Ciao a tutti! Ecco che questa storia è pronta a
rimettersi in moto! È rimasta per un po’ di tempo in sospeso, oltre che per un
sacco di impegni, perché nel frattempo sono stato preso da un’altra ispirazione
estemporanea, sempre su Attack on Titan; colgo l’occasione per invitarvi a dare
un ‘occhiata!
(“Attack on Titan Swapped! – Io non mi arrenderò”:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3362511&i=1 ).
Sebbene non senta più la stessa spinta creativa
dei primi capitoli, cercherò di recuperarla, e di portare a termine questa
emozionante raccolta di scorci sull’attacco di Pearl Harbor, ispirati
dall’omonimo film e magistralmente “interpretati” dai nostri personaggi di AoT!
^__°
In questo capitolo ci sarà un solo episodio in
luogo dei soliti due, un po’ come uno spartiacque tra quelli ambientati durante
e i prossimi che saranno ambientati dopo il termine dell’attacco.
Fan di Jean, stavolta tocca a voi! ^__°
Buona lettura!
<< Dannazione!
Dannazione! >>
A quel punto della giornata, Jean aveva ormai
terminato da un pezzo la sua scorta di imprecazioni.
<< Non
era così che doveva andare, dannazione! >>
Quel macello era tutto meno quel che si era
aspettato dalla sua carriera militare. I Kirstein erano una buona famiglia
dell’east coast, e grazie al loro nome e alle loro conoscenze, il loro rampollo
si era garantito un facile accesso all’accademia, da cui era uscito in maniera
brillante come sottotenente. Non era stato invece molto entusiasta della sua
assegnazione lì nel pacifico, ma a suo tempo decise l’avrebbe sopportata di
buon grado come una lunga vacanza fuori programma, con la garanzia di un
trasferimento vicino casa al termine del periodo, e con un’altra promozione
magari, se fosse riuscito a distinguersi: capacità non gliene mancavano come
non gli mancavano gli agganci.
<< Porca
puttana! Mancavano solo due mesi! Cazzo! >>
Non era così che doveva andare: ancora due mesi e
sarebbe tornato nel suo mondo, il mondo tranquillo e appagante della gente per
bene, dei salotti dove lo aspettavano le lodi di parenti e conoscenti, e le
bellissime e danarose debuttanti in società da corteggiare coi gradi di
ufficiale in bella mostra sulla divisa, dal risaputo, irresistibile, fascino.
Rispetto, comodità, carriera, e ragazze, ragazze, ragazze. Un piano perfetto
per una vita perfetta, al riparo da guai di ogni genere.
“FRANZ! FRANZ!”
“Che qualcuno la faccia tacere, per la miseria!”
Va bene la pietà, ma era ormai un quarto d’ora che
quella tipa continuava a spaccare i timpani, inginocchiata accanto al cadavere
del suo fidanzato: come se i suoi nervi non fossero già abbastanza a pezzi.
Ordinò a un soldato di allontanarla, cosa che, in
quanto lei civile, avrebbe dovuto fare già da un po’, ma quella tipa aveva
abusato fin troppo della sua umanità. Ordinò anche di coprire il corpo in
qualche modo e portarlo via al suo posto, sul retro dell’ospedale, dove Mikasa
gli aveva detto di radunarli.
Si massaggiò le palpebre e respirò profondamente,
sperando bastasse a lenire il mal di testa: troppe scene strazianti in un solo
mattino, ne aveva davvero abbastanza, e grazie al cielo era riuscito a tenersi
distante dal vivo della battaglia, se battaglia si poteva definire quella che
sarebbe di sicuro passata alla storia come una delle più grandi disfatte mai
subite dall’America. Lui e i suoi uomini mantenevano in qualche modo l’ordine
fuori dell’ospedale preso d’assalto, arginando il caos in ogni modo possibile,
assicurandosi che gli ordini dei sanitari di far passare solo i gravi salvabili
venissero rispettati, o ancora aiutando nel trasporto di feriti, che le ambulanze
che facevano la spola tra il porto e lì continuavano a scaricare senza sosta
nella piazza, di materiale vario, e ovviamente di innumerevoli corpi.
Un compito gravoso, utile, e sicuro. Qualcuno su
quel “sicuro” avrebbe calcato l’accento, ma dopotutto aveva solo ventitré anni,
e zero voglia di morire, e non sentiva affatto di doversi vergognare di ciò:
era solo un essere umano, e tantissimi altri, con la possibilità offertagli dalla
sua posizione di comando, avrebbero di sicuro agito come lui. Uno entrato sotto
le armi con delle motivazioni come le sue, non era fatto per cose come cercare
di portar salva la pelle, propria e dei sottoposti, sotto il fuoco e le bombe
del nemico: abbondava di paura e peccava di sconsideratezza, come quella che
aveva fin sopra ai capelli quell’impertinente caporale dei marines, nonché
fratello adottivo della sua musa, l’adorata Mikasa. Lui si che ce lo vedeva là
fuori, a dirigere contrattacchi, incitare gli uomini, spingerli a superare sé
stessi per tener testa e dare una meritata lezione al vile nemico che li aveva
aggrediti a quel modo.
Ma lui no. Lui era un debole. Non aveva alcun eroe
da tirar fuori da sé stesso o dagli altri intorno a lui.
“Coraggio, ti aiuto!”
Darsi un tono gridando ordini smargiassi per
cercare di imporre un qualche ordine, rassicurare uomini sotto shock che i
propri compagni intrappolati nelle navi affondate sarebbero stati presto
soccorsi, aiutare zoppi sanguinanti a trascinarsi fino alla porta dell’ospedale…
“La ringrazio… signore…”
“Aspetta qui che passi qualche infermiera.”
Questo era tutto quel che poteva fare in quella
situazione.
Si passò il braccio sulla fronte. La sua divisa
era unta di sudore, il suo cappello l’aveva gettato chissà dove chissà quando:
quanto odiava il caldo hawaiano.
Eppure anche sotto quella cappa, i moribondi, qui
e lì sui margini del piazzale, pallidi come neve, riuscivano a tremare come si
tremava d’inverno dalle sue parti.
“S-signore, p-perché non mi hanno fatto entrare?”
“Non hanno posto… Pazienta un po’…” –cercò di
consolarlo, maledicendosi per essere codardo al punto da scostare lo sguardo
dai suoi occhi pronti a spegnersi da un momento all’altro, e dalla inutile “m”
rossa segnatagli sulla fronte… Tutta la morfina era andata da un pezzo ormai:
l’infermiera Renz, incrociata poco prima, sfatta come le avessero succhiato via
l’anima, gli aveva rivelato che ormai di dentro erano costretti ad intontirli
col whisky in luogo dell’anestetico…
Diede una pacca al compagno che gli restava
accanto nei suoi ultimi momenti, ed attraversò, con passo marziale e veloce, la
piazza, incrociando nuovamente Mikasa, intenta a chiudere gli occhi a un
poveraccio rimasto senza entrambe le gambe.
“Jean, puoi farlo portare sul retro?”
“Va bene. Soldato, dammi una mano.”
“Sissignore.”
“Grazie per l’aiuto che ci stai dando.”
Provò a sorriderle, ma non ci riuscì, le sue
labbra erano come inchiodate; del resto, sarebbe stato fuori luogo in mezzo a tanta
miseria.
Bella, abilissima, incrollabile, e
irraggiungibile.
In momenti come quello faceva ancora più piacere
ricordarsi delle tantissime, dolci e disponibili ragazzuole che lo aspettavano
negli States ansiose di farsi invitare a ballare da lui.
“Due mesi… Fanculo…”
“Come, signore?” –domandò il soldato che lo
aiutava a trasportare quel corpo.
“Niente!”
La sua attenzione cascò sul loro carico: non
avevano avuto modo di coprirlo, e, tenendolo per le spalle, aveva il suo volto
privo di vita proprio sotto il naso. Gli occhi erano ancora aperti, il viso
contrito e bagnato di lacrime per il dolore provato fino all’ultimo. Era una
vista insopportabile. Ma dall’altro lato avrebbe dovuto trasportarlo per i due
moncherini maciullati che erano quel che rimaneva delle sue gambe, e non voleva
che il disgusto lo sopraffasse, almeno non davanti i suoi soldati.
Il lato dell’ospedale era diventato una distesa
ordinata e triste di corpi allineati all’ombra; i muri dell’edificio
descrivevano lì un angolo ormai completamente occupato, vide perciò che avevano
iniziato a disporli sull’aiuola adiacente al perimetro. Appena adagiato il
corpo ai piedi di una palma venne colto da un immenso sollievo: non avrebbe dovuto
offrirsi per quel compito solo per impressionare Mikasa. O forse era stata
quella famosa “empatia”, della quale, per qualcuno, ne possedeva in abbondanza,
a dispetto delle apparenze, sempre a detta di quel qualcuno...
Tutti quei morti. Non faceva proprio per lui. Non
era fatto per la guerra. Non aveva mai desiderato tutto ciò. Ma ora la guerra
tanto lontana, tanto affare d’altri, lo aveva raggiunto, spaventosa e crudele.
Gli si strinse il cuore al pensiero di poter diventare un corpo addossato a un
muro, abbandonato a sé tra i suoi simili in attesa di un po’ di tempo per
occuparsene degnamente, e quel pensiero accelerò i suoi passi per allontanarsi
da quel luogo e da quella possibilità il prima possibile.
Voleva andare a casa. Vedere i suoi genitori, i
suoi amici, e riabbracciarli tutti, sentirli vivi tra le sue braccia, per cancellare
anche il ricordo del tocco di poco prima. Forse con gli agganci della sua
famiglia e qualche mazzetta sarebbe riuscito a scamparla, a farsi assegnare il
più lontano possibile da quella barbarie con cui non voleva avere niente a che
fare, che se la godessero Jaeger e quelli come lui.
A un certo punto, incrociò un viso conosciuto,
seduto come altri sul ciglio del viottolo, e la fretta sparì.
“Marco… sei tu?” –gli domandò.
Come potesse ancora rispondergli.
“Che ti è successo?”
Come non lo vedesse benissimo.
Gli mancava un braccio, e metà testa. Il rigor
mortis aveva trasformato i suoi muscoli in marmo, sformandone l’espressione,
digrignando i suoi denti in un espressione che ben poco aveva di umano.
“Come? Perché?” –seguitò a balbettare.
La guerra lontana, la guerra di altri, la guerra
coi morti che non conosci e di cui ti può lavare le mani, sembrava ridere di
lui dalle contratte labbra violacee di quel resto umano che era stato il suo
migliore amico dai tempi dell’accademia.
Marco Bodt era diverso da lui, era un tipo a
posto, mica un altro bellimbusto tutto soldi, grado e ragazze.
No, lui era di quegli strambi individui che
avevano ideali, di quelli che si arruolano perché davvero vogliono servire il
proprio paese, in ogni momento, difenderlo, farlo funzionare al meglio,
rendergli onore. Di quelli che quando la situazione lo richiede non cercano
nascondigli, né giustificazioni, ma fanno solo il loro dovere. Di quelli che la
divisa la portano con orgoglio, quasi a commuoversi, senza stare a contare le
ragazze che vi posano gli occhi ammaliate.
“Dovresti
pensare anche un po’ a divertirti ogni tanto, sai?”
“Oh, per
quello ci sei tu, Jean! Su di te so che posso contare!”
“Mica solo in tal senso, eh?”
“Ah ah ah!”
Di quelli cento volte migliori di lui. Di quelli
che avrebbero meritato di vivere cento volte di più di tanti altri che, col
sedere ben parato, se ne restano lontani a guardare.
Invece lui era quello vivo, ratto su una nave in
burrasca che bramava a tutti i costi di abbandonare, e, lui, Marco, un sacco di
carne scempiato ammassato a ridosso di un muro.
“Marco… Non farti ammazzare…”
“In bocca al
lupo anche a te, Jean!”
Senza dubbio era stata un’esplosione: la sua testa
spaccata era un tripudio di cervella, il suo torace si apriva come un guscio
svuotato, una crisalide dagli orli abbrustoliti, con dentro ancora qualche
rimasuglio di budella viscide e maleodoranti.
Poi furono le sue di budella a venire alla ribalta,
torcendosi e ribollendo dentro di lui. Riuscì ad impedirsi di mancare di
rispetto ai cadaveri allineati vomitandoci sopra, svuotando il contenuto del
proprio stomaco in un cespuglio lì vicino. Non aveva mai avuto conati tanto
violenti, gli sembrava qualcuno lo stesse prendendo a pugni sulla pancia.
Si accasciò a terra, trascinandosi col respiro
corto fino a una parete, contro cui si sedette.
Il dolore non esplose come pianto, ma come un
grido, forte e rauco, da lacerargli la gola, intriso di rabbia da rivolgere
contro tutto fuori e dentro di sé.
“Jean,
l’America non resterà indifferente, non può permetterselo: credimi, non è
questione di “se”, ma di “quando” entreremo in guerra contro l’Asse.”
“Si, ma tu
non hai mica intenzione di farti mandare in Europa se davvero accadesse, no?
“Se ci verrà
ordinato non avremo poi molta scelta, no?”
“Scherzi?!
Te l’ho detto, Marco, non hai di che preoccuparti, posso far sì che mio padre
metta una parola con…”
“Jean, lo
sai che questi discorsi non mi piacciono! Se ci sarà bisogno, farò il mio
dovere, punto.”
“… Mah… Sei
proprio fuori dall’ordinario tu, Marco.”
Sbatté i pugni a terra, ferendosi su un sassolino
appuntito senza sentirlo neanche. Ricominciò a urlare, come anche la sua testa
stesse per scoppiare.
Maledetti i giapponesi, maledetto il genere umano
e le sue guerre, maledetto sé stesso per non aver capito niente. Non aveva mai
capito niente, di cosa significasse essere un soldato, e di cosa significasse
essere un vero uomo.
“Empa-che?”
“Significa
comprendere i sentimenti degli altri. Jean, tu sei una persona molto umana, ben
conscia delle sue paure e dei suoi difetti, senza vergognartene; anzi, proprio
perché sei così comprendi gli altri esseri umani, pieni come sono di difetti e
paure.”
“Beh… Dici?
Sono bei paroloni, ma… Di solito mi dicono solo che sono un gran egoista.”
“Oh, poco ma
sicuro! Ma sei senza dubbio l’egoista più empatico che io conosca! Fidati,
secondo me sei davvero portato per fare il comandante!”
Aveva trascorso la sua vita a guardare dall’alto
in basso o da un’altra parte, mentre altri che come lui avrebbero potuto
mettersi al sicuro erano andati a morire esattamente come quegli innumerevoli “anonimi”
poveracci, che quel giorno non avevano certo chiesto di finire in quel modo e
che fino a ieri sognavano come lui di tornare al calore delle proprie case.
Era solo un bamboccio, tutto preso da obiettivi e
pensieri sbagliati.
C’erano volute una guerra e la morte del suo
migliore amico per capirlo.
Jean è sicuramente uno dei personaggi più di
spessore nella serie, capace di crescita nel corso della stessa, e di far
immedesimare i lettori grazie alla sua “normalità”. In questo capitolo ho
quindi voluto mostrare tutta la sua umanità, fatta di gretti egoismi e insieme
di grande generosità, di spocchia e codardia, come di parole gentili e gesti
d’aiuto verso i più deboli. Possiamo star certi, una volta superato il dolore,
che tale scena orribile sarà per il “sottotenente Kirstein”, come nella serie,
il suo momento di svolta e di rinascita.
Ed ecco che ancora una volta il povero Marco ci va
di mezzo… T_T Però mi è piaciuto molto riscrivere la scena del suo ritrovamento
in questa veste da seconda guerra mondiale, e spero vi sia piaciuta!
Alla prossima!