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Autore: Part of the Masterplan    23/01/2016    0 recensioni
"La colpa non era del tempo.
La colpa non era neanche del the che si era raffreddato, del bicchiere che aveva rotto la sera prima, degli acquerelli lasciati sul tavolo, della pioggia che ora – riusciva a sentirla – aveva iniziato a picchiettare sulle finestre. Come a confortarla, come a dirle che la colpa, alla fine, forse, non era nemmeno sua."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se ne stava raggomitolata sul divano, le mani giunte tra le gambe – fredde, tanto fredde che non si sarebbero mai scaldate, lo sapeva.
Dopo un po’ di tempo – abbastanza perché ora sembrasse inusuale – si ritrovava con la guancia appoggiata al cuscino e non sulle sue gambe. Quelle di chi, ancora una volta, ma forse per sempre, l’aveva lasciata sola.
La stoffa di quel cuscino sembrava insopportabile, così com’era insopportabile il rumore dei pensieri che le vorticavano in testa. Le davano la nausea. Sul tavolino poco distante una tazza di the lasciato a raffreddare, un pacchetto di sigarette finito, consumate bulimicamente una dopo l’altra illudendosi che servisse per l’ansia, per lo stress.
Il freddo che sentiva intorno era poco, era niente.
In una giornata del genere cosa avrebbero fatto? Commentato una canzone, forse, riso di qualcosa. Qualcosa di sciocco, come tante altre cose, come il silenzio dall’altra parte della cornetta quando erano troppo lontani. Anche quel silenzio aveva un significato. Quel silenzio sapeva farla sorridere o riflettere. E quelle parole dette a metà. A cosa stai pensando?, A niente, e tu? Era bello provare a illudersi di riuscire a insinuarsi nei suoi pensieri. Durante quei silenzi lei passava l’indice sul profilo della cornetta, come se potesse accarezzargli le labbra e dirgli: “Va tutto bene, ora”.
In una giornata del genere lei avrebbe arricciato le dita dei piedi e chiesto qualcosa, una domanda lasciata a metà. Lui avrebbe giocato con le sue dita o le avrebbe pizzicato un braccio, facendo poi finta di non ridere, di essere serio. Lei, forse, nemmeno l’avrebbe guardato negli occhi. Anzi, gli occhi li avrebbe chiusi per godersi quei momenti di pace, silenziosi, da rubare. E poi avrebbe percorso l’orlo del vestito con un dito, sul tavolino ci sarebbero state due tazze di the fumante e un cd nuovo appena spacchettato.
Invece no, era sola.
Sola a sentire ogni scatto meccanico dei suoi pensieri, le spalle fragili, il cielo pallido, lo smalto malamente scheggiato.
 
Era seduta sulla sedia della cucina, la gamba destra tirata su, appoggiata al tavolo. Aveva un paio di shorts e una delle sue solite t-shirt delle sue band preferite. Chi erano quel giorno? Gli Oasis.
Sua sorella scuoteva la testa, come spesso faceva, quasi come se il suo ruolo di sorella maggiore fosse quello di rimproverarla dimenticandosi per un attimo che anche lei, qualche anno prima, aveva commesso degli sbagli. Ma erano stati proprio quegli sbagli a renderla la saggia, perfetta, consigliera presso cui rifugiarsi. Passeggiava avanti e indietro con addosso una camicetta rosa antico, scuoteva la testa arricciando appena le labbra. Fuori stava arrivando l’estate, sul fornello la caffettiera iniziava a sbuffare.
“Quello che voglio dire”, aveva riprovato, tentando un’altra via, giocando con una briciola “è che penso che questa volta le cose siano diverse…”
“Non sono diverse, Nina, e lo sai. Lo sai benissimo”.
Grace aveva ragione, Nina lo sapeva, ma ci avrebbe riprovato.
“Grace, è che… Forse era sbagliato il momento. Quando siamo insieme tutto va bene, ma forse era il momento che –”
“Stronzate”. Di rado Grace si lasciava andare a commenti tanto netti. “Sono stronzate. Non è colpa del momento, il momento non ha nessuna colpa. Il tempo non ha nessuna colpa. Le occasioni, di conoscersi, di vivere qualcosa, di condividere qualcosa, arrivano e basta. Non ci sono momenti giusti o sbagliati, ma solo momenti. Il resto sono ottime giustificazioni che diamo a noi stesse. Vuoi continuare a stare male? A riprovarci? A credere che questa volta sarà diverso? Fai pure, ma non dire stronzate”.
In una conversazione-tipo, Nina avrebbe ribattuto che certe cose le diceva solo perché aveva trovato l’uomo giusto per lei. Eppure quella volta non lo fece. Rimase a guardarla, mentre l’aroma del caffè invadeva la cucina e le sue dita diventavano sempre più fredde.
Come se sapesse che parecchi mesi dopo quelle parole le sarebbero ritornate in mente.
Insieme alle dita fredde.
 
La colpa non era del tempo.
La colpa non era neanche del the che si era raffreddato, del bicchiere che aveva rotto la sera prima, degli acquerelli lasciati sul tavolo, della pioggia che ora – riusciva a sentirla – aveva iniziato a picchiettare sulle finestre. Come a confortarla, come a dirle che la colpa, alla fine, forse, non era nemmeno sua.
 
La legna nel camino scoppiettava, nella stanza accanto. Aveva iniziato a percepirne lo scricchiolio sommesso solo adesso, rallentando il corso dei pensieri, con gli occhi chiusi.
Riaprirli, lo sapeva, avrebbe voluto dire ricominciare a vedere il mondo con dei colori che non sentiva suoi. Opachi, sbiaditi, troppo poco intensi.
Rosa antico, come la camicetta di sua sorella Grace.
 
Sospirò, era ancora capace a farlo?
Si sarebbe ancora macchiata le dita d’inchiostro, sarebbe ancora scivolata sul pavimento della cucina piangendo; avrebbe bevuto ancora tanto – forse troppo – e si sarebbe intontita con la sua musica preferita, ma saltando tutti i brani che le ricordavano lui. Oppure ci si sarebbe crogiolata, rigirata tra le parole, lasciandosi ferire, lasciandosi svuotare.
Si chiedeva come fosse possibile.
Era così tanto presente. Nelle vene. Era solita dirlo, ripeterlo, pensarlo, sentirlo.
Ma Grace ancora una volta aveva ragione. Stronzate.
 
L’aveva capito quando, tremando, gli era rimasta davanti con le lacrime agli occhi. Era paralizzato, non riusciva a fare altro che allungare la mano sulla sua spalla. Zitto, forse terrorizzato più di lei. Incapace di scegliere, di abbracciarla, di dirle davvero cosa pensava.
L’aveva capito quando erano stati altri a poterli definire, l’aveva capito quando si era sentita dire “I suoi occhi dicono tutto”, ma lui, i suoi stessi occhi, non sapeva nemmeno che sguardo avessero.
L’aveva capito quando i ricordi non erano nient’altro che un paio di foto da staccare dal muro, una t-shirt, un biglietto di un concerto e qualche foglio scarabocchiato. Quando i ricordi erano diventati oggetti, privi di qualunque significato.
L’aveva capito quando, prima di molte volte, aveva chiesto a se stessa: “Mi sono inventata tutto? L’ho sognato? E’ successo davvero?”
L’aveva capito quando non c’era nient’altro in cui sperare.
L’aveva capito, lì, con gli occhi chiusi e le mani fredde. Da sola.
 
Sola. E nient’altro.
 
Schiuse le palpebre.
La camicetta di Grace. Era rosa antico.
  
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