Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: TonyCocchi    24/01/2016    3 recensioni
Raccolta di episodi AU ispirati al film Pearl Harbor (2001), in cui i vari personaggi di Attacco dei Giganti diventano soldati e civili americani durante l’attacco a sorpresa dei giapponesi alla base americana durante la Seconda Guerra Mondiale. Eren, Mikasa, Levi e tanti altri si incrociano con una delle pagine più tragiche della storia: tanta drammaticità, tantissima azione… e anche qualche pairing che non guasta mai!
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eren Jaeger, Hanji Zoe, Mikasa Ackerman, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Ciao a tutti! Ecco che questa storia è pronta a rimettersi in moto! È rimasta per un po’ di tempo in sospeso, oltre che per un sacco di impegni, perché nel frattempo sono stato preso da un’altra ispirazione estemporanea, sempre su Attack on Titan; colgo l’occasione per invitarvi a dare un ‘occhiata!

(“Attack on Titan Swapped! – Io non mi arrenderò”: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3362511&i=1 ).

Sebbene non senta più la stessa spinta creativa dei primi capitoli, cercherò di recuperarla, e di portare a termine questa emozionante raccolta di scorci sull’attacco di Pearl Harbor, ispirati dall’omonimo film e magistralmente “interpretati” dai nostri personaggi di AoT! ^__°

In questo capitolo ci sarà un solo episodio in luogo dei soliti due, un po’ come uno spartiacque tra quelli ambientati durante e i prossimi che saranno ambientati dopo il termine dell’attacco.

Fan di Jean, stavolta tocca a voi! ^__°

Buona lettura!

 

 

 

<< Dannazione! Dannazione! >>

A quel punto della giornata, Jean aveva ormai terminato da un pezzo la sua scorta di imprecazioni.

<< Non era così che doveva andare, dannazione! >>

Quel macello era tutto meno quel che si era aspettato dalla sua carriera militare. I Kirstein erano una buona famiglia dell’east coast, e grazie al loro nome e alle loro conoscenze, il loro rampollo si era garantito un facile accesso all’accademia, da cui era uscito in maniera brillante come sottotenente. Non era stato invece molto entusiasta della sua assegnazione lì nel pacifico, ma a suo tempo decise l’avrebbe sopportata di buon grado come una lunga vacanza fuori programma, con la garanzia di un trasferimento vicino casa al termine del periodo, e con un’altra promozione magari, se fosse riuscito a distinguersi: capacità non gliene mancavano come non gli mancavano gli agganci.

<< Porca puttana! Mancavano solo due mesi! Cazzo! >>

Non era così che doveva andare: ancora due mesi e sarebbe tornato nel suo mondo, il mondo tranquillo e appagante della gente per bene, dei salotti dove lo aspettavano le lodi di parenti e conoscenti, e le bellissime e danarose debuttanti in società da corteggiare coi gradi di ufficiale in bella mostra sulla divisa, dal risaputo, irresistibile, fascino. Rispetto, comodità, carriera, e ragazze, ragazze, ragazze. Un piano perfetto per una vita perfetta, al riparo da guai di ogni genere.

“FRANZ! FRANZ!”
“Che qualcuno la faccia tacere, per la miseria!”

Va bene la pietà, ma era ormai un quarto d’ora che quella tipa continuava a spaccare i timpani, inginocchiata accanto al cadavere del suo fidanzato: come se i suoi nervi non fossero già abbastanza a pezzi.

Ordinò a un soldato di allontanarla, cosa che, in quanto lei civile, avrebbe dovuto fare già da un po’, ma quella tipa aveva abusato fin troppo della sua umanità. Ordinò anche di coprire il corpo in qualche modo e portarlo via al suo posto, sul retro dell’ospedale, dove Mikasa gli aveva detto di radunarli.

Si massaggiò le palpebre e respirò profondamente, sperando bastasse a lenire il mal di testa: troppe scene strazianti in un solo mattino, ne aveva davvero abbastanza, e grazie al cielo era riuscito a tenersi distante dal vivo della battaglia, se battaglia si poteva definire quella che sarebbe di sicuro passata alla storia come una delle più grandi disfatte mai subite dall’America. Lui e i suoi uomini mantenevano in qualche modo l’ordine fuori dell’ospedale preso d’assalto, arginando il caos in ogni modo possibile, assicurandosi che gli ordini dei sanitari di far passare solo i gravi salvabili venissero rispettati, o ancora aiutando nel trasporto di feriti, che le ambulanze che facevano la spola tra il porto e lì continuavano a scaricare senza sosta nella piazza, di materiale vario, e ovviamente di innumerevoli corpi.

Un compito gravoso, utile, e sicuro. Qualcuno su quel “sicuro” avrebbe calcato l’accento, ma dopotutto aveva solo ventitré anni, e zero voglia di morire, e non sentiva affatto di doversi vergognare di ciò: era solo un essere umano, e tantissimi altri, con la possibilità offertagli dalla sua posizione di comando, avrebbero di sicuro agito come lui. Uno entrato sotto le armi con delle motivazioni come le sue, non era fatto per cose come cercare di portar salva la pelle, propria e dei sottoposti, sotto il fuoco e le bombe del nemico: abbondava di paura e peccava di sconsideratezza, come quella che aveva fin sopra ai capelli quell’impertinente caporale dei marines, nonché fratello adottivo della sua musa, l’adorata Mikasa. Lui si che ce lo vedeva là fuori, a dirigere contrattacchi, incitare gli uomini, spingerli a superare sé stessi per tener testa e dare una meritata lezione al vile nemico che li aveva aggrediti a quel modo.

Ma lui no. Lui era un debole. Non aveva alcun eroe da tirar fuori da sé stesso o dagli altri intorno a lui.

“Coraggio, ti aiuto!”

Darsi un tono gridando ordini smargiassi per cercare di imporre un qualche ordine, rassicurare uomini sotto shock che i propri compagni intrappolati nelle navi affondate sarebbero stati presto soccorsi, aiutare zoppi sanguinanti a trascinarsi fino alla porta dell’ospedale…

“La ringrazio… signore…”

“Aspetta qui che passi qualche infermiera.”

Questo era tutto quel che poteva fare in quella situazione.

Si passò il braccio sulla fronte. La sua divisa era unta di sudore, il suo cappello l’aveva gettato chissà dove chissà quando: quanto odiava il caldo hawaiano.

Eppure anche sotto quella cappa, i moribondi, qui e lì sui margini del piazzale, pallidi come neve, riuscivano a tremare come si tremava d’inverno dalle sue parti.

“S-signore, p-perché non mi hanno fatto entrare?”

“Non hanno posto… Pazienta un po’…” –cercò di consolarlo, maledicendosi per essere codardo al punto da scostare lo sguardo dai suoi occhi pronti a spegnersi da un momento all’altro, e dalla inutile “m” rossa segnatagli sulla fronte… Tutta la morfina era andata da un pezzo ormai: l’infermiera Renz, incrociata poco prima, sfatta come le avessero succhiato via l’anima, gli aveva rivelato che ormai di dentro erano costretti ad intontirli col whisky in luogo dell’anestetico…

Diede una pacca al compagno che gli restava accanto nei suoi ultimi momenti, ed attraversò, con passo marziale e veloce, la piazza, incrociando nuovamente Mikasa, intenta a chiudere gli occhi a un poveraccio rimasto senza entrambe le gambe.

“Jean, puoi farlo portare sul retro?”

“Va bene. Soldato, dammi una mano.”
“Sissignore.”

“Grazie per l’aiuto che ci stai dando.”

Provò a sorriderle, ma non ci riuscì, le sue labbra erano come inchiodate; del resto, sarebbe stato fuori luogo in mezzo a tanta miseria.

Bella, abilissima, incrollabile, e irraggiungibile.

In momenti come quello faceva ancora più piacere ricordarsi delle tantissime, dolci e disponibili ragazzuole che lo aspettavano negli States ansiose di farsi invitare a ballare da lui.

“Due mesi… Fanculo…”

“Come, signore?” –domandò il soldato che lo aiutava a trasportare quel corpo.
“Niente!”

La sua attenzione cascò sul loro carico: non avevano avuto modo di coprirlo, e, tenendolo per le spalle, aveva il suo volto privo di vita proprio sotto il naso. Gli occhi erano ancora aperti, il viso contrito e bagnato di lacrime per il dolore provato fino all’ultimo. Era una vista insopportabile. Ma dall’altro lato avrebbe dovuto trasportarlo per i due moncherini maciullati che erano quel che rimaneva delle sue gambe, e non voleva che il disgusto lo sopraffasse, almeno non davanti i suoi soldati.

Il lato dell’ospedale era diventato una distesa ordinata e triste di corpi allineati all’ombra; i muri dell’edificio descrivevano lì un angolo ormai completamente occupato, vide perciò che avevano iniziato a disporli sull’aiuola adiacente al perimetro. Appena adagiato il corpo ai piedi di una palma venne colto da un immenso sollievo: non avrebbe dovuto offrirsi per quel compito solo per impressionare Mikasa. O forse era stata quella famosa “empatia”, della quale, per qualcuno, ne possedeva in abbondanza, a dispetto delle apparenze, sempre a detta di quel qualcuno...

Tutti quei morti. Non faceva proprio per lui. Non era fatto per la guerra. Non aveva mai desiderato tutto ciò. Ma ora la guerra tanto lontana, tanto affare d’altri, lo aveva raggiunto, spaventosa e crudele. Gli si strinse il cuore al pensiero di poter diventare un corpo addossato a un muro, abbandonato a sé tra i suoi simili in attesa di un po’ di tempo per occuparsene degnamente, e quel pensiero accelerò i suoi passi per allontanarsi da quel luogo e da quella possibilità il prima possibile.

Voleva andare a casa. Vedere i suoi genitori, i suoi amici, e riabbracciarli tutti, sentirli vivi tra le sue braccia, per cancellare anche il ricordo del tocco di poco prima. Forse con gli agganci della sua famiglia e qualche mazzetta sarebbe riuscito a scamparla, a farsi assegnare il più lontano possibile da quella barbarie con cui non voleva avere niente a che fare, che se la godessero Jaeger e quelli come lui.

A un certo punto, incrociò un viso conosciuto, seduto come altri sul ciglio del viottolo, e la fretta sparì.

 

“Marco… sei tu?” –gli domandò.

 

Come potesse ancora rispondergli.

 

“Che ti è successo?”

 

Come non lo vedesse benissimo.

 

Gli mancava un braccio, e metà testa. Il rigor mortis aveva trasformato i suoi muscoli in marmo, sformandone l’espressione, digrignando i suoi denti in un espressione che ben poco aveva di umano.

“Come? Perché?” –seguitò a balbettare.

La guerra lontana, la guerra di altri, la guerra coi morti che non conosci e di cui ti può lavare le mani, sembrava ridere di lui dalle contratte labbra violacee di quel resto umano che era stato il suo migliore amico dai tempi dell’accademia.

Marco Bodt era diverso da lui, era un tipo a posto, mica un altro bellimbusto tutto soldi, grado e ragazze.

No, lui era di quegli strambi individui che avevano ideali, di quelli che si arruolano perché davvero vogliono servire il proprio paese, in ogni momento, difenderlo, farlo funzionare al meglio, rendergli onore. Di quelli che quando la situazione lo richiede non cercano nascondigli, né giustificazioni, ma fanno solo il loro dovere. Di quelli che la divisa la portano con orgoglio, quasi a commuoversi, senza stare a contare le ragazze che vi posano gli occhi ammaliate.

 

“Dovresti pensare anche un po’ a divertirti ogni tanto, sai?”

“Oh, per quello ci sei tu, Jean! Su di te so che posso contare!”
“Mica solo in tal senso, eh?”
“Ah ah ah!”

 

Di quelli cento volte migliori di lui. Di quelli che avrebbero meritato di vivere cento volte di più di tanti altri che, col sedere ben parato, se ne restano lontani a guardare.

Invece lui era quello vivo, ratto su una nave in burrasca che bramava a tutti i costi di abbandonare, e, lui, Marco, un sacco di carne scempiato ammassato a ridosso di un muro.

 

 “Marco… Non farti ammazzare…”

“In bocca al lupo anche a te, Jean!”

 

Senza dubbio era stata un’esplosione: la sua testa spaccata era un tripudio di cervella, il suo torace si apriva come un guscio svuotato, una crisalide dagli orli abbrustoliti, con dentro ancora qualche rimasuglio di budella viscide e maleodoranti.

Poi furono le sue di budella a venire alla ribalta, torcendosi e ribollendo dentro di lui. Riuscì ad impedirsi di mancare di rispetto ai cadaveri allineati vomitandoci sopra, svuotando il contenuto del proprio stomaco in un cespuglio lì vicino. Non aveva mai avuto conati tanto violenti, gli sembrava qualcuno lo stesse prendendo a pugni sulla pancia.

Si accasciò a terra, trascinandosi col respiro corto fino a una parete, contro cui si sedette.

Il dolore non esplose come pianto, ma come un grido, forte e rauco, da lacerargli la gola, intriso di rabbia da rivolgere contro tutto fuori e dentro di sé.

 

“Jean, l’America non resterà indifferente, non può permetterselo: credimi, non è questione di “se”, ma di “quando” entreremo in guerra contro l’Asse.”

“Si, ma tu non hai mica intenzione di farti mandare in Europa se davvero accadesse, no?

“Se ci verrà ordinato non avremo poi molta scelta, no?”

“Scherzi?! Te l’ho detto, Marco, non hai di che preoccuparti, posso far sì che mio padre metta una parola con…”

“Jean, lo sai che questi discorsi non mi piacciono! Se ci sarà bisogno, farò il mio dovere, punto.”

“… Mah… Sei proprio fuori dall’ordinario tu, Marco.”

 

Sbatté i pugni a terra, ferendosi su un sassolino appuntito senza sentirlo neanche. Ricominciò a urlare, come anche la sua testa stesse per scoppiare.

Maledetti i giapponesi, maledetto il genere umano e le sue guerre, maledetto sé stesso per non aver capito niente. Non aveva mai capito niente, di cosa significasse essere un soldato, e di cosa significasse essere un vero uomo.

 

“Empa-che?”

“Significa comprendere i sentimenti degli altri. Jean, tu sei una persona molto umana, ben conscia delle sue paure e dei suoi difetti, senza vergognartene; anzi, proprio perché sei così comprendi gli altri esseri umani, pieni come sono di difetti e paure.”

“Beh… Dici? Sono bei paroloni, ma… Di solito mi dicono solo che sono un gran egoista.”

“Oh, poco ma sicuro! Ma sei senza dubbio l’egoista più empatico che io conosca! Fidati, secondo me sei davvero portato per fare il comandante!”

 

Aveva trascorso la sua vita a guardare dall’alto in basso o da un’altra parte, mentre altri che come lui avrebbero potuto mettersi al sicuro erano andati a morire esattamente come quegli innumerevoli “anonimi” poveracci, che quel giorno non avevano certo chiesto di finire in quel modo e che fino a ieri sognavano come lui di tornare al calore delle proprie case.

Era solo un bamboccio, tutto preso da obiettivi e pensieri sbagliati.

C’erano volute una guerra e la morte del suo migliore amico per capirlo.

 

 

 

Jean è sicuramente uno dei personaggi più di spessore nella serie, capace di crescita nel corso della stessa, e di far immedesimare i lettori grazie alla sua “normalità”. In questo capitolo ho quindi voluto mostrare tutta la sua umanità, fatta di gretti egoismi e insieme di grande generosità, di spocchia e codardia, come di parole gentili e gesti d’aiuto verso i più deboli. Possiamo star certi, una volta superato il dolore, che tale scena orribile sarà per il “sottotenente Kirstein”, come nella serie, il suo momento di svolta e di rinascita.

Ed ecco che ancora una volta il povero Marco ci va di mezzo… T_T Però mi è piaciuto molto riscrivere la scena del suo ritrovamento in questa veste da seconda guerra mondiale, e spero vi sia piaciuta!

Alla prossima!

  
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