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Autore: Violet Nike    22/01/2016    1 recensioni
Per un momento la stanza si gelò e con essa il sangue nelle mie vene, era così seria che temevo realmente potesse parlare sul serio e la cosa non era per nulla positiva; ma poi la sua risata allegra ruppe il gelo e io lasciai correre il discorso salutandola... Non l’avrei mai più vista.
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È giunto il momento di dirti quello che avrei dovuto dirti cinque anni fa. Siediti, ti prego. Saprai tutto. Ti chiedo solo un po' di pazienza. Avrai modo di urlare...di fare quello che vuoi...quando avrò finito. Non te lo impedirò.
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Theodore Nott, Voldemort
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Mi capita spesso di pensarci, come se fosse qualcosa di assurdo o di ineccepibile per la mia mente, mentre cammino lentamente per quel lungo corridoio di cemento armato gelido che appare sempre più basso e stretto di quello che è; all’inizio non vi avevo dato peso, era per me come qualunque altro, perciò sentendo riecheggiare i miei passi in quel corridoio silenzioso ove una serie di tre porte di ferro spesso segnava il lento ingresso alla sala non mi procurava alcun pensiero. Poi con il tempo avevo sempre più spesso prestato attenzione a quel suono, a quello strano silenzio che sembrava essere il segno indelebile di quel luogo, avevo cominciato a rifletterci e mi ero accorto di quanto fosse snervante quel silenzio e quella struttura così soffocante; era stato un passo graduale eppure io non ci avrei mai pensato se non fosse stato per lei. Il personale interno non le parlava mai, la scortava in un lugubre silenzio per poi lasciarla lì come fosse un oggetto e sparivano, anche quando avevo chiesto informazioni su di lei nessuno mi aveva risposto eppure non vi avevo dato molto peso.


Il primo giorno ero entrato con il solito completo grigio chiaro a cui avevo abbinato una cravatta di un beige poco più scuro delle scarpe, stringevo con la mano destra la maniglia della mia ventiquattrore scura in cui tutto il mio materiale sbatteva ad ogni passo, sul polso un orologio di una marca importante sfavillava mentre La mano sinistra si portava a togliere gli occhiali da sole per chiuderli e infilarli nella tasca della giacca dove stava il mio tesserino. Quando ero entrato il mio viso non aveva tradito subito la mia perplessità nel vedere quella scena che aveva dell’assurdo, eppure ricordo che la sua voce acuta ma non fastidiosa mi aveva chiesto il motivo del mio stupore. Avevo sorriso appena appoggiando la valigetta sul tavolo di metallo e sedendomi davanti a lei che, con le manette ai polsi era stata bloccata alla sedia nonostante paresse la persona più tranquilla del mondo; l’avevo vista studiarmi attentamente e sorridere di rimando attendendo una mia risposta puntandomi addosso i suoi occhi. Le avevo risposto che vedere una ragazzina di forse sedici anni vestita solo di un abito bianco ammanettata ad una sedia di un ospedale non era una cosa molto normale, lei aveva riso appena per poi rispondermi qualcosa di assolutamente lecito ma che mi aveva fatto pensare nei giorni seguenti: e chi decide cos’è normale? Ricordo che mi ero presentato come il suo nuovo psicologo e le avevo posto alcune domande sul suo stato e sulle sue abitudini, rispondeva con tranquillità e con dei ragionamenti profondi che evidentemente non erano improvvisati ma elaborati negli anni. Poi l’avevo salutata dicendo che ci saremmo rivisti la settimana seguente e lei mi aveva salutato ringraziandomi per il tempo passato a parlare.


Ogni settimana la situazione si ripresentava con temi sempre nuovi e sbalorditivi, parlavamo di interessi e di conoscenze, di pensieri su filosofi e di artisti, parlavamo di abbinamenti e di moda, di come vedevamo il mondo e di cosa vi fosse poi, parlavamo di tutto; piano a piano avevo imparato a conoscerla e a vedere attraverso i piccoli indizi che lanciava cosa vi fosse oltre alla sua maschera di ragazza felice. Ero riuscito a farle togliere le manette e lei si divertiva a scrivere sotto dettatura, le lasciavo pagine per scrivere e quando la rivedevo mi lasciava spiazzato con poesie intense; avevo convinto la sorveglianza che potevo farle fare una passeggiata e, nonostante l’obbligo di farla girare in sedia a rotelle, mi avevano concesso un’ora d’aria.

Finalmente vedo la sorveglianza entrare accompagnandola in quella sua lunga veste bianca, porta i capelli sciolti questa mattina e le ricadono lunghi fino al fondoschiena di quelle sfumature dovute ai colori che ha provato in adolescenza dalle punte decolorate di una tinta giallo-aranciata fino alle radici color cioccolato, gli occhi azzurri ghiaccio che hanno la capacità di diventare grigi, verdi o marroni in base alle sue emozioni  sono fissi davanti a lei come se non fosse realmente lì, il volto ovale e morbido dalla pelle pallida sembra assente nella sua consueta espressione di serenità dovuta alla forma delle labbra morbide e carnose color fragola che erano sempre piegate in un sorriso; uno degli accompagnatori, un ragazzo di circa trent’anni di altezza media, la supera di una testa mentre si china a liberarla dalle manette e non le rivolge nemmeno uno sguardo come sempre quindi la lasciano aspettando che entri io.
  
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