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Autore: Adeia Di Elferas    19/01/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “E ci serviranno minimo un chirurgo, un medico e alcuni monatti da mettere a disposizione della città.” stava elencando Caterina, mentre le sue dame di compagnia buttavano alla rinfusa le cose della loro signora nel baule.
 Avrebbero dovuto mettere più cura nell'occuparsi degli averi della Contessa, ma era stata lei stessa a insistere per la massima velocità, anche a scapito dell'ordine.
 Tutto doveva essere impacchettato e preparato entro pochissimo tempo e, nel caso in cui la scorta non fosse ancora pronta, Caterina aveva detto espressamente che sarebbe partita da sola, per arrivare in città il prima possibile.
 Girolamo non aveva voluto darle ascolto, quando, all'arrivo della notizia della peste a Forlì, Caterina lo aveva esortato a preparare i bagagli. Anche in quel momento, mentre la moglie si appuntava ogni cosa le venisse in mente, mentre le dame di compagnia si affaccendavano e correvano a destra e a manca, l'uomo si limitava a osservare in silenzio, le mani dietro la schiena e lo sguardo accigliato.
 “Ah, non dimenticate il mio libro sulle erbe medicinali!” esclamò Caterina, indicando il volume quasi sfatto che stava sul tavolo.
 “E i nostri figli?” chiese a un certo punto Girolamo, mentre la moglie gli passava accanto.
 “Loro possono rimanere qui, se preferisci.” disse subito Caterina, senza guardarlo: “Basterà la nostra presenza, se temi di esporli al contagio...”
 “Io non mi muovo da qui.” disse Girolamo, con una calma fuori luogo.
 Caterina gli dedicò uno sguardo di commiserazione: “Il cielo manda una piaga che può favorirti e tu lasci correre, senza provare ad approfittarne...”
 “Come sei cinica.” fece Girolamo, gonfiando il petto e assumendo un'espressione di superiorità.
 Caterina preferì non perdere tempo a rispondergli, e entro sera si trovò già in cammino verso Forlì.

 Caterina non aveva preso con sé abbastanza denaro per pagare il pedaggio a Faenza. Quando si trovò in vista del confine, quindi, approfittò del fatto che con lei c'erano solo un paio di soldati.
 Alla fine, suo marito le aveva concesso solo quella misera scorta. Anche se le aveva promesso di farle avere i suoi bagagli, quell'uomo profondamente ingenuo aveva creduto che sarebbe bastata quella riduzione di guardie per far desistere la moglie.
 Caterina, quando l'aveva lasciato, aveva visto lo smarrimento nei suoi occhi ed era pressoché certo che di lì a massimo due o tre giorni, se lo sarebbe visto arrivare a Forlì con tutti i figli e tutti i soldati al seguito.
 La Contessa spiegò alla sua scorta cosa intendeva fare e i due soldati non ebbero nulla da obiettare. Così, invece che passare per Faenza, aggirarono l'ostacolo, allungando parecchio il tragitto, ma evitando di pagare una somma considerevole.
 Più volte Caterina aveva proposto a Girolamo di seguire quella strada alternativa, durante i loro spostamenti, ma lui non ne aveva voluto sapere nulla, perchè lasciare il sentiero conosciuto per uno inesistente in mezzo ai boschi proprio non faceva per lui.
 
 Quando la Contessa arrivò a Forlì, la situazione era già drammatica. Nel giro di pochi giorni l'epidemia dalle campagne si era spostata nel cuore della città e a ogni angolo si vedevano malati, mentre le finestre diogni casa erano sprangate e silenziose.
 Attraversando le strade deserte – eccezion fatta per i moribondi – Caterina poté tastare con mano quanto la situazione fosse grave e così non perse altro tempo.
 Chiamò subito a palazzo un medico, un chirurgo e dei monatti. Vollero una paga più alta del consueto, ma Caterina pagò senza fiatare. Disse loro di concentrarsi soprattutto sui quartieri più poveri, perchè come sempre era lì che la peste colpiva con più forza.
 La stessa Caterina cominciò a chiudersi in laboratorio per mettere a punto unguenti e pozioni che, con un po' di fortuna, avrebbero, se non guarito, almeno alleggerito le penitenze degli appestati.
 In capo a tre giorni, alle porte della città, fece capolino il Conte Riario, seguito da un drappello corposo di soldati e da un carro su cui stavano i figli con le balie.

 “Dov'è la Contessa mia moglie?” chiese Girolamo Riario, non appena varcò le porte del suo palazzo ed ebbe detto alle balie di mettere i bambini al sicuro nelle loro stanze.
 Matteo Menghi, che era accorso immediatamente assieme a Melchiorre Zaccheo, si affrettarono a fare grosse parole contro la Contessa, che stava esponendo anche loro, che pur cercavano di stare lontani dai malati, al contagio.
 “Non vi capisco! Parlate uno alla volta!” li redarguì Girolamo, stanco per il viaggio e ancora arrabbiato per la cifra spropositata che i Manfredi gli avevano chiesto per lasciarlo passare per Faenza.
 “Vostra moglie – prese la parola Zaccheo, stringendosi il colletto con una mano – da quando è arrivata non fa altro che chiudersi nel suo laboratorio per poi uscirne e andare dagli appestati a dispensare le sue cosiddette medicine!”
 “E ha voluto a tutti i costi ingaggiare dei monatti e un medico!” si lamentò Menghi, scuotendo il capo: “E finanche un chirurgo!”
 “Ma che state dicendo...!” fece Girolamo, alzando le mani, incredulo.
 Per avventata che fosse sue moglie, gli sembrava impossibile che si stesse davvero mescolando ai malati. Di certo i suoi consiglieri stavano esagerando...
 “Chiedetelo voi stesso alla signora Contessa – disse allora Zaccheo, appena offeso – quando tornerà stasera. Se avrete il coraggio di starle accanto...” precisò.
 Girolamo si fece allora persuaso che qualcosa di vero doveva esserci. Però, essendo più grande la paura per la peste che non il desiderio di sapere la verità, si limitò a dire: “E sia. Appena la Contessa tornerà a palazzo ditele che desidero vederla.”

 “Come vedete quest'uomo non ha più speranze...” disse il medico, allargando le braccia.
 Caterina, accovacciata accanto al dottore, guardava con occhio critico l'appestato, ormai privo di senso, che stava riverso in strada.
 La sua pelle era corrosa e sul suo collo c'erano molti bozzi pestiferi. Alcuni bubboni si intravedevano da sotto la giacca e dalla foggia dei vestiti si capiva che il morente era come minimo un negoziante.
 “Come evitare che arrivino a questo stadio...?” si chiese la Contessa, a voce bassa, mentre il malato esalava l'ultimo respiro proprio a pochi centimetri da lei.
 Il medico sospirò, un panno davanti al naso, rimettendosi in piedi e facendo segno a un paio di monatti di recuperare il morto.
 “L'unica arma che possiamo usare è quella di ridurre il contagio.” soppesò Caterina, guardandosi attorno, mentre i monatti issavano il cadavere su un carretto che già ne portava una decina.
 Da tutto il giorno la Contessa stava vagando per la città, soprattutto per i bassifondi, per studiare meglio la situazione.
 Non temeva il contagio, non sapeva perchè. Non ci aveva nemmeno pensato. Non appena era stata in Forlì, aveva subito deciso che non sarebbe rimasta con le mani in mano e che avrebbe sfruttato le sue conoscenze alchemiche come meglio poteva.
 Quando aveva visto gli sguardi sospettosi dei forlivesi trincerati dietro le finestre delle loro case farsi dapprima increduli e poi speranzosi nel vederla passare in mezzo alle case, aveva capito che la sua decisione era quella giusta.
 “Mia signora... Siete pallida.” disse il medico, mentre il sole cominciava a calare.
 Per essere Aprile, e visto l'inverno che si era appena concluso, faceva già un caldo eccessivo. Probabilmente proprio quelle temperature estreme avevano favorito l'epidemia...
 “Sto bene.” disse Caterina, in fretta.
 “Siete stanca. Sono quasi tre giorni che mi seguite senza prendervi un momento di riposo. Quando rientrate a palazzo vi mettete agli alambicchi... Se volete davvero essere utile, dovete anche trovare il tempo di riposare.” fece l'uomo, poggiandole una mano sulla spalla con fare paterno: “Siete giovane, ma dovete ancora farsi le ossa per questo genere di cose. Vedere morti a ogni pie' sospinto...” soffiò il medico.
 “Vi ricordo che sono anche stata in battaglia, posso sopportare la vista dei morti.” gli ricordò Caterina, forse con eccessiva durezza.
 Gli occhi calmi del medico la guardarono un momento: “Lo so bene, mia signora. Ma ora andate a riposarvi. Questa non sarà una battaglia, ma una guerra che potrebbe durare anche mesi. Dobbiamo essere in grado di valutare le nostre forze.”
 Caterina esitò un momento, e di colpo avvertì tutta la stanchezza accumulata in quei tre giorni far capolino tutta assieme.
 Si congedò dal medico e rifiutò l'offerta di uno dei monatti che voleva accompagnarla.
 Camminò da sola e in silenzio per le strade vuote di Forlì, mentre il sole tramontava e qua e là si sentivano pianti, grida e parole di cordoglio.
 Aveva ragione il medico, quella sarebbe stata una guerra difficile e lunga, dovevano elaborare una strategia.
 Doveva tenere conto, però, delle ristrettezze economiche in cui versavano e anche del fatto che difficilmente avrebbero potuto raccogliere le tasse, in quei mesi...
 Qualcosa, però, doveva fare, a costo di delapidare fino all'ultimo centesimo rimasto nelle casse della città. Per prima cosa, si disse, avrebbe dovuto prendere altri due becchini e un cappellano che fossore disponibili a fare qualunque cosa e in qualunque condizione. Li avrebbe dovuti pagare molto, come aveva fatto col medico e col chirurgo e forse sarebbero servite più guardie, per accertarsi che i prezzolati aiutanti facessero davvero il loro lavoro.
 Dopodiché avrebbe dovuto stilare una serie di regole di igiene basilare per i cibi e le bevande e anche per quello sarebbe servita una polizia speciale che si aggirasse per le case a controllare che ogni cittadino seguisse le nuove norme. E poi i cadaveri... Già in quei tre giorni si era imbattuta in gente che non voleva separarsi dal corpo del caro defunto, genitori che insistevano di voler vegliare il figlio almeno una notte intera o mariti o mogli che volevano conservare il corpo del coniuge fino al funerale... No, non poteva permetterlo. Ogni corpo andava subito sepolto e i casi più gravi andavano immediatamente portati in ospedali fuori dalla città, in isolamento.
 Caterina, il giorno prima, era passata dal Novacula, intimandogli di chiudere la sua attività fino a nuovo ordine e questi gli aveva anche consigliato di distribuire cibo e altri beni di necessità, quando fosse giunto il momento.
 La Contessa aveva annuito, sperando di poter seguire il consiglio, e gli aveva chiesto se mai c'erano state, per quel che ne sapeva, altre epidemie in città in precedenza e come erano state affrontate.
 “Ne conosco solo una mia signora – aveva risposto Andrea Bernardi – di circa cento anni fa. Fu una catastrofe, quasi cento morti al giorno e la città non scomparve per puro volere del nostro Signore.”
 Quelle parole avevano fatto scendere una pietra nel petto di Caterina, che si era quindi messa ancor più d'impegno nel pensare a misure efficaci nel debellare il morbo.

 “Dov'eri?” chiese Girolamo, gli occhi fuori dalle orbite e le braccia avviluppate al petto, strette come un laccio.
 “Da come mi stai lontano, penso che tu lo sappia.” disse Caterina, infastidita.
 Appena era tornata a palazzo le era stato detto che suo marito e i suoi figli erano arrivati da Imola ed era stata portata quasi di forza al cospetto di suo marito, mentre lei avrebbe di gran lunga preferito rinfrescarsi, cambiarsi e andare dai figli. Le era parso strano non averlo saputo prima, ma in quei giorni Forlì era poco vitale e le chiacchiere non circolavano come al solito. Probabilmente quando Girolamo era entrato in Forlì, lei era dalla parte opposta della città.
 “Tu... Tu ti rendi conto che con la tua condotta metti a rischio tutti noi?” chiese Girolamo, isterico: “E scommetto che nemmeno hai cambiato gli abiti...!”
 “Non me ne hai dato il tempo. Mi hanno trascinata qui prima che potessi fare alcunché.” notò Caterina, sbuffando: “Quindi ora lasciami andare, prima che contagi anche te!”
 Girolamo restò molto colpito da quell'intimazione, tanto che nell'impeto di rimproverarla, fece qualche passo avanti. Quando si accorse di essere troppo vicino a una donna che poteva benissimo aver portato con sé la pestilenza, retrocesse, dicendo solamente: “Sappi che non possiamo permetterci il medico e il chirurgo che hai assunto!” esclamò Girolamo, col tono infantile di chi pensa di aver dato un grande smacco al suo interlocutore.
 “Possiamo, invece. Li ho già pagati, quindi non puoi più farci nulla. E ho intenzione di fare altre assunzioni.” annunciò Caterina, andando velocemente verso la porta.
 Girolamo abbassò lo sguardo, cercando altre argomentazioni valide. Si era figurato il ricongiungimento con la moglie in modo molto diverso. Si aspettava di trovarla provata, spaventata e già pentita di essersi trasferita in una città di appestati.
 Ovviamente aveva peccato di ottimismo.
 Finalmente trov qualcosa da dire: “Sappi che dovessi restare infetta, io non ti vorrò più in questo palazzo...!”
 Caterina inarcò le sopracciglia: “Oh, ma che dispiacere... La notizia mi lascia davvero affranta...”
 Mentre il Conte diventava paonazzo dalla rabbia per il tono da insubordinata della moglie, la Contessa volle rimarcare il concetto in modo da essere il più chiara possibile: “Preferirei morire di peste, piuttosto che condividere un giorno di più la mia vita con te.” e uscì dalla stanza a passo di marcia, pensando sinceramente che avrebbe preferito un bubbone in fronte, piuttosto che una vita accanto a suo marito.

   
 
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