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Autore: _exodus    05/02/2016    1 recensioni
| Inazuma Eleven | Nessuna coppia | Angst; Malinconico | !Violenza! | Partecipante al contest "I non-toni dell'Amore" indetto dagli Shiri Sixteen |
Ormai Kyosuke era abituato a serate del genere, ogni sera il gruppo di amici si ritrovava in quel vagone e ognuno faceva sempre le medesime azioni, come se fosse stato un rituale sacro, il loro. Quello che facevano poteva essere benissimo accomunato ad un rituale devoto all’alcol. Ogni volta bevevano fino ad ubriacarsi. Bevevano per dimenticare, dicevano. Per dimenticarsi del tempo che continuava a scorrere senza sosta, delle loro vite senza senso e prive di utilità, perché secondo la società loro erano solo teppisti che si ubriacavano, imbrattavano muri con orrendi graffiti e prendevano decisioni affrettate senza mai riflettere. Tsurugi odiava quelli che giudicavano, quelli che si fermavano alle apparenze, per questo permetteva a quell'alchimia perversa di sapori e sensazioni di scorrere con il suo sapore forte, amaro e dolce allo stesso tempo, nella sua gola bruciante, per poi abbandonarsi al destino.
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Kirino Ranmaru, Matatagi Hayato, Matsukaze Tenma
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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Si erano fatte le otto di sera quando Hayato varcò la soglia di casa ritrovandosi così nell'ampio corridoio di casa. Una sentinella scattò nella sua testa quando udì delle urla provenienti dal salotto, non ci mise molto a capire che quella a implorare pietà e a gridare aiuto era la madre.

La causa gli fu subito più chiara quando sentì delle urla maschili sovrastare quelle della donna e subito il giovane riconobbe la voce profonda e graffiante del padre che continuava a minacciare la moglie. Hayato non si diede il tempo di pensarci su due volte e, seguendo l’istinto, percorse a grandi falcate i pochi metri che lo separavano il salotto, raggiungendolo. La scena che si ritrovò davanti gli fece gelare il sangue nelle vene: la madre a terra, con il viso arrossato dal pianto e tumefatto per le botte, con segni violaceo-bluastri qua e là sulla pelle che era stata usata come una tela vergine che aspettava solamente il momento di essere dipinta, il padre stava davanti alla donna, con uno sguardo minaccioso e i capillari degli occhi rossastri.
Forse per l’alcol che ancora scorreva nel suo corpo, forse per un attimo di follia, forse perché lui era una persona impulsiva che non amava ragionare, fatto sta che entrò nella stanza senza farsi né vedere né sentire dai due e afferrò una bottiglia di birra –svuotata dal padre, ipotizzò Hayato- appoggiata sul tavolino accanto alla porta e con un’espressione di puro odio si scaraventò contro l’uomo spaccandogli il vetro verdastro in testa procurandogli alcuni tagli sulla fronte e tra i capelli del medesimo colore del carbone che probabilmente non lavava da mesi, se non addirittura anni.
Sentì la madre cacciare un urlo quando l’uomo si lanciò contro il diciottenne afferrandolo per la maglietta, si guardarono intensamente senza mai permettere ai loro sguardi li lasciarsi un secondo poi il più anziano iniziò a far incassare pugni sugli zigomi e nello stomaco ad Hayato che si piegò in due respirando affannosamente. Cadde rovinosamente a terra.
« E’ tutto quello che sai fare, piccola merda? Sei come tua madre, da me non hai preso un bel niente. »
In quel preciso istante la rabbia s’impossessò del ragazzo che stringendo i rimasugli del collo della bottiglia verdastra, fece leva sulle braccia e sulle gambe alzandosi lentamente senza mai staccare lo sguardo dal padre per poi lanciarsi sull’uomo conficcandogli il vetro appuntito nello stomaco, preso dalla situazione. Lo fece una, due, tre volte… Quelli che dapprima erano solo rivoli iniziarono a diventare veri e propri fiumi di sangue e macchiarono la maglia bianca che indossava il padre di Hayato che in quel momento giaceva al suolo, ormai privo di vita.
Sentì una strana sensazione all’altezza dello stomaco, non dovuta al pugno ben assestato di prima ma conseguenza della consapevolezza di aver ucciso qualcuno. Si sentiva un mostro al percepire il sangue ancora caldo scorrere dalle mani tremanti fino agli avambracci, a vedere lo sguardo terrorizzato della madre che forse non l’avrebbe più voluto come figlio, chi voleva come figlio un assassino? Aveva ucciso il padre che era un maniaco, un pericolo per i fratelli, la madre e sé stesso, ma aveva comunque ucciso una persona e quello nessuno glielo avrebbe mai perdonato.
Terrorizzato si inchinò velocemente alla madre farfugliando parole alla rinfusa per poi scappare dall’abitazione, non curandosi nemmeno di chiudere la porta d’ingresso. Andò a rifugiarsi nella vecchia scuola elementare della città che distava poco dalla casa dove era cresciuto, si nascose tra i muretti quasi ceduti del tutto e iniziò a piangere coprendosi il volto con le mani sporche di sangue che or scorreva liberamente sulle sue guance, spinto dalle calde lacrime per poi arrivare alle sue labbra sottili incurvate in un sorriso amareggiato facendo assaporare al giovane il gusto ferroso del sangue misto a quello salato delle lacrime, un sapore perverso che gli scorreva in tutto il corpo. Smarrito, afferrò il cellulare e compose in fretta il numero dell’unica persona di cui voleva sentire la voce melodiosa in quel momento e, per sua fortuna, la risposta arrivò immediata.
« Pronto? »
Rispose una voce allegra, ignara di tutto il dolore e delle lacrime versate da Hayato in quel momento.
« Ta-Takuto… »
« Hayato! Cosa cazzo è successo?! »
« Mio padre… »
Takuto raggelò a sentire le parole di Hayato: suo padre lo conosceva bene e sapeva che non era un uomo di cui fidarsi. Stette in silenzio, in una muta richiesta di proseguire.
« Ho ucciso mio padre. »
Il moro, che stava dall’altra parte, non poteva credere alle sue parole.
Hayato proseguì.
« Non ho potuto fare altro… stava ancora maltrattando mia madre, non potevo accettare che lo stesse facendo di nuovo, quel bastardo. Così ho afferrato una bottiglia, gliel’ho spaccata in testa, lui ha iniziato a difendersi facendomi cadere… sono riuscito ad alzarmi e con i rimasugli della bottiglia l’ho ucciso colpendolo allo stomaco. »
L’ultima frase di Matatagi fu flebile, quasi impercettibile e risuonò come una supplica.
« Takuto, aiutami… aiutami… aiutami… »
Hayato ripeteva la stessa frase, tra i singhiozzi, come una cantilena.
« Non ti preoccupare, troveremo il modo di superare anche questo, Hayato. »

 

Erano passate ormai due settimane dalla morte del padre di Hayato, la madre del ragazzo era riuscita a trovare il coraggio di chiamare la polizia, ma non volendo accusare il figlio fece passare il tutto come un suicidio: l’uomo doveva una grossa somma di denaro ad un altro gruppo di criminali che circolava per la città e, non avendo abbastanza soldi, si tolse la vita conficcandosi una bottiglia rotta nello stomaco.

Era una dinamica piuttosto strana ma i poliziotti vi credettero lo stesso.
Hayato non era finito nei guai, ma il pensiero di aver ucciso il padre lo perseguitava ogni notte, era diventato il suo incubo notturno e ogni volta si svegliava sudato, con rivoli di sudore che gli colavano lungo le tempie e con il cuore che batteva imperterrito nella cassa toracica minacciando di uscirvici.
Aveva pensato diverse volte di togliersi la vita, per punirsi di tutto ma mai aveva davvero preso la pistola puntandosela alle tempie, mai si era conficcato un coltello all’altezza del cuore, ma forse quel giorno avrebbe davvero posto fine alla sua esistenza.
Takuto, l’unico ad avere una patente e un’auto che per lo più era un camioncino, aveva deciso di portare il gruppo al molo. Durante il tragitto Kirino e Kariya, seduti sui sedili posteriori, si erano addormentati, così toccò ad Ibuki sottrarli dalle braccia di Morfeo una volta giunti a destinazione.
Erano circa le cinque del pomeriggio ed il cielo era tinto di arancio e di ogni sua sfumatura, senza nuvole che ne coprissero la bellezza; il mare sembrava voler inghiottire il sole che pian piano andava scomparendo.
Poi Hayato adocchiò l’enorme impalcatura in legno che s’innalzava di circa una trentina di metri, salirvici sarebbe stato stupendo, pensò mentre si alzava.
Si mise il cappuccio della felpa grigia sopra la testa e dopo aver lanciato uno sguardo al gruppo di amici, troppo impegnati ad ammirare i gabbiani danzare leggiadri sul filo dell’acqua per notarlo, iniziò ad arrampicarsi cercando appigli resistenti con le possenti braccia.
Il gruppo rimasto seduto sulla scogliera si accorse di lui solo quando fu arrivato alla fine della sua folle scalata, quando stava godendo della vista mozzafiato che gli veniva concessa, facendosi cullare dal vento che increspava la sua felpa di diverse taglie più grande.
Vide Takuto spostare, curioso, la sua inseparabile videocamera su di lui –con cui documentava qualunque loro follia- e sorrise amaramente: il castano non era consapevole che quella sarebbe stata la sua ultima follia. Sorrise amaramente lanciando un ultimo sguardo agli amici.
Osservò per un tempo che parve interminabile le onde infrangersi sulla scogliera, scrosciando e poi piegò in avanti il ginocchio della gamba sinistra, quella destra dietro pronta a scattare.
Corse velocemente quei pochi metri e saltò più in alto che poteva liberandosi in aria, in quel cielo rossastro. Agitò le braccia cercando di stare in equilibrio e poi chiuse di scatto gli occhi quando cadde nell’acqua gelida producendo un tonfo, facendo schizzare piccole gocce di acqua salata.
Takuto si alzò di scatto e assistette alla scena impotente, come il resto della compagnia. Erano sconcertati.

 

 

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