proprio sul signore della città, mentre la sua voce risuonava sicura e tonante: “Conosciamo tutti il motivo che ci ha portati qui oggi. Siamo riuniti in questo palazzo per decidere se reintrodurre o meno i dazi e le glabelle che furono tolte dal signor Conte nel momento in cui arrivò per la prima volta nella nostra città.”
 Qualcuno annuì, altri si limitarono a restare in ascolto. Nicolò Pansecco, che aveva creduto di trovare un alleato in Alberto Ercolani, ora lo osservava come se non fosse più tanto sicuro di quell'appoggio.
 “Io dico – riprese Ercolani, con ancor più forza – che reintrodurre tutte le tasse tolte sarebbe una follia! Follia pura! Solo un folle può aver pensato una simile cosa!”
 Qualcuno vociò, nel salone, altri si scambiarono parole concitate, altri ancora espressero disappunto per i toni coloriti dell'uomo che proseguiva, imperterrito: “Non risolveremo i problemi accanendoci sui proprietari terreni, i negozianti e gli agricoltori! Altro non faremo se non aizzarli contro di noi e allora sarà guerra interna alla città stessa e a quel punto Dio ci scampi!”
 L'indice di Ercolani era ancora puntata verso il soffitto, come se stesse evocando davvero l'Onnipotente e il suo intervento divino.
 “Folle siete voi!” Si intromise senza tanti panegirici Nicolò Pansecco: “Voi, che pensate di risolvere la questione con sterili parole! Non sapete in che condizioni versa Forlì? Non sapete forse a quanto ammontino i debiti della città? Avete dimenticato il vero motivo per cui siamo qui?”
 Nello sguardo di Pansecco c'era un sottinteso che Alberto Ercolani, volutamente, ignorò: “Il Conte Riario aveva giurato, sì, miei signori, giurato che avrebbe tolto i dazi e vietato l'introduzione di nuove tasse!”
 Qualcuno cominciò a dire che era vero, che era proprio così.
 “Ma aveva anche ben specificato 'fino a che il papa Sisto IV sarà in vita'.” ricordò Pansecco.
 Qualcuno si trovò costretto ad ammettere che in effetti l'aveva detto, sì, erano state proprio le sue parole.
 “Sisto IV è morto ormai da tempo – fece notare Alberto Ercolani – quindi sembrerebbe che la decisione del Conte c'entri poco con la dipartita dello zio.”
 Alcuni annuirono con forza, era vero, la cosa era strana...!
 “A maggior ragione possiamo dire che il Conte, fino a che ha potuto, ha preferito non gravare sulla popolazione!” esclamò trionfale Pansecco.
 Quasi tutti cominciarono a far cenni col capo, perchè in fondo c'era del vero anche in quello, sì.
 “Se la città andasse in bancarotta – proseguì Pansecco, aproffittando della momentanea esitazione del suo avversario dialettico – tutti lo saprebbero subito e in men che non si dica la nostra amata città verrebbe messa a ferro e fuoco dai peggiori barbari del mondo! Non solo le città a noi vicine, ma finanche quelle che stanno ai confini del mondo verrebbero a reclamare le nostre vite, le nostre proprietà, le nostre donne!”
 Molti si misero le mani sul volto, altri si lasciarono andare a esclamazioni di panico, certi si dissero decisi a evitare una simile catastrofe.
 In tutto questo, Girolamo se ne stava seduto tutto curvo sul suo scranno, lo sguardo torvo, la mente e l'animo mutabile come quello di tutti i presenti, sospinto ora verso l'una ora verso l'altra posizione.
 “Noi siamo gli Anziani di Forlì!” disse a quel punto Pansecco, deciso a dare il colpo finale: “Siamo la coscienza e l'esperienza della città! Quello che noi decideremo sarà per il bene del nostro popolo! E dunque io vi dico: pieghiamo il capo a qualche tassa, in cambio della libertà!”
 In molti applaudirono e qualcuno, addirittura, si mise a gridare il nome di Nicolò Pansecco.
 “Dunque...” fece Pansecco, più misurato, beandosi del favore che stava raccogliendo: “Noi Anziani oggi abbiamo questo compito: ascoltare quello che il signor Conte dirà e obbedire pedissequamente ai suoi ordini, dando il nostro consenso a ogni cosa. Nell'ordine: reintrodurre i dazi, ridurre i posti statali, ridurre il numero di soldati, bloccare immediatamente i lavori alla Rocca di Ravaldino e ridurre drasticamente le regalie agli enti religiosi e agli ambasciatori stranieri. Ora, la parola passi al Conte Riario.”
 Girolamo attese che tornasse il silenzio assoluto, il che gli diede qualche momento per riflettere.
 Non gli piaceva essere così esposto allo sguardo di tutti quegli uomini. Non era bravo nei discorsi e di certo non sarebbe stato in grado di rispondere a tono nemmeno alla più elementare delle domande. La sua ignoranza proverbiale era sempre dietro l'angolo, pronta a fargli fare le peggiori figuracce.
 Mentre gli veniva chiesto di intervenire in quel consesso di pezzi grossi della città, Girolamo si sentì indicibilmente fuori posto. Non era quello il luogo per lui. Come aveva fatto a finire lì, su quella sedia, alla testa di quella tavolata?
 Sua moglie Caterina, lei sì che ci sarebbe stata bene a capotavola, a tener a bada tutti quei signori tracotanti e pieni di esigenze.
 Fin da ragazzo, lui basava tutta la sua autorevolezza sul suo modo di fare scontroso e aggressivo. Non era mai stato davvero in grado di comandare, tanto meno di avere sotto controllo gli affari di Stato. Infatti, fin quando aveva potuto, aveva lasciato fare ogni cosa a Caterina.
 Ma ora lei lo aveva lasciato solo...
 “Conte, stiamo aspettando le vostre parole.” disse Pansecco, con un breve gesto del capo e un sorriso incoraggiante.
 Girolamo lo guardò sperso, ma in cambio ricevette solo un'occhiata gelida, che stava a significare: 'Ho già fatto tutto io, ora vi basta dare l'ultimo affondo, che ci vorrà mai?'.
 “Nicolò Pansecco si espresso nei migliori dei modi. Vi chiedo di dare il vostro consenso a tutto quanto, dai dazi al blocco dei lavori alla rocca.” disse in fretta Girolamo, cominciando a sudare a profusione: “E ora se qualcuno è contrario lo dica apertamente. Nessuno? Bene, allora è deciso.”
 Aveva detto tutto tanto in fretta che, se anche qualcuno avesse voluto avanzare almeno una perplessità, non avrebbe fatto in tempo.
 Senza riuscire ad aggiungere altro, Girolamo si alzò di scatto e dichiarò chiusa l'assemblea.
 Mentre lasciava il salone, in cui gli Anziani restavano in silenzio, sconvolti dal fare sbirgativo del Conte, Girolamo pensava a quel che avrebbe detto Caterina una volta saputo l'esito della riunione.
 'Questa volta mi ammazza davvero.' si trovò a pensare l'uomo, mentre il cuore gli batteva in petto rapido come un cerbiatto che sfugge ai cacciatori.
 
 Appena tornato dai festeggiamenti per l'Epifania, Lorenzo Medici trovò un messaggio da parte del suo uomo di Forlì.
 Si chiuse nelle sue stanze e si mise a leggere, teso, ben sapendo che proprio pochi giorni prima si era tenuta un'importante riunione, il cui esito avrebbe condizionato in bene o in male la riuscita del suo piano.
 'Mio signore, oggi si è tenuta la riunione, la più veloce che io ricordi. Tutto è andato per il meglio e come previsto. Non credo ci sia bisogno di fare altro, ormai, se non aspettare. Con un po' di fortuna, sarà la cittadinanza a fare il lavoro per noi. I buchi da noi ingigantiti hanno spaventato anche quelli che non erano certi della reintroduzione dei dazi e così il tutto è stato facile. Aspetto vostri nuovi ordini e resto vostro fedelissimo alleato. M. M.'
 Lorenzo strappò subito la missiva, con un sorriso compiaciuto stampato in volto.
 La linea d'azione che aveva deciso di prendere si stava dimostrando lenta, ma efficace. Non solo avrebbe avuto la sua vendetta, mettendo a morte l'ultimo degli assassini di suo fratello Giuliano. Gli avrebbe anche strappato ogni cosa...
 
 Caterina gettò di lato la lettera che aveva appena letto.
 Suo zio Ludovico le aveva negato una volta di più la sua ospitalità a Milano. A meno che, aveva ribadito, non gli fosse giunta dall'Oliva la precisa notizia di una riappacificazione duratura tra Caterina e suo marito.
 Forse avrebbe potuto andare a Milano anche senza il suo permesso, ma il viaggio non sarebbe stato facile e, conoscendo il temperamento di suo zio, quell'uomo sarebbe stato capace di negarle l'ingresso in città, una volta a destinazione.
 Caterina aveva provato a cogliere il pretesto della morte del marito di sua sorella Chiara, che ora si trovava presso lo zio. Ovviamente Ludovico si era affrettato a scrivere che Chiara stava benissimo e che, anzi, stava già pensando di prendere nuovamente marito, quindi non c'era bisogno della presenza della sorella come consolazione.
 “Siamo pronti – disse Girolamo, affacciandosi sulla porta – aspettiamo solo voi.”
 Caterina lasciò la scrivania e prese il piccolo Galeazzo Maria dalla culla e lo strinse al petto. Era il sedici gennaio e faceva ancora molto freddo. Avrebbe preferito aspettare un momento più favorevole, per il battesimo del suo quinto figlio, ma tutti parevano avere gran fretta, così si era deciso per quella data.
 “Mia ha scritto mio zio – disse Caterina, mentre raggiungeva l'ingresso del palazzo assieme al marito e alle balie che si tiravano dietro gli altri bambini – e dice che a breve ti darà una buona notizia.”
 “Di che si tratta?” chiese Girolamo, teso.
 “Vuole darti in dono un feudo chiamato Fortunago. Era di Pietro Dal Verme, il marito di mia sorella Chiara, quello morto da poco.” fece Caterina, sbrigativa: “A quanto pare continui a ottenere terre e titoli senza averne alcun merito...”
 Girolamo incassò, in silenzio, come faceva dalla riunione del 27 dicembre. Quando sua moglie aveva saputo che il Consiglio aveva accettato tutte le misure di inasprimento della pressione dello Stato, non aveva fatto una piega e quel modo di reagire aveva messo in guardia Girolamo più di qualunque altra cosa. L'apparente distacco con cui Caterina aveva preso la notizia non poteva che nascondere un furore senza precedenti che, il Conte ne era certo, si sarebbe scatenato al momento opportuno.
 Dunque, per evitare di sommare rabbia alla rabbia, lasciava che la moglie si sfogasse con quelle frecciatine che, dopo tutto, non facevano nemmeno male.
 Il battesimo si tramutò in una festa di paese e i padrini del piccolo furono niente meno che dall'ambasciatore di Urbino, da quello di Carpi e da quello di Firenze.
 
 Ravenna era stretta nella morsa del gelo, similmente al resto dell'Italia.
 Antonio Ordelaffi, da qualche tempo ospite nella casa dell'amico Matteo Fabbri, stava rivedendo alcune lettere arrivate da Forlì.
 A quel che pareva i Riario erano incappati in un errore che poteva essere loro fatale. Il popolo cominciava già a sollevare la testa.
 Poveri stolti... Come potevano pensare di levare la catena al cane e poi rimettergliela, senza essere morsicati?
 Antonio scuoteva il capo, quasi divertito, mentre proseguiva nella lettura, inframmezzando i suoi pensieri a qualche sorso di vino.
 Se voleva colpire, quello era il momento. Con i nuovi tagli ordinati, anche le difese della città si erano impoverite e quindi sarebbero ben bastati i suoi seicento uomini, per entrare in Forlì e riprendesi quello che era suo di diritto. Quando Sisto IV aveva obbligato la sua famiglia a lasciare ogni cosa, il papa non aveva fatto i conti con la tenecia degli Ordelaffi e l'incapacità dei Riario.
 Prese carta e inchiostro e si affrettò a scrivere le direttive precise per tutti i cittadini degni di nota rimasti fedeli agli Ordelaffi. Come sempre, avrebbe affidato quelle preziose carte ad Antonio Butrighelli di Forlimpopoli.
 Non gli piaceva molto quel tipo, basso, dal discutibile senso del pudore ed estremamente chiassoso, ma in tutti quei mesi non gli aveva mai dato motivo di lamentarsi. Portava a termine le sue missioni con una discrezione seconda a pochi e ogni volta riusciva a recapitare fino all'ultimo messaggio.
 Si travestiva, a quello che gli aveva detto, si faceva vedere in giro, anziché nascondersi, facendo credere a tutti di essere un pastore o un mercante e nessuno si insospettiva, quando lo vedeva parlare con qualche notabile. Certo era che se quelle lettere fossero finite nelle mani sbagliate, anche i sogni di gloria di Antonio Ordelaffi sarebbero andati in fumo.
 Antonio Ordelaffi sorrise al pensiero che la sua gloriosa impresa dipendeva da quell'uomo sempre sporco e sboccato. Forse era davvero grazie a uomini del genere che erano state messe a segno le imprese pià ardite della storia...
 Antonio Ordelaffi si strinse nei suoi abiti, forse troppo leggeri per quell'inverno, e si sentì incredibilmente vicino al riscatto, non solo suo personale, ma di tutta la sua famiglia.
   
 
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