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Autore: Adeia Di Elferas    27/01/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Il marzo in Forlì fu tempestoso, in ogni senso. Oltre alle intemperie scostanti della primavera che cercava di prevaricare l'inverno, si scatenarono sulla città i malanimi più disparati.
 La memoria della gente è labile, quando si tratta di buone azioni dei signori e così i Forlivesi stavano già dimenticando le misure prese contro la peste e le derrate alimentari tenute nascoste che avevano permesso loro di non soffrire la fama una volta finita la pestilenza. Al contrario l'attenzione di tutti fu pronta nel notare come Nicolò Pansecchi, per ordine dei Conti Riario, ovviamente, aveva cominciato a rastrellare le vie in cerca dei tributi e delle tasse più disparate.
 Se durante i mesi più rigidi i Riario si era astenuti dal richiedere a tutti di pagare, ora che i tempi stavano migliorando, gli sgherri dei signori di Forlì non si lasciavano scappare nemmeno un centesimo.
 “Però dovete ammettere – stava dicendo Andrea Bernardi, quasi con imbarazzo – che il grano non è mancato, malgrado la peste...”
 “Me ne importa tanto, a me, se poi devo pagarci sopra tutti i soldi che ho per la tassa sul macinato!” disse il cliente, contrariato.
 “Ci sono state molte spese...” provò a dire il Novacula, che, però, era stato a sua volta messo in grossa difficoltà dall'ultima riscossione.
 “La verità è che quelli spendono e spandono e poi vengono a piangere da noi!” esclamò un secondo cliente.
 “E noi fessi paghiamo! Quando c'erano gli Ordelaffi le carceri erano piene, ma almeno c'era qualcosa per tutti! Questi tagliano, tagliano e riscuotono e basta!” rincarò il primo cliente.
 “Tacciamo della carnevalata che hanno fatto per Bologna! Quanto hanno speso? E coi nostri soldi! A noi cosa importa di un matrimonio a Bologna?!” inveì il cliente che era in attesa: “Porco mondo, avessi qua il Conte o la Contessa...! Ma li ammazzerei con queste mani!” e così dicendo alzò scenicamente le braccia al cielo.
 Proprio in quel mentre una donna era entrata nella bottega del barbiere storiografo e aveva assistito all'ultima parte della sceneggiata.
 Il Novacula si affrettò a fare un breve inchino, mentre l'uomo che aveva dichiarato cinque secondi prima di volerla uccidere con le sue stesse mani, uscì di corsa dalla bottega. L'altro se ne restò tranquillo e seduto al suo posto, senza dar mostra di aver visto la Contessa.
 “Bernardi – disse Caterina, con un cenno del capo in saluto al Novacula – ero passata per fare due chiacchiere, ma evidentemente non è il momento giusto.”
 Il barbiere si sentiva in profonda difficoltà. Lo infastidiva l'indifferenza che il suo cliente stava mostrando nei confronti della loro signora e avrebbe davvero voluto scambiare due parole con Caterina. La vedeva turbata, ma fino a che quel cliente fastidioso restava al suo posto, non poteva pretendere di scoprire il motivo di quel turbamento...
 “Verrò in un altro momento.” concluse Caterina, salutando di nuovo il barbiere storiografo, trascurando il Forlivese che la stava ignorando.
 Una volta uscita dalla bottega, Caterina non poté fare a meno di sentirsi addosso gli sguardi di tutti quelli che incontrava.
 Da qualche giorno avvertiva qualcosa di strano nell'aria. Gli occhi che la fissavano erano scuri, sospettosi, carichi di dubbi. Se non fosse stata tanto distratta dalle sue vicende personali, di certo si sarebbe accorta dei pericoli che quei volti tirati e grigi nascondevano.
 E invece da quasi tre mesi una strana preoccupazione l'aveva colta senza rimedio. Volendo essere cieca davanti a quella che era ormai una verità palese, si era fatta convinta di aver contratto uno strano e indefinibile morbo che, forse, l'avrebbe anche portata alla morte.
 Girolamo, fortunatamente, aveva ripreso come non mai la sua vita solitaria, costringendola a vederlo il meno possibile.
 Tuttavia si sentiva svogliata, si affaticava in fretta e...
 No, non voleva pensarci.
 Continuò come ogni giorno il suo giro per le strade della città, addentrandosi fino ai quartieri più poveri. Proprio lì, in mezzo agli ultimi, riceveva gli unici sguardi di gratitudine e affetto.
 Caterina sapeva che è quando sono i ceti benestanti a odiare il loro padrone che bisogna preoccuparsi...
 Oh, sì, in altre occasioni si sarebbe accorta del pericolo...!

 “Mia signora...” cominciò il medico, arrossendo appena.
 “Cosa c'è?” chiese Caterina, grave, convinta che il dottore le stesse per rivelare il nome della sua orrenda malattia.
 Invece l'uomo arrossì ancora di più e disse, lentamente: “Conosco i vostri studi e, con tutto il rispetto, avete già avuto cinque figli... Non vorrete dirmi che non avete capito...”
 Caterina lo fissava immobile. Certo, l'aveva capito, ma non voleva. Non poteva esserci un'altra spiegazione? Non poteva esserci un errore, nella valutazione del dottore?
 “Voi aspettate un altro figlio, mia signora...” proseguì il medico, deglutendo rumorosamente, certo di non aver dato una bella notizia: “Da almeno tre, forse quasi quattro mesi...” si azzardò a stimare, basandosi su quello che la Contessa gli aveva riferito.
 Il dottore non ebbe il coraggio di guardare subito il viso della sua signora. Il rumore gutturale che aveva sentito gli era bastato per capire che la reazione della giovane non era delle migliori.
 Mentre le dava un momento per metabolizzare la notizia, il dottore si trovò a pensare che era una cosa ben curiosa. Le donne che scoprivano di essere incinta potevano avere due tipi di reazioni, completamente opposte. O erano felicissime e magari cominciavano anche a piangere di gioia, o erano disperate e allora, magari, piangevano di dolore e paura.
 Ogni volta che la reazione che gli si parava davanti era la seconda, il medico se ne stupiva sempre un po', convinto com'era che una nuova vita era sempre una cosa positiva.
 “No...” sussurrò piano Caterina, stringendosi le mani sul ventre: “No...”
 Il dottore finalmente alzò gli occhi su di lei e la vide tremare, scuotere la testa, il viso paonazzo. Più che paura o dolore, si disse, questa volta era la rabbia a dominare la gestante.
 “Non dovete dire nulla al Conte.” disse Caterina, di punto in bianco, la voce controllata, anche se un po' forzata: “Lui non deve sapere nulla.”
 Il medico provò a dire: “Ma mia signora...”
 “Non gli direte nulla e basta. Se lo farete, vi verrà mozzata la lingua. E ora andatevene.” ordinò Caterina, indicandogli la porta.
 L'uomo chinò il capo e uscì, senza farselo ripetere. La sua presenza non sarebbe stata utile comunque. Sapeva che lui era servito solo come ultima conferma a una cosa che Caterina sapeva già da tempo.

 “Ma...! Ma cosa sta facendo ancora nelle sue stanze...!” si stava lamentando Girolamo, camminando a lunghe falcate, circondato dai figli più grandi.
 Era già notte inoltrata, eppure l'uomo non voleva andare a coricarsi e nemmeno Ottaviano, Cesare e Bianca sembravano in vena di riposare.
 Caterina, causando un certo sconcerto in tutti gli abitanti del palazzo, si era chiusa nel suo laboratorio da tre giorni e ancora non ne era uscita.
 Non aveva mangiato nulla, per quello che ne sapevano, né aveva detto una parola nessuno, a parte qualche sporadico 'andatevene' quando qualcuno cercava di aprire la porta, chiusa a chiave, della sua spelonca da strega, come la chiamava il Conte.
 Quella sera Girolamo aveva finalmente deciso di dimostrare apertamente la preoccupazione per la moglie reclusa da tre giorni nel laboratorio. Aveva subito convocato il medico, convinto che ne sapesse qualcosa, ma il dottore aveva fatto spallucce, dicendo che non era a conoscenza  del motivo per cui la Contessa si fosse chiusa in una stanza da tre giorni.
 Dopodiché, l'unica cosa che Girolamo era riuscito a fare, però, era stato cominciare ad aggirarsi senza meta per il palazzo balbettando frasi a metà e facendo domande a non si capiva chi.
 Caterina aveva preso in considerazione ogni dettaglio della questione. C'erano molte cosa da prendere in considerazione, molti problemi morali e etici, ma c'era una cosa più forte di tutte le altre. Lei non lo voleva, un altro figlio. Aveva giurato a se stessa che Galeazzo Maria sarebbe stato l'ultimo, ma poi... Poi era stata debole, non era riuscita a respingere suo marito come avrebbe voluto e ora...
 All'inizio aveva anche pensato di togliersi di mezzo. Si era puntata la lama del suo pugnale alla gola, ma le era mancata la forza.
 L'altra unica soluzione era uccidere quell'essere indesiderato che aveva cominciato a crescere dentro di lei.
 Così da quasi due giorni stava lavorando a una pozione complessa, ma infallibile, che l'avrebbe liberata da quella gravidanza.
 Quando l'intruglio fu pronto, Caterina lo versò in un calice e restò a guardarla a lungo. Tirò su col naso e si disse che quella era l'unica alternativa.
 Dopo tutto – pensò – era anche stata in guerra. Anche se non ne era certa, probabilmente aveva già ucciso. Nella vita di una Sforza, le aveva spiegato più volte suo padre, ci sono scelte difficili da prendere.
 Afferrò il calice con entrambe le mani e se lo portò lentamente alle labbra. Quando sentì il metallo freddo contro la pelle, chiuse gli occhi. Il cuore le batteva più forte e le gambe parevano sul punto di cedere. Un sorso, sarebbe bastato un lungo sorso...
 Mosse le braccia con rapidità, ma appena il liquido arrivò alle sue labbra, lei le serrò, presa da un istinto antico e irrefrenabile che le impedì di compiere quell'omicidio.
 Gettò in un angolo della stanza il calice ormai vuoto e si tolse i resti della pozione dal volto con la manica dell'abito.
 Tremava come una foglia, non riusciva a credere di non essere riuscita a farlo...
 Si sfiorò la pancia con una mano e asciugandosi una lacrima si trovò a pensare che quel bambino doveva avere una grande forza di volontà, se era riuscito a fermarla. Sì, sarebbe stato uno Sforza fatto e finito, non un Riario.
 Doveva tornare presente a se stessa. Quello che stava per fare era orribile. Se per i primi cinque figli non aveva avuto cure particolari durante la gravidanza, almeno non aveva mai cercato espressamente di ucciderli...
 Aveva passato il segno. Doveva cambiare aria, fare qualcosa che la riportasse alla normalità. La vita che conduceva le stava facendo perdere il senno. Era come un animale in gabbia, che a lungo andare, se non scappa, impazzisce...
 La vicinanza di suo marito era tossica...
 Quando uscì dal suo laboratorio, Caterina notò con una certa sorpresa che era l'alba e che suo marito e i suoi tre figli maggiori erano poco lontani dalla porta.
 Girolamo occhieggiò verso di lei, interrogativo, ma sollevato. Casare le corse incontro, abbracciandola con foga, così come Bianca. Ottaviano, invece, restò in disparte, scrutandola con diffidenza.
 “Ho deciso che oggi partirò per Milano.” annunciò Caterina: “Da sola.” specificò, visto che Girolamo aveva già aperto la bocca probabilmente per dire che lui non aveva intenzione di seguirla.
 Ottaviano, sentite le parole della madre, se ne andò di corsa, ma Caterina non lo seguì. Bianca e Cesare si limitarono a guararla straniti, indecisi su cosa pensare di preciso in merito a quella novità.
 “Tuo zio ti ospiterà...?” chiese alla fine Girolamo, debolmente.
 “No, starò da mia madre.” decise improvvisamente Caterina, che si era dimenticata degli ordini di Ludovico, che la volevano a Forlì al fianco di Girolamo a 'fare la pace': “E ora fammi preparare una scorta di pochi uomini e un bagaglio molto leggero. Voglio partire prima di sera.”
 Girolamo, atterrito, non ebbe la prontezza – né la capacità – di controbattere a tono e così si trovò a eseguire pedissequamente gli ordini di sua moglie.
 Prima che calasse il sole su quel 9 aprile 1487, Caterina Sforza, assieme a uno sparuto gruppetto di guardie e a qualche sacca preparata in fretta e furia, lasciò Forlì alla volta della sua Milano.
 

   
 
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