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Autore: VaticanCameos221B    25/01/2016    5 recensioni
Ti presi in braccio e non fu né la prima, né l’ultima volta. In futuro non ti avrei sorretto soltanto con le mie braccia, ma anche con le mie spalle, le mie gambe, le mie mani, l’intera mia esistenza. Sei cresciuto in fretta come un’epidemia e ti sei preso tutto. Ti ho concesso tutto. Feci la vergognosa e sconsiderata conclusione che sarei vissuto da quel momento in poi sotto la tua ombra, come quello ormai escluso e privo di ogni considerazione. Mi sbagliavo.
[Holmes Brothers]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Redbeard, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fuggire. Tipico sciocco comportamento umano al fine d’allontanarsi da situazioni dolorose. Si è come evasi dal carcere. Si annaspa nell’ombra. Soli, terrorizzati. Ci si costruisce da soli un’altra galera, la peggiore di tutte: la propria mente. I propri ricordi. Si pensa che le cose cambieranno, che tutto si sistemerà. Ci si dimentica, prima o poi. I sentimenti appassiranno. Ti accorgerai che il dolore sarà stato solo tempo inutile. Ma non è mai così. Ci si racconta solo altre verità.


La pioggia quella notte non voleva saperne di darsi una calmata. Pensai avesse la tua stessa irritante ostinazione e sfrontatezza. Mamma fu la prima ad accorgersene. Vidi per prima i suoi occhi tremare, dopo, come fosse stata un bicchiere infranto, si rialzò da sola e si ricompose con grazia pezzo per pezzo. Una matematica non può perdere il controllo. I numeri richiedono ordine, compostezza. Regolarità e ragionamento. Le bastò dire: «Sherlock non è in casa. E’ scappato» che nostro padre era già fuori alla porta di casa ed io con lui. Avevi solo dieci anni ed io sapevo dove cercarti. Ti trovavo sempre. Per essere precocemente intelligente alle volte eri così banale. Così scontatamente sentimentale. Mi dispiace costatare che in questo ancora oggi, non sei cambiato.
 
Ti trovai alla riva del Tamigi, accovacciato sotto l’ombra di un peschereccio. Tremavi come una foglia, inzuppato come uno straccio e lurido di fango. M’inginocchiai davanti a te e ti coprii col mio ombrello. Fino all’ultimo continuavi imperterrito a tenere quel fastidioso broncio come se l’intero mondo ce l’avesse con te e non osavi guardarmi in faccia. Melodrammatico.

«Te l’avevo detto, fratellino. Amare è un terribile svantaggio. Ogni cosa ha un inizio e, di conseguenza, una fine. Sapevi che prima o poi sarebbe successo. Che fosse troppo presto, non ha importanza.» Sospirai, mentre ti vidi stringere i pugni e sussultare. «Perché sei venuto qui, Sherlock?» Ti domandai nonostante sapessi già la risposta.

«Volevo fuggire su una nave ed essere un pirata per sempre.» Borbottasti con voce rauca e tremante.

«Eppure sei ancora qui. Perché non l’hai fatto, perché non sei fuggito?»

Ti vidi esitare.

«Ho dimenticato a casa la mia spada, un pirata non può viaggiare senza. Aspettavo che finisse di piovere per recuperarla e dopo me ne sarei andato senza più tornare, perché siete un ammasso di ridicoli bambocci che fanno sempre la cosa più stupida. Voi non capite, non cercate minimamente di farlo! Lui era mio amico, ma a voi la cosa non importava. Lui c’era sempre quando voi non c’eravate. Era intelligente più di chiunque altro. Non dovevo mai adattarmi. Sembrare “normale”. Gli andava bene esattamente com’ero. Lui era felice, riuscivo a vederlo… Ma me lo avete portato via… Potevate fare qualcosa. “Gli adulti sanno sempre cosa fare.”  È questo ciò che dicono sempre. Allora perché non l’avete fatto, perché non l’avete salvato, perché è dovuto morire!?»

Le tue urla squarciarono il rumore assordante della pioggia e vidi il fuoco dei tuoi occhi arrossati dal pianto.

«Era malato. Sopprimerlo era l’unica soluzione.»

Mi accorsi di essere stato troppo d’uro col tono della voce, ma era giusto che tu sapessi, che capissi. Che te ne facessi una ragione. La vita ti avrebbe riservato perdite ben peggiori in futuro. Bisognava che ti facessi gli anticorpi, un’armatura fin da subito.

«Potevate curarlo!» Urlasti maggiormente mentre tutto il tuo corpo veniva scosso.

«Non c’erano cure. Sarebbe stata solo una lenta agonia. Non potevi preferirlo. Tu gli volevi bene, non è vero? Nonostante ti abbia ripetuto più volte di non affezionarti troppo. Sei un ragazzino sveglio, fratellino. Dovresti capirlo.»

Ti vidi sprofondare con la testa fra le braccia con i capelli fradici che ti si appiccavano sul viso. Iniziasti a piangere singhiozzando senza ritegno.

«Non fai altro che ripetermi che affezionarsi, importarsene e soffrire siano svantaggi. Ma non mi hai mai spiegato il perché, Mycroft. Ogni svantaggio avrà i suoi vantaggi. Non mi hai mai detto quali siano i vantaggi nel provare sentimenti. E se ne valessero la pena?»

Non sai quanto fosse irritante il fatto che tu fossi così avanti per la tua età e nello stesso tempo così lento. Quanto fosse frustante il semplice fatto di dover a volte boccheggiare prima di risponderti, di sentirmi per un istante, confuso. In bilico. Sentivo le mie certezze venir meno e non sapevo cosa fare. La sensazione di aver sbagliato ogni cosa con te, temo me la porterò fin dentro la tomba. Ponevi domande la quale risposta avrebbe peggiorato il tuo autismo o non avresti capito. Domande alle quali io stesso non sapevo cosa rispondermi. Così, sviai in parte la domanda.

«Starsene qui sotto la pioggia a singhiozzare non mi sembra un gran bel vantaggio, non trovi? Andiamo a casa, Sherlock. Mamma e Papà sono preoccupati per te.»

Eri troppo affranto per poter camminare, così, per l’ennesima volta, ti  presi sulle mie spalle con l’ombrello a ripararci e ci avviamo verso casa con te che, senza freno, mi inzuppavi la camicia di lacrime e muco.

«Mycroft, mi manca Barbarossa.» Sussurrarti improvvisamente sulla strada del ritorno, tra un singhiozzo e l’altro.

«Lo so, Sherlock. I tuoi piagnistei avvenire ce lo faranno mancare a tutti noi amaramente.»
 

Barbarossa, un setter irlandese. Fu un regalo da parte dei nostri genitori per il mio tredicesimo compleanno. Ancora oggi me ne domando la ragione. «Sei così dissociato e apatico, Mike. Dovresti essere più socievole, attivo! Da grande sarai l’esempio di tuo fratello Sherlock.» Ecco riassunta in breve la mia intera giovinezza con le parole di nostra madre, e forse si spiega il motivo del cane come regalo di compleanno. Nella fantasiosa speranza che potesse rallegrami facendomi diventare un babbeo che fa vocine assurde ed imbarazzanti nel chiamare un ammasso di pelo scodinzolante e puzzolente. Sapevo bene cosa ne sarebbe conseguito se nel prendermene cura avessi permesso ai sentimenti di compromettermi, di affezionarmi. L’essere umano è più che sufficiente come portatore di disgrazie e coinvolgimenti. Un animale non era decisamente necessario.

Subentrasti tu, con la tua invadenza e giovane età. Ti accanisti per avere a tutti costi il diritto della scelta del nome. Così, divenne il tuo “giocattolo” fidato, il tuo migliore amico. Te lo portavi dietro ovunque. Da ogni parte mi girassi in casa, in ogni luogo dove andavamo, era la tua ombra. Sembravate due fratelli tu e quel cane, che invece noi due. Era snervante e disgustoso. Se esiste una dignità nel mondo canino, sono pur certo che Barbarossa l’abbia persa le numerose volte che l’hai travestito da pirata.

«A furia di starci così appiccicato ti dimenticherai come ci si comporta da essere umano e diventerai un animale», ti dissi quando a nove anni ti trovai nella vasca a farvi il bagno insieme, con una stupidissima benda sull’occhio e un veliero giocattolo in mano. Quando parlavo ai nostri genitori di questa tua compulsiva ossessione, riguardo a voler essere un pirata, e che magari fosse meglio far qualcosa a riguardo prima che la cosa avrebbe comportato delle conseguenze, oltre a ridermi in faccia mi rispondevano che ero più io quello a preoccuparli.

«Comportarsi come un animale ha di sicuro aspetti più nobili e intelligenti di molti altri esseri umani.»

Ti sbattei la porta in faccia e me ne andai indignato lasciandoti nelle tue idiozie.

 
Ti ci vollero mesi, forse anni per riprenderti da quella perdita.

All’inizio ci fu l’isolamento.

Non era insolito beccarti in camera, al buio, nei tuoi giorni grigi, avvinghiato a Barbarossa quando era in vita. Non dicevi una parola per giorni. Ti rintanavi in te stesso perché c’era qualcosa che non riuscivi a capire sulla vita, sugli altri o magari eri proprio tu a non capirti. Era tutto troppo incomprensibile o tutto troppo banale per te. Quel setter, molto probabilmente, ti capiva davvero. Anche il suo fare in quei giorni cambiava. La sua presenza come la tua, a stento si percepiva. Ti rimaneva accanto, in silenzio, con la costanza e la pazienza che solo i cani hanno, finché ne avevi bisogno. Anche dopo la sua morte, come svuotato dalla linfa vitale, ti ritrovavo accovacciato sul pavimento della nostra camera. Ci rimanevi per ore. Di notte ti sentivo piangere. Ho sofferto d’insonnia per colpa tua maledicendo l’esistenza della razza canina o addirittura il fatto stesso che i nostri genitori non avessero avuto un’alterativa più costruttiva dal procreare.

Dopo ci furono le complicazioni a scuola.

I primi litigi, le prime risposte insolenti, le prime espulsioni. Rifiutasti ogni proposta di un nuovo cane. Per te, lui era stato l’unico e solo. Credo avessi soltanto paura di soffrire ancora.
 

Sebbene a distanza di anni, d’adulto, riportandoti alla mente quel cane, mi rispondesti: «Non sono più un bambino, Mycroft», per me eri e sarai sempre Sherlock Holmes. L’uomo che dice di non aver cuore perché ha paura di usarlo. Il bambino dagli occhi di vetro che ti guardano sfidanti, a volte con rancore, celando le proprie insicurezze, ma che nell’ombra cerca la mia mano. Ed io quella mano non te l’ho mai negata. Nemmeno quando il dolore alla vista dei tuoi fallimenti, delle tue arrese, cedimenti, era troppo grande da sopportare.


   
 
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