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Autore: Stephen Tempest    24/01/2016    0 recensioni
"La mattina mi mettevo davanti a quel muro bianco, a fantasticare sui mille posti che avrei potuto visitare, sulle mille cose che avrei potuto fare.
Mi dicevano che ero matto ed era lì che dovevo stare. Ma io non mi offendevo, anche perché, che ero matto, era vero, visto che passavo il resto dei miei giorni in un manicomio."
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La mattina mi mettevo davanti a quel muro bianco, a fantasticare sui mille posti che avrei potuto visitare, sulle mille cose che avrei potuto fare.

Mi dicevano che ero matto ed era lì che dovevo stare. Ma io non mi offendevo, anche perché, che ero matto, era vero, visto che passavo il resto dei miei giorni in un manicomio.

Non per quello, però, non mi offendevo: per me c'era qualcosa di più bello, più profondo e che mi legava a quel muro bianco. Io amavo quel muro bianco.

Verso le dieci di mattina, un bruco andava spesso a strisciare su quella superficie, verso l'alto, verso l'ignoto; all'inizio ero un po' timido, ma poi ho incominciato a parlarci.

Si chiamava Sam, come mio fratello.

Spesso fino a sera, io e lui stavamo là, uno sulla panchina, l'altro sul muro, a parlare del più e del meno: delle medicine cattive che mi dava il dottore e del dolore che provavo in quella stanza grigia e cupa, dotata solo di un letto e della mia voglia di essere libero. Sì, essere libero: prendere un caffè, andare al cinema, trovare l'amore fra le “persone normali”. Fra le “persone sane”.

Non mi veniva mai a trovare nessuno; mi sentivo solo.

Certi giorni, durante le nostre conversazioni, con un po' di timidezza e di insicurezza, chiedevo a Sam: «Perché mi sento così solo?»

“Tu non sei solo: hai me!”

La conversazione si fermava spesso lì.

Rimanevamo in silenzio.

Dopo un po' ricominciavamo a parlare, ma mai osavamo riprendere il discorso lasciato in

sospeso: avevamo come paura che quello che ci saremmo detti avrebbe fatto del male ad entrambi.

Più a lui che a me, però.

A me avrebbe fatto solo del bene.

Un giorno, tuttavia, non lo facemmo: la conversazione non terminò.

«Sì, lo so; il punto è che tu non mi basti!» glielo dissi come se fossi stato un bambino che, davanti alla madre, implora l'acquisto di un giocattolo nuovo.

“Ma siamo così amici.” coglievo quasi un tono di delusione, nella sua voce. Sapevo che non gli piacevano questo genere di discorsi, ma la mia voglia di sapere superava il mio affetto nei suoi confronti.

«Lo so, ma io vorrei incontrare gente nuova; sai: parlare, mangiare ad un ristorante, chiedere informazioni a totali sconosciuti... come facevo una volta. Il problema è che, adesso, ho paura del resto del mondo: nessuno mi capisce, solo te lo fai.»

“Non potrai restare insieme a me per sempre! Manca poco al nostro addio, me lo sento.”

«Davvero?»

“Sì: tutte quelle cure credo stiano facendo effetto. Sei un matto che sa di essere matto, questa è una prova della tua guarigione.”

«Alla pazzia non c'è cura...»

“Ma non per questo non puoi guarire. La tua pazzia sta scomparendo non a causa delle medicine, ma a causa tua.”

«Che cosa intendi dire?»

“Ogni uomo, dentro di sé, fa un cammino che lo porterà ad essere colui che sarà nel futuro. Tu non sei nato per essere matto, tu sei nato per guarire dalla pazzia; questa è solo una fase della tua vita.

Ricordati: mai abbattersi, mai mollare perché tutto quello che incontrerai, in futuro, farà

parte del tuo io. - poi si fece serio - Tra poco guarirai. Forse ti dimenticherai di me: il giorno in cui te ne andrai da questo posto, anche io me ne andrò dalla tua vita.”

«Mi ricordi mio fratello...»

A quel punto il bruco non mi rispose. Non sapevo cosa gli fosse preso; provai a richiamarlo più volte ma non mi rispondeva. Se ne stava zitto.

Il giorno dopo tornai a sedermi su quella panchina, ma qualcosa era diverso dal solito.

Sam non c'era; al suo posto una cosa bianca, attaccata tramite un filo ad una tubatura.

Non la avevo mai notata, quella tubatura. Bagnava il muro e lo rovinava. Non mi stava tanto simpatica.

«Sam?» chiesi, nella speranza di ricevere una risposta.

Niente.

Silenzio.

«Sam!»

Ancora silenzio.

Il vento, adesso, dominava la scena; non le nostre conversazioni, non le nostre parole.

Solo il vento.

«SAM!!!»

Una guancia mi si bagnò.

Cosa gli era successo?

Era morto? Lo avevano spiaccicato? Un ragno lo aveva intrappolato?

Nonostante quest'ultimo dubbio non provai a liberare Sam. Non so perché non lo feci.

Allora urlai: «SAM! Non mi abbandonare! Lo hai già fatto, non voglio accada un'altra volta! Non farlo ancora! Mi dispiace, ero io che ti dovevo guardare, quella sera! Era la prima volta che uscivi... avevi solo dieci anni, diavolo! Io te lo avevo detto, però: guarda prima di attraversare! Guarda! GUARDA! DIO!» mi alzai e portai la mia mano ai capelli sudati.

«È colpa tua! Lo è sempre stato! Vivere nel passato mi ha reso così, eh? Non è vero? Sei stato tu!

Mi sono lanciato per prenderti, ho battuto la testa contro quell'auto in corsa... e poi... è stato tutto inutile. Tutto! Sei comunque caduto a terra, fermo, immobile. Morto. E per quella botta sono diventato pazzo! Fino ad adesso ho vissuto nel rimpianto, ma ora basta. Perché continuo a piangere se non posso più riaverti indietro, eh? Perché? Te lo dico io, perché: perché non ho il coraggio di andare oltre e di guardare avanti, al mio futuro: mi sembra irrispettoso nei tuoi confronti! Ma adesso basta!»

Mi lanciai sulla panchina.

«Non voglio che anche tu mi abbandoni, Sam. Anche tu, Sam!»

Adesso, però, mi sentivo strano: era come se qualcosa si fosse spento dentro di me, come se qualcuno che mi avesse preso per mano per molto tempo mi avesse lasciato camminare da solo, sui miei piedi.

Il vento si era calmato.

Adesso, però, quel muro, bagnato da quella tubatura alla quale era attaccato quel bozzolo, non mi sembrava, poi, così interessante.

   
 
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