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Autore: VaticanCameos221B    23/01/2016    4 recensioni
Ti presi in braccio e non fu né la prima, né l’ultima volta. In futuro non ti avrei sorretto soltanto con le mie braccia, ma anche con le mie spalle, le mie gambe, le mie mani, l’intera mia esistenza. Sei cresciuto in fretta come un’epidemia e ti sei preso tutto. Ti ho concesso tutto. Feci la vergognosa e sconsiderata conclusione che sarei vissuto da quel momento in poi sotto la tua ombra, come quello ormai escluso e privo di ogni considerazione. Mi sbagliavo.
[Holmes Brothers]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Redbeard, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti! Questo è un profilo doppio come ben sapete, ma ora sono solo io a parlare, Mizu. Questa è una storia unicamente scritta dalla sottoscritta e ispirata al legame tra i fratelli Holmes! Spero che possa piacervi *-* a presto!

Disclaimers: I personaggi appartengono a Sir Arthur Conan Doyle, alla BBC, a Steven Moffat e Mark Gatiss, e sono utilizzati senza alcun scopo di lucro e nel rispetto dei copyrights.

Crediti Fan Art: Whimsycatcher.

 

DUE FRATELLI



 

Spodestato. Ero esattamente questo quando nostra madre mi annunciò con i suoi occhi di vetro che saremmo stati ben presto una famiglia “allargata”.  Non sarei stato più il principale, il protagonista al centro del palco, il figlio prediletto, l’unico vero orgoglio della famiglia. Avrei perso la carica, la precedenza, il potere. Messo in disparte come un qualcosa di ormai scontato e noioso.

Allargare.

Più sorrisi, più risate irragionevoli, lacrime - ancora più irragionevoli -, grida, crisi isteriche, voglia di suicidarsi, visite di parenti che speravo fossero da tempo seppelliti sotto quintali di terra e mi chiedo quale razza di stregoneria li tenga ancora in vita. Ostinazione, probabilmente. La costanza con la quale ancora si permettevano a condividere la loro misera esistenza al solo scopo d’irritarmi. 
Confusione, invasione dei propri spazi conquistati a fatica, pannolini, vomito, capricci da compiacere per il nuovo successore. Il “piccolo della famiglia” che avrebbe prontamente violentato la mia tranquillità e l’intera esistenza come un tumore.

Oh, allargare, dicevano, con così tanta inspiegabile e nauseabonda allegria.
Io pensavo invece che saremmo stati più stretti.


Come se le vacanze di Natale non fossero abbastanza raccapriccianti, poco dopo la fine di queste arrivasti tu. Eri poco più che una palla di carne dai folti ricci scuri. Strillavi manco avessi l’inferno in gola. Il ghiaccio e il vetro dei tuoi occhi erano identici a quelli di nostra madre. Me li ricordo ancora i suoi occhi di allora. Erano altrove. Lei ti guardava, ed era come vedere la figura di una donna all’interno di un quadro, nell’immagine di una fotografia. Qualcosa che puoi solo ammirare da lontano e non puoi toccare. La sua felicità era così immensa da sembrare surreale, abbagliante. Ti reggeva tra le braccia ed era come se reggesse l’intero universo. La cosa più bella al mondo. Che sia questo, l’amore? Pensai. Sembrerebbe invidia, la mia, ma non lo era. Non del tutto. Per un attimo provai stupefazione. L’atto di procreazione alla mia giovanissima e inutile età di sette anni non era minimamente contemplato e, da lì al mio avvenire mi sarebbe stato sempre indifferente, privo di gusto e d’utilità. Eppure.

Eppure eccoti. La creazione, la nascita, il capolavoro, l’essere. Un futuro uomo. L’aspettativa, la speranza. Eri tutto ed eri ancora niente. Ma saresti stato qualcosa, qualcosa di stupefacente, la prima sensazione che provai la prima volta che ti vidi. Ironico come la parola stupefacente si sarebbe in futuro ripercossa su di te.

 
«Mycroft, vuoi prendere tuo fratello in braccio?» Mi domandò nostra madre ridestandosi da quella contemplazione divina, con ancora il viso provato dalla stanchezza che non era nulla in confronto a tutta quella forza - quasi sfacciata - che sfoggiava e che non le mancava mai.

«Non credo sia il caso.»

Me ne stavo a debita distanza, affianco a nostro padre che si allontanò per sederle accanto sul bordo del letto d’ospedale mentre sparava una lista di nomi più improbabili ed imbarazzanti senza che nessuno dei due lo ascoltasse.

«Hai paura?» Mi canzonò inclinando il viso di lato. Lo faceva sempre.

«Come potrei aver paura di una palla di grasso di appena quattro chili? Ho paura che mi rigurgiti addosso dicendo addio per sempre ai miei vestiti, questo te lo concedo.»

«Non ti vomiterà addosso, non temere. Per favore, Mike, sono molto stanca, prendilo un po’ in braccio. Tuo padre è così agitato che rischierebbe di farlo cadere.»

«E il problema, esattamente, quale sarebbe?»

Stendeva verso di me quelle sue braccia grassocce e bianche che ti reggevano, ed io avrei dovuto prenderti tra le mie con la stessa allegria di un’ulcera.

«Mycroft.» Tuonò il mio nome e capii che non c’erano più storie da fare.

Ti presi in braccio e non fu né la prima, né l’ultima volta. In futuro non ti avrei sorretto soltanto con le mie braccia, ma anche con le mie spalle, le mie gambe, le mie mani, l’intera mia esistenza. Sei cresciuto in fretta come un’epidemia e ti sei preso tutto. Ti ho concesso tutto. Feci la vergognosa e sconsiderata conclusione che sarei vissuto da quel momento in poi sotto la tua ombra, come quello ormai escluso e privo di ogni considerazione.

Mi sbagliavo.

Non persi mai la mia posizione di alpha. In primo luogo perché non ho mai perso il potere. In secondo, perché ero fondamentale per la tua crescita, ero fondamentale per te. E lo ero anche per nostra madre e nostro padre che alle volte non ce la facevano. Si arrendevano. Mollavano la presa, e toccava a me ripescarti nel mare dei tuoi disastri.

«Che ne dite del nome Sherlock?» Esclamò papà come avesse avuto l’illuminazione del secolo.

«Sembra un nome da femmina!» Sbottai indignato, ma parve piacerti; ti rigirasti tra le mie braccia e accennasti un sorriso sdentato. Eri alquanto brutto, osservai. Un orribile gnomo rosa e grassoccio, che sarebbe diventato il più arrogante degli stronzi, insensibile, impulsivo, orgoglioso, dalle abitudini sconsiderate ed eccezionalmente intelligente. Per l’esattezza, mio fratello.

William Sherlock Scott Holmes.

Un solo nome non ti bastava. Presuntuoso ed egoista fin dal principio.
 

Strano.

La parola “strano” con la quale t’identificavano a scuola era limitativa, poco specifica. Inconclusa. Priva di dettagli. “Un ragazzo fuori dall’ordinario”. Come se la normalità fosse una legge assoluta o una scienza esatta. Il tuo problema non era la stranezza. Tutti siamo strani a modo nostro, tutti abbiamo un lato incomprensibile agli occhi degli altri. Il tuo o meglio, il nostro problema è questo mondo di pesci rossi. Gente incapace di evolversi, osservare, capire. In un continuo vorticare intorno a vecchi ideali, convinzioni. Spaventati dal nuovo, dal diverso e, alle volte, dalla tua intelligenza. Non eri strano. Tu, semplicemente, capivi.

 
«I mie compagni di classe sono stupidi!»

Non era insolito da parte tua subentrare con un fastidiosissimo broncio a sette anni, lamentandoti per ogni cosa che definivi ridicola o noiosa, interrompendo i miei vani tentativi di studiare in silenzio e in solitudine.

«La cosa non mi sorprende, Sherlock. Sono bambini. È nella loro natura essere stupidi. Probabilmente tentavano solo di fare amicizia. Sentiamo, cosa ti hanno detto questa volta?»

Rassegnato, mi riducevo a distaccare lo sguardo dai libri o mi avresti lanciato uno dei tuoi stupidi giocattoli affinché ti dessi ascolto. Quando t’infervoravi, non stavi fermo un istante. Camminavi avanti e indietro, parlando con voce cantilenante, gesticolando con le mani e con le guance che s’imporporavano. Nostra madre ti trovava tenero, io patetico.

«Dicono che sono un idiota perché non sto mai zitto e faccio l’intelligentone solo perché mi piace ricevere i complimenti dalle maestre. Sono loro ad essere stupidi da non riuscire a risolvere un semplicissimo problema di matematica!» Esclamasti dando un calcio al bordo del letto. Sicuramente il problema in questione era senz’altro un esercizio di matematica dell’ultimo anno. Non c’era poi da stupirsi se non tutti riuscissero a risolverlo, tranne te, ovvio. Nostra madre era pur sempre una matematica che rinunciò alla carriera per i figli. Suppongo che il contrario le avrebbe portato più profitti. «E poi…» Affievolivi la voce abbassando lo sguardo e ti contorcevi le dita delle mani quando esitavi. «La mamma di David dice che forse sono autistico. Che cosa vuol dire, Mycroft?»

Quando mi ponevi certe domande dalla risposta così elementare, con quegli occhi cristallini così smarriti e innocenti, ti vedevo per ciò che allora eri veramente. Un bambino. Eri solamente un bambino e avevi dei limiti. Un bambino che doveva continuamente lottare contro se stesso per adattarsi, per essere accettato da chi invece non lo faceva e che a stento, riusciva a vederti né tanto meno a capirti.

«Sherlock, ascoltami bene. Qualsiasi cosa loro dicano su di te, non dargli ascolto. Non ha importanza, credimi. Tu sei esattamente come sei, e devi essere ciò che tu vuoi essere nella vita. Preoccuparsi degli altri e di ciò che loro pensano, non è un vantaggio. Non otterresti nulla. La tua diversità deve essere un vantaggio, Sherlock. Mai il contrario. Mi sono spiegato?»

Benché avessi ancora lo sguardo confuso, sapevo che avevi afferrato il concetto e seppur con un iniziale fatica, imparasti a non importartene e col tempo t’isolasti concentrandoti unicamente sullo studio, diventando in futuro, ciò che adesso vieni a volte definito “una macchina senza cuore”. Io credo che quella macchina, sia invece solo l’involucro che usi per timore che il tuo cuore possa venir infranto. Così, lasci che a ferirlo, stropicciarlo ed infine quasi ad arrestarlo, siano solo le gesta delle tue malsane, deboli e vergognose azioni.

«Da grande voglio fare il pirata!» Esordisti così, mandandomi in confusione.

«Come?» In certi momenti la mia fiducia in te svaniva drasticamente e mi consolava il semplice fatto di rimanere il solo e unico vero intelligente della famiglia.

«I pirata sono scaltri, sono forti, intelligenti e non hanno paura di nulla! Gliela farò vedere io, a quegli stupidi! Gli infilzerò il sedere con la mia spada!» Iniziasti a volteggiare per la camera sventolando la tua ridicola spada di plastica.


Un altro aspetto ironico del tuo voler essere un pirata, è che sarebbe stato un po’ come una metafora della tua vita. Il tuo continuo trarre vantaggio dalle stupidità e le ignoranze altrui, così come le disgrazie, per il semplice esaltare il tuo narcisistico intelletto. In questo, siamo identici.
 
 
 
   
 
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