L’uomo
in giacca e
cravatta si sistemò il polsino, con la delicatezza di un
chirurgo col bisturi,
come se da quello dipendesse la sua stessa vita. Infilò il
bottone
nell’occhiello, tirò il lembo della camicia
così che solo pochi millimetri
fossero visibili oltre l’orlo della manica
dell’abito scuro; poi, portò la mano
al nodo della cravatta. Lo strinse, lo strinse forte, alzando appena il
mento.
Il suo collo era stretto in una morsa dal rigido colletto bianco. Con
un rapido
movimento della mano gemella, infine, si spolverò appena la
spalla, per
togliere un po’ di polvere, qualche rimpianto, forse una
lacrima; i suoi occhi,
nel mentre, fissavano il vuoto. Chinò appena il capo,
dischiuse le labbra, prese
un respiro.
E
saltò.
Saltò
oltre la finestra
di fronte a sé. Saltò oltre i problemi, le
preoccupazioni. Saltò oltre il
rimorso, il rimpianto di una vita che non visse mai. Il vetro
s’infranse, le
schegge volarono tutt’intorno in una piccola nube che
rifrangeva ogni colore
dell’arcobaleno; una delle schegge gli graffiò il
viso, ed il sangue iniziò a
sgorgare, salendo su per la sua guancia. Il sangue andava su, e
l’uomo in
giacca e cravatta andava giù, veloce, sempre più
veloce, mentre la sua mente si
riempiva lentamente. Pensieri sui suoi amici, pensieri sulla sua
famiglia, sul
suo lavoro. Cosa avrebbe voluto fare, dove avrebbe voluto andare, chi
avrebbe
voluto essere. Allargò le braccia, mentre il vento gli
fischiava nelle
orecchie, lo assordava, lo spingeva con tutta la sua forza, come se
volesse
arrestare la sua caduta. Ma l’uomo in giacca e cravatta non
smise di
precipitare, ed i pensieri non smisero di offuscargli la mente,
finché non vide
un nastro rosso volteggiare appena, accanto a lui. La sua cravatta. Si
era
slegata. Ed il polsino si era sbottonato. Il suolo era così
vicino, che avrebbe
potuto allungare la mano per toccarlo, la sua caduta era giunta al
termine. I
pensieri si fermarono, il vento smise di gridare, il mondo smise di
muoversi. E
l’uomo in giacca e cravatta sorrise, per l’ultima
volta.