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Autore: Adeia Di Elferas    22/01/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~Le piogge che avevano cominciato a cadere i primissimi giorni di settembre scrosciarono per le strade di Forlì senza tregua per oltre una settimana.
 Come se fosse trattato di un miracolo, i casi di peste si ridussero drasticamente e molto in fretta. L'acqua piovuta dal cielo aveva lavato via l'infezione, come si era soliti dire.
 La Contessa Riario si prodigò per dare assistenza agli utlimi malati, ma ormai il suo compito era arrivato alla fine.
 La popolazione della città si era ridotta, ma la consapevolezza di non essere stati colpiti duramente come invece era successo ad altri paesi, aveva permesso alla popolazione di affrontare i lutti e le difficoltà con uno spirito stoico e ottimista.
 La città riprendeva lentamente a vivere, pur facendo i conti con le gravi perdite che, inutile illudersi, le tasche della Contessa non riuscivano più a colmare. Per quanto si fosse impegnata a comprare personalmente rifornimenti di cibo e altri beni di prima necessità, la penuria di grano e altri alimenti era evidente.
 Essendosi quindi praticamente risolta l'epidemia, i Conti Riario permisero al Duca di Calabria, Alfonso d'Aragona, di sostare in città prima di volgersi verso Ravenna, dove il suo nemico, Sanseverino, si era andato a nascondere.
 Alfonso d'Aragona era in quel tempo alleato da papa Innocenzo VIII, che lo sosteneva strenuamente, nell'attesa che il Cardinale Borja riuscisse a ottenere la pace tra i Baroni e i vecchi sovrani di Napoli.
 Caterina non era molto felice di quella visita inattesa, perchè tutto quello che le ricordava il loro legame con Roma la innervosiva, ma Girolamo, malgrado schivasse ogni impegno pubblico, ordinò che il Duca venisse fatto entrare in città, per evitare di incorrere nelle eventuali ire del papa.
 Alfonso d'Aragona si fermò poco, partendo subito in direzione di Imola, tornando però dopo nemmeno tre giorni, avendo saputo che Sanseverino, forse sentendosi sconfitto, aveva sciolto l'esercito e si era nascosto.
 Di nuovo in Forlì, per non incomodare i signori, Alfonso aveva preferito non accettare l'ospitalità per sé e per i comandanti nel palazzo dei Riario, accettando una sistemazione più modesta, assieme ai suoi soldati.
 Aveva visto i segni della peste recente in città e voleva, a suo dire, far circolare un po' di danaro, dando lavoro alle osterie. Così, come nel corso della visita di pochi giorni addietro, si era sistemato all'osteria che stava appena fuori da Porta Bologna.
 Il 18 settembre, in segno di amicizia, Girolamo insistette affinché il Duca e almeno i suoi uomini più fidati andassero a cena a palazzo, in modo da poter parlare con tranquillità.
 
 I Conti stavano aspettando l'arrivo degli ospiti. Nella sala dei ricevimenti era stato imbandito il grosso tavolo per la cena e un profumo invitante si stava spandendo per tutto il palazzo.
 I bambini erano stati messi a riposare, mentre i consiglieri personali di Girolamo erano tutti presenti e ben contenti di poter incontrare una persona della fama di Alfonso d'Aragona.
 Girolamo era molto agitato e faticava a nascondere la sua immotivata apprensione. Si mordeva il pollice senza tregua, chiedendosi a voce alta come sarebbe andata la serata e cosa avrebbero pensato gli ospiti, nel vedere i signori della città vestiti in modo modesto e senza gioielli.
 Caterina avrebbe volentieri sottolineato come la povertà in cui vivevano era legata all'inettitudine del marito, ma non voleva angustiarlo senza motivo. Non sapevano di preciso chi il Duca avrebbe portato a palazzo e quindi era indispensabile limitare i danni.
 Quando finalmente gli ospiti arrivarono a palazzo, vennero annunciati uno per uno dal maestro di cerimonie improvvisato, che aveva preventivamente chiesto a ciascuno il proprio nome: “Alfonso D'Aragona, Duca di Calabria. Antonio Maria Della Mirandola. Gian Giacomo da Trivulzio. E Virginio Orsini.”
 All'ultimo nome, istintivamente, Caterina alzò lo sguardo verso lo sparuto gruppo di uomini che stava entrando nel salone.
 Proprio dietro al Duca di Calabria, si potev intravedere lo sguardo acuto e il sorriso scaltro di Virginio Orsini.
 Girolamo si stava avvicinando agli ospiti, per accorglieli nel modo migliore e così anche Caterina lasciò il suo posto per salutare i quattro uomini.
 Alfonso d'Aragona le baciò la mano, con un piccolo inchino, ma tenendo un'espressione abbastanza neutra. Si concentrò di più su Girolamo, dicendogli, in tono sibillino: “Aspettavo con ansia di potervi parlare questa sera.”
 Antonio Della Mirandola e Gian Giacomo da Trivulzio fecero il baciamano alla contessa, come aveva fatto il Duca e ringraziarono il Conte con parole affettate ed eccessive.
 Virginio Orsini, invece, si era tenuto in coda. Quando fu il suo turno, si avvicinò a Caterina e, prima che lei potesse dirgli qualcosa, l'uomo si mise in ginocchio: “Sono veramente lieto di rivedervi, mia signora.”
 Caterina gli sorrise. L'astio che aveva provato verso di lui – minore, comunque, rispetto a quello provato verso Paolo Orsini – per non aver più avuto sue notizie dopo il loro ultimo incontro e per le sue azioni sconsiderate l'anno precedente, quando si era messo contro il papa credendolo malato, scomparve tutto di colpo.
 Prevalsero senza alcuna difficoltà i ricordi di quei giorni concitati in cui quell'uomo era stato tra i pochi ad appoggiarla fin da subito e a credere in lei. Era stato tra quelli che avevano accetato senza riserve il fatto che anche lei scendesse in campo e lui era stato al suo fianco mentre per la prima volta affrontava davvero una battaglia...
 Virginio si alzò e, invece di adeguarsi all'etichetta esibendosi in un baciamano come i suoi compari, allargò le braccia e strinse a sé la Contessa.
 Girolamo impallidì e anche il Duca di Calabria assunse un'espressione sconcertata, ma sia Caterina, sia Virginio non si diedero pena per le loro reazioni.
 Caterina si accorse che quell'uomo, poco più che quarantenne, aveva ancora il fisico guizzante e forte di un ragazzo e che la sua stretta era rassicurante e calorosa. Per qualche secondo si sentì completamente al sicuro da tutto.
 Mentre erano ancora abbracciati, Virginio le sussurrò nell'orecchio: “Perdonatemi per essere stato un vile. Avrei dovuto accorrere a Castel Sant'Angelo nel momento stesso in cui ho saputo che voi eravate lì.”
 Caterina scosse appena il capo e mentre lei e Virginio si allontanavano, disse: “Avete solo tenuto fede all'impegno che avevate con chi vi aveva assoldato.”
 L'uomo annuì e commentò, con una certa leggerezza: “Vero. In fondo sono solo un povero mercenario!”
 Virginio Orsini non salutò Girolamo, che, dal canto suo, non aveva alcuna voglia di avere di nuovo a che fare con quell'individuo che l'aveva più volte preso in giro, mente combattevano contro i Colonna.

 La cena fu abbastanza gradevole per tutti, tranne che per Girolamo Riario, che non parlò quasi con nessuno e che toccò appena il cibo.
 Aveva il terrore che tra le pietanze uscite dalla cucina ce ne fosse qualcuna contaminata e così, non volendo far assaggiare tutto a un servo per non suscitare l'ilarità degli ospiti, ogni boccone gli pareva avvelenato e gli risultava disgustoso.
 A chiacchierare con il Duca ci pensarono i consiglieri. Quando Alfonso chiese con un certo interesse come mai la peste avesse colpito con così tanta clemenza la città, Matteo Menghi si affrettò a dare tutto il merito alle piogge e nessuno si premurò di specificare che senza i medici ingaggiati dalla Contessa, le cose sarebbero andate certamente in modo diverso.
 “Vorrei dirvi che vi trovo in forma – disse Virginio, seduto accanto a Caterina, a voce tanto bassa da farsi sentire solo dalla Contessa – ma purtroppo non è così.”
 Caterina bevve un po' di vino e dovette ammettere: “La peste è stata una dura prova. Ho cercato di fare tutto quello che potevo e un po' mi sono stancata, è vero.”
 “E vostro marito il Conte? Anche lui si è operato per i malati?” chiese Virginio, sogghignando.
 Caterina inarcò le sopracciglia: “Per l'aiuto che mi ha dato, avrebbe fatto meglio a restarsene a Imola...”
 Virginio scosse il capo, addentando un pezzo di pane nero: “Comunque la vostra non è solo stanchezza. Siete sofferente, mia signora. Non eravate così nemmeno quando la paura di un attacco dei Colonna vi teneva sveglia una notte sì e l'altra pure.”
 Caterina guardò l'uomo per un lungo momento. Sapeva per esperienza che Virginio non aveva peli sulla lingua e sapeva parlare abbastanza liberamente.
 “Ho saputo che avete avuto un altro figlio, dopo quello che aspettavate durante la guerra.” continuò Virginio, pungendo sul vivo Caterina: “Ricordo bene quanto voi e vostro marito andavate d'accordo... Vi siete forse riappacificati?”
 La Contessa svuotò il suo bicchiere di vino, e, prima di rispondere, con la coda dell'occhio notò che Girolamo le stava dedicando uno sguardo sospettoso, come se avesse capito che lei e Virginio stavano parlando di lui: “No, i nostri rapporti non hanno fatto che peggiorare, dopo Roma.”
 Nelle iridi di Virginio balenò un breve lampo di comprensione e dal come parlò dopo, si intuiva quanto la condizione di Caterina lo rattristasse sinceramente: “Dovreste andarvene da qui, mia signora. Se non lascerete quell'uomo, ne morirete, prima o poi.”
 “Mi fate tanto debole?” chiese Caterina, non riuscendo a non pensare, però, a come lei stessa era arrivata a quella conclusione più di una volta, cercando inutilmente in suo zio Ludovico un alleato che la ospitasse.
 Virginio abbandonò sul tavolo il pezzo di pane che stava mangiando e aprì la bocca, per aggiungere qualcosa, forse un consiglio, quando la voce di Alfonso d'Aragona coprì tutto il resto: “Ho da chiedervi una grazia che non potete rifiutarmi, mio signor Conte.”
 Girolamo guardò stranito il Duca e alzò appena le sopracciglia, come a dargli il permesso di proseguire il discorso.
 “Se ho accettato questa cena, per altro squisita, è stato per proporvi di perdonare una volta per tutte il mio caro amico, Nicolò Bartolini e di restutuirgli le abazie di Fiumana e San Mercuriale.” Girolamo stava per controbattere, ma Alfonso non gliene diede il tempo, aggiungendo: “E anche di lasciare che il mio amico prenda casa in Forlì.”
 Caterina avrebbe voluto intervenire, dicendo che non era il caso di dimostrarsi tanto magnanimi con un uomo che aveva ceduto senza nemmeno un colpo di bombarda la fortezza di Terracina, di cui era all'epoca castellano, allo stesso Duca di Calabria, quando egli l'aveva attaccata anni prima.
 Girolamo avrebbe forse voluto dire le stesse cose, ma la voce gli uscì arrochita e i concetti confusi: “Ma... Ma se lo vedessi in città...! Se abitasse a Forlì...! Ogni volta vederlo sarebbe un'onta per me!”
 Il Duca rise, e dalla consapevolezza che gli si leggeva in viso, Caterina fu certa che le chiacchiere sull'infermità di Girolamo ormai avevano raggiunto molte orecchie: “Suvvia! So che non amate uscire da palazzo, dunque lo vedrete ben di rado!”
 Senza essere capace di dire altro, Girolamo si chiuse in un silenzio imbarazzato.
 Il Duca si alzò da tavola, frettolosamente: “Ho la vostra parola, allora? Il papa sarà molto contento di sapere in voi un valido alleato!”
 Girolamo ritrovò allora la parola: “Certo... Io... Concederò subito quello che chiedete. Menghi...” soggiunse, additando al suo consigliere: “Preparate immediatamente tutti i documenti del caso e fateli avere entro domani a chi di dovere...”
 Il Duca sorrise mellifluo prima a Menghi, poi a Girolamo, e infine a Caterina che, se ne accorse in quel momento, lo fissava con astio.
 “Credo che sia giunto il momento del congedo.” disse il Duca, facendo segno agli altri di seguirlo.
 Virginio si attardò un momento, appoggiando la mano alla spalla di Caterina e chinandosi su di lei, per bisbigliarle nell'orecchio: “Come vedete, siamo tutti stretti da catene invisibili...” dopodiché le sorrise e, a voce pià alta, la salutò: “Spero di incontrarvi presto di nuovo, mia signora.”
 Quando passò davanti a Girolamo, Virginio non riuscì a trattenersi e gli disse, ridacchiando: “Ci sono tavoli solidi sotto cui nascondersi anche qui a Forlì, Conte?”
 E metre raggiungeva gli altri e usciva dal salone, Caterina desiderò con tutta se stessa di potersene andare come loro, alla ventura, verso nuove battaglie, lasciandosi alle spalle quelle già combattute e perse...

   
 
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