Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
Segui la storia  |       
Autore: Alexiel Mihawk    08/02/2016    0 recensioni
«E tu sei felice?» domandò il bambino «Perché Havamama dice sempre che la villa sulla collina è una grossa gabbia e tu sei come un uccellino».
«Ma quella è casa mia» gli fece notare Hina con ovvietà.

Hina è l’unica figlia di una famiglia nobile, cresce in una grande villa su una collina, e viene educata come un’aristocratica, quindi è molto colta ed estremamente intelligente e diligente; il suo problema è che cresce sola e non ha amici. Quando ancora è una bambina conosce Smoker, un ragazzino con qualche anno più di lei, cresciuto in mezzo a una strada e praticamente adottato da metà delle persone della città. Inizia a frequentarlo e a seguirlo nelle sue scorribande, fino a diventare inseparabili; in seguito ad alcuni avvenimenti decidono di arruolarsi ed entrano in marina, dove inizia il lento percorso che li porterà ad essere i personaggi che conosciamo.
[Smoker/Hina]
Genere: Azione, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hina, Smoker
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Note: Per le note in Yddish vi rimando all’ultimo punto (e sì, sono il copia incolla di quelle del capitolo precedente).
Per quanto riguarda questo capitolo, ho sempre apprezzato molto il rapporto tra Smoker e Aokiji e mi piace pensare che l'Ammiraglio abbia avuto un ruolo nella vita di questo ragazzino, plasmandolo in qualche modo e contribuendo a renderlo l’uomo che conosciamo; inoltre ho cercato di infilare più eventi possibili che rispettassero la timeline del manga, perché sì, mi piace collegare tutto e sono un pochino OCD.
Wabi-Sabi significa: la scoperta della bellezza che risiede in ciò che è imperfetto; l'accettazione del ciclo continuo della vita e della morte.
Nelle note dei prossimi capitoli vi parlerò anche dei personaggi secondari e dei miei headcanon di relazione tra i vari personaggi, per ora è ancora troppo presto a meno che non voglia farvi spoiler.
Traduzione dei termini Yddish:
Bubbeh, nonna
Bubala, piccolina/cara
Luzzem, lasciala stare!
Hockstetter, rompiscatole
Dybbuk, fantasma/spirito maligno
Narrishkeit, sciocchezze
Shayner, attraente
Shiksa, ragazza/donna gentile
Klutz, goffo
Schmeckle, pene piccolo
Pisher, piscia a letto/persona giovane e inesperta
Putz, volgare per pene (spesso riferito agli stupidi)
Ashknaz, un modo per indicare il linguaggio Yddish
Ess, mangia!
Hak mir kayn chaynik, smettila di borbottare come una teiera
A messa mashee afdeer, una morte orribile a te!
Antloyfn, correte/scappate
Ikh hob dir in drerd, vai all’inferno
geh gesund, addio – letteralmente “Vai in salute”



Double Exposure
2. Wabi – sabi


Erano passati due anni da quel giorno a Rogue Town, eppure Hina ricordava ogni cosa, proprio come se fosse avvenuto il giorno precedente.
Era la fine di Settembre e pioveva a dirotto, pioveva così forte che per un momento aveva temuto non sarebbero riusciti a vedere nulla; suo padre, nonostante si fosse ammorbidito con gli anni, aveva dimostrato più volte il suo disappunto, sostenendo che non fosse educativo portare due bambini ad assistere a un’esecuzione. Naturalmente Natsuki lo aveva ignorato, aveva caricato Hina e Smoker su una nave e si era fatta ospitare alla base della marina, dove si trovava anche suo fratello. Non che Hina avesse avuto modo di conoscerlo, in ogni caso, era troppo preso a occuparsi delle scartoffie e dell’esecuzione.
«Non ti perdi niente» le aveva detto sua madre «Mio fratello è uno stronzo, sua figlia è nata meno di un mese fa e lui è tornato al lavoro da due settimane».
Avevano aspettato in quella piazza gremita di gente, tra pirati e cittadini, tutti lì, immobili e col fiato sospeso ad attendere l’arrivo del Re; Smoker, accanto a lei, aveva osservato ogni attimo di quella scena con aria rapita e le sopracciglia aggrottate.
«Non distogliete lo sguardo» aveva detto loro Natsuki «Quello a cui state per assistere oggi è qualcosa che cambierà il futuro del mondo».
E, come sempre, aveva ragione.
Gold Roger, il re dei pirati, si era inginocchiato sull’enorme patibolo, osservando divertito la folla di fronte a lui e, quando aveva sorriso, Dio!, quando aveva sorriso Hina aveva stretto la mano attorno alla giacca fradicia di Smoker e lo aveva visto annuire con la coda dell’occhio. Quell’uomo era davvero speciale, era davvero un Re; erano rimasti lì e avevano continuato a guardare anche quando la sua testa si era staccata dal corpo ed era ruzzolata lungo il patibolo, anche quando la folla intorno a loro si era dispersa: nelle loro orecchie risuonava ancora la eco delle sue ultime parole.
Avevano conservato quel giorno nel cuore e ogni tanto uno dei due tornava a parlarne; ci sono esperienze che ti cambiano, ti segnano l’animo e il cuore e, per entrambi, l’esecuzione di Gold Roger, quel Settembre del 1500, era stata una di quelle.
«Smoker» Hina lo chiamò, riscuotendolo dai suoi pensieri «Stavo pensando –»
«Pensa di meno e corri di più o tua madre ci farà pulire di nuovo tutta la sala dei ricevimenti, sia maledetto il giorno in cui mi sono messo tra te e tuo padre sei anni fa».
«Stavo pensando» continuò imperterrita la ragazzina senza rallentare l’andatura «Siccome sei così convinto che lo One Piece esista… Hai mai pensato di diventare un pirata?»
Smoker si fermò di colpo e Hina, che non stava prestando troppa attenzione, gli finì a sbattere contro.
«Sei tutta scema?»
«Io?! Stupido schmeckle, ti sembra il modo di fermarti?»
«Finiscila di chiamarmi così, trovati un altro insulto, scema» borbottò il ragazzino riprendendo l’allenamento – allenamento che Natsuki curava personalmente da quando lui aveva compiuto dodici anni e Hina dieci, due anni prima «Mens sana in corpore sano» aveva detto, senza che nessuno dei due capisse niente.
«Più tardi chiederò consiglio ad Havamama. Perché no?»
«Perché no. E poi l’hai vista la fine che fanno i pirati».
«Stai dicendo che non ti piacerebbe arrivare ai confini del mondo? Esplorare i mari? Hina non ti crede».
«Hina può stare zitta?» ringhiò il ragazzo schivando un passante e incespicando lungo la salita che conduceva alla collina degli Okabe.
«Hina non lo garantisce».
Si lasciarono andare contro il portone di ingresso, esausti, sotto lo sguardo divertito di Natsuki che da qualche anno a quella parte sembrava avere ripreso a respirare; era tornata la ragazza ironica e spensierata di un tempo, abbandonandosi alle spalle la donna triste in cui l’aveva trasformata Tatemae, certo continuava a fumare troppo e ad essere seccata da tutto, ma oramai anche sua figlia aveva imparato a leggere tra le righe e aveva capito che non è che Natsuki fosse davvero scocciata, semplicemente quello era il suo modo di relazionarsi alla vita. Ora sorrideva molto di più, trascorreva molto più tempo con Hina e, dopo un periodo di tempo di circa tre mesi, in cui non aveva fatto altro che litigare con Hideaki, era riuscita ad ammorbidire il marito, facendo riemergere in lui quei lati del suo carattere che l’avevano convinta a lasciare il mare meridionale anni prima. Smoker era oramai una presenza fissa a casa loro e, quando Havamama non poteva prendersi cura di lui, la villa degli Okabe lo accoglieva a braccia aperte.
«Hina vorrebbe andare in città».
«Hina deve farsi un bagno prima» l’ammonì sua madre con aria severa «E dovrebbe anche piantarla con questa terza persona».
La ragazzina scrollò le spalle, non è che non ci avesse provato a smettere di parlare a quel modo, semplicemente si era abituata a farlo e ora le sarebbe risultato quasi ridicolo omettere il suo nome; Natsuki borbottò un ennesimo “Che seccatura” e agitò le mani, invitando i due ragazzini a sparire. Era stato qualche anno prima, dopo averli pescati di ritorno da una gita al porto sporchi di fango e parzialmente gonfi di botte che la donna aveva deciso di allenarli personalmente. Non che conoscesse chissà quali tecniche assassine, ma era cresciuta a Karate Island dove era solo normale che ai bambini venissero insegnate le basi delle arti marziali; suo fratello aveva appreso molto più di lei e si era dedicato con molta più costanza a ogni tipo di massacrante allenamento, ma Natsuki non era stata da meno, sebbene avesse sempre vissuto le arti marziali come un hobby.
Quel pomeriggio Havamama aveva preparato uno strano dolce gelatinoso che aveva chiamato pudding; quando lo videro, Smoker lo fissò con aria disgustata, osservandone il movimento oscillante e l’aria sbilenca. Hina, più abituata a non fare commenti e a mangiare qualsiasi cosa le venisse messa nel piatto, affondò con circospezione la forchetta nel piatto e ne assaggiò un pezzo, per ritrovarsi ad arricciare le labbra in una smorfia di soddisfazione.
«Ess Smoker, non fare storie, oramai sei grande e Havamama non cucina mica perché i suoi piatti vengano lasciati lì» esclamò la donna, che sembrava non essere mai invecchiata in quegli anni. Ma in fondo Havamama aveva un che di eterno, gli anni passavano, i bambini alla sua porta si susseguivano senza posa, e lei rimaneva lì a guardarli passare, donando un biscotto a ciascuno di loro, offrendo un letto e un abbraccio; le rughe sul suo viso sembravano moltiplicarsi, ma erano sempre state così tante che nessuno avrebbe mai potuto indovinare che fossero aumentate, ogni tanto qualcuno allungava una mano a toccarle e diceva: «Havamama la tua faccia sembra una grossa ragnatela!» e lei scoppiava a ridere, battendosi con forza le mani sulle cosce e rispondeva: «Oy vey iz mir» senza mai smettere di ridere.
Hina dondolò le gambe lungo lo sgabello di legno, fissando silenziosamente la stanza con aria pensierosa.
«Havamama, tu ci sei mai andata per mare?» domandò quindi.
«Certo che sì, bubala mia, certo che sì. Havamama ha visto cose tante nella vita, ma è stato tempo fa, prima dei pirati, quando nessuno conosceva Gol e lui era piccolo come uno scricciolo, oh sì, Havamama sa quanto era piccolo».
«Hak mir kayn chaynik, Havamama» borbottò Smoker «La moglie del fornaio dice che sei sempre, sempre stata qui».
«Havamama ricorda anche lei quando era piccola così» rispose la vecchia avvicinando le mani tra loro e simulando la forma di un neonato.
«Come no, vecchia. Hai finito, Hina? Guarda che vado al molo senza di te».
«Hina trova che tu sia un po’ sgarbato oggi».
Smoker le lanciò uno sguardo torvo, chiamò Chaser e sparì oltre l’uscio, incamminandosi con aria imbronciata verso il porto; la ragazzina saltò giù dalla sedia, mise il suo piatto e quello dell’amico nel lavello e, dopo avere abbracciato Havamama, seguì il maggiore percorrendo una strada che aveva imparato a conoscere perfettamente.
Trovò Smoker seduto su una cassa di legno, sulla banchina numero tre del molo est, osservava dei marinai lavorare alacremente sul ponte di una caravella, caricando provviste, sistemando il sartiame, rattoppando le vele; Hina si domandò quanto ci sarebbe voluto prima di vederlo sparire su una di quelle imbarcazioni, diretto chissà dove. Forse era ancora piccola, ma non era stupida e percepiva il richiamo del mare tanto quanto lo percepiva il suo amico, vedeva che ne era attratto e aveva la consapevolezza che prima o poi quel richiamo avrebbe vinto.
Si sedette accanto a lui, dopo avere accarezzato per un po’ Chaser.
«Padre Michael dice che la nostra strada è già segnata e che dobbiamo solo trovarla».
«Sì, ma Padre Michael è un idiota, e io non credo a queste cose».
«Non credi a queste cose, ma credi ai Dybbuk?» lo canzonò la bambina.
«Non credo nemmeno ai Dybbuk, non dire stupidaggini!»
«Mio padre dice che però è vero, che Padre Michael ha ragione, per questo andiamo alla chiesa tutte le domeniche».
«Sì, ma anche tuo padre è un idiota, per questo non ci vengo mai».
Hina gli gettò un’occhiata obliqua, guardandolo fissare il mare con aria vagamente persa.
«Tanto non ti ci fanno salire sulle navi… Sei ancora troppo piccolo, lo sai, vero?»
«Stai zitta che tu sei pure più piccola».
La ragazzina sollevò le spalle come a dire che non è che le importasse poi molto, quindi si portò le ginocchia al petto e si mise a fissare anche lei l’andirivieni di uomini.
«Credi che ci lascerebbero partire?»
«Ma sei appena detto che sono troppo piccolo!»
«Non adesso, Klutz, poi».
«Credo che tuo padre farebbe un sacco di storie, ma sarebbe davvero felice di vedermi fuori dalle scatole».
«Havamama sarebbe triste però».
«Anche tua madre, non credere, però credo che se tu volessi farlo non ti direbbe di no».
«Hina è sicura che ci perderemmo quasi subito» aggiunse la bambina «Il tuo senso dell’orientamento è un po’ scarso».
«Sì, ma il tuo è ottimo, basterà portarti dietro».
«Hina non è mica un cane!» protestò con voce accorata, mettendosi le mani in vita e fissandolo torva.
«Certo che no, per quello c’è Chaser, e comunque non posso mica lasciarti qui, ti annoieresti troppo e finiresti con il picchiare tutti i bambini del porto».
«Quello sei tu» gli fece notare l’amica sorridendo appena.
«Ma se settimana scorsa hai fatto un occhio nero al figlio dell’armaiolo del distretto est, l’hanno sentito piangere fino a casa tua!»
«Così impara a prendermi per i capelli, solo perché sono di un colore strano non significa che vadano tirati».
«A me piacciono i tuoi capelli» disse solo Smoker senza guardarla.
Hina sorrise e si piegò su di lui per dargli un bacio su una guancia, non era un gesto insolito, raro, ma non insolito. Sua madre lo faceva spesso con entrambi e la bambina si era abituata ad utilizzarlo come segno di ringraziamento nelle rare occasioni in cui qualcuno lo meritava davvero. Quello che non aveva previsto però fu che Smoker si voltasse e che le sue labbra si trovassero esattamente dove poco prima c’era la sua guancia.
Si staccarono di colpo, con gli occhi spalancati e una smorfia strana in faccia.
«Sei impazzita? E se ci avesse visto qualcuno?»
«Mica l’ho fatto apposta! Sei tu che ti sei girato!»
«Solo perché stavo per chiederti una cosa importante, scema!»
Hina non disse niente, torcendosi leggermente le mani senza avere bene idea del perché.
«Cosa volevi chiedere, stupido Klutz?»
«Mi prometti che parti assieme a me? Se mi prendessero su una nave, ci verresti anche tu?»
«A Hina non piacciono le domande stupide».
«Promettilo» la voce di Smoker suonò molto simile a un ordine e la bambina lo fissò per qualche istante con aria seria.
«Prometto» disse «Croce sul cuore».
«Croce sul che? Ma quanti anni hai? Sei?»
«Io non mi taglio per fare una promessa col sangue, se poi vengono le malattie?»
«E allora trova un altro modo! Non siamo mica più dei bambini! E poi a me le croci non piacciono, non ci credo in quelle robe lì».
«Hina ti trova seccante, Smoker» borbottò la bambina incrociando le gambe e girandosi del tutto verso di lui sulla grossa cassa di legno «Facciamo così, Mamma dice che i baci sono delle promesse. Se vuoi posso darti un bacio da grandi come promessa».
«Che schifo!» si lamentò il maggiore.
«Ma se l’abbiamo appena fatto!» gli fece notare l’amica «Non avrai mica paura? Oh, hai paura?»
«Certo che no, scema! E va bene, un bacio da grandi… Com’è un bacio da grandi?»
«Come quello di prima, ma con la lingua. Hai presente i miei genitori quando si danno i baci?»
«Cerco di non guardarli, ma ok. Al tuo tre».
«Ok. Uno».
Smoker socchiuse gli occhi e aggrottò le sopracciglia.
«Due».
Socchiuse leggermente le labbra.
«Tre».
Hina si piego velocemente su di lui, appoggiando le proprie le labbra sulle sue, la lingua saettò veloce nella bocca del ragazzino scontrandosi con quella di Smoker. Il contatto durò meno di due secondi dopo i quali i due si staccarono schifati, con un’espressione di disgusto sul viso.
«Che schifo!» esclamò Smoker sputacchiando «Ma perché era bagnato?!»
«La tua lingua!» si lamentò anche Hina, strofinandosi con il dorso della mano «Nessuno ha mai detto che faceva così senso! La tua lingua era come un verme!»
«Cosa credi! Anche la tua! Giura che non lo dirai a nessuno!»
«A nessuno» promise la bambina.
«Facciamo che promettiamo stringendoci la mano?» chiese quindi Smoker con un’ultima smorfia, allungando un braccio verso di lei.
«Purché non debba baciare mai più nessuno» accettò Hina stringendolo tra le sue dita esili.

Era Luglio inoltrato quando i giornali riportarono la notizia della scomparsa di Ohara dalle mappe.
Il polverone che ne conseguì rimase impresso nelle menti di tutti per lungo tempo e in molti ringraziarono il cielo di essere separati dal mare occidentale dal Linea Rossa; i genitori iniziarono a raccontare ai figli storie terribili sui demoni di Ohara e su quella bambina diabolica che era riuscita a fuggire.
Tutti speravano che venisse catturata presto, soprattutto visto il complotto per distruggere il mondo che stavano macchinando quei mostri di Ohara prima di venire fermati dal governo; che poi fosse stata in grado, sa sola, di abbattere cinque navi della marina, non faceva che incrementare le ansie dei cittadini.
«Tutto questo è male» diceva Havamama in quei giorni «Lo sento nelle ossa, bambini! A messa mashee af deer, piccolo demone!»
Smoker e Hina non vi prestarono più di tanto attenzione, per loro era solo una notizia come un’altra e, in quei giorni, il mare orientale era pieno di imbarcazioni che facevano tappa a Natsukashii e poi ripartivano; si trattava quasi sempre di navi pirata, dirette verso l’avventura e verso il grande blu, ben più interessanti di una notizia passeggera su un’isola di ribelli spazzata via dal governo.
Erano i giorni delle grandi partenze e delle navi maestose, in cui l’intera città si riempiva del vociare allegro di ciurme in attesa di salpare, gente che faceva festa e radunava provviste, ringraziando gli abitanti invece di derubarli, dimostrando spesso un’umanità che ancora non era stata perduta.
Il 1502 fu un anno di sconvolgimenti non indifferenti per tutto il mondo; a due anni dalla morte di Roger sembrava che la terra avesse iniziato a girare a velocità doppia rispetto al normale. I bambini crescevano più in fretta e spesso si imbarcavano in viaggi da cui non sarebbero più tornati; i pirati erano divenuti compagni anche dei cittadini più rispettabili e si mescolavano nelle città creando scompiglio e spesso attirandosi le ire dei comandi locali della marina. Si diceva che nel grande Blu cominciassero ad emergere nuove potenze, a capo delle quali rimaneva ancora il temuto Barbabianca, l’unico uomo che, dopo Roger, era stato in grado di tenere ben strette le redini della pirateria, dicevano di lui che fosse il più potente del mondo, ma non tutti ci credevano davvero.
Si parlava anche di nuove flotte, proprio là, nel mare orientale, nate da membri della ciurma di Roger rimasti allo sbaraglio, ma nessuna di loro giunse mai fino a Tatemae e in molti continuarono a credere che il mare orientale fosse rimasto un’oasi tranquilla in un mondo che andava sempre più allo sbaraglio.
Questo finché, un pomeriggio afoso di quello stesso luglio in cui il panico aveva iniziato a diffondersi a causa di una bambina, una singola nave, sulla cui cima spiccava il Jolly Roger nero, non approdò nel portò meridionale di Natsukashii.
Fino a quel momento i pirati che erano approdati sull’isola avevano mantenuto un profilo piuttosto basso, consapevoli che il vero viaggio sarebbe cominciato solo una volta superata la Reverse Mountain, ma, disse in seguito chi fu testimone degli eventi, nello sguardo di quell’uomo, subito dopo essere sceso dalla nave, non c’era altro che follia.
Le fiamme divorarono la città.
Alte lingue di fuoco salivano verso il cielo, mentre urla disperate percorrevano le strade; gli abitanti scappavano, senza sapere bene dove rifugiarsi, mentre i marine della base entravano nel panico, incapaci di opporre reale resistenza di fronte a quell’attacco inaspettato e brutale. Hina e Smoker, ben lontani dall’avere idea della portata reale degli accadimenti che sconvolgevano la loro cittadina, erano in casa, impegnati in una discussione su quale fosse sistema migliore per stanare un ratto dalla sua tana. Quando la porta della vecchia e malridotta casa di Havamama si spalancò con un tonfo, nessuno di loro – nemmeno l’anziana donna, che oramai di cose ne aveva viste nella sua lunga vita – si aspettava di trovarsi di fronte uno sconosciuto, armato fino ai denti e con l’aria minacciosa.
Probabilmente nemmeno l’uomo si aspettava di trovare dei bambini o, forse, semplicemente, aveva creduto che in quella casa dall’aspetto dimesso ci fosse davvero qualcosa da portare via.
Hina e Smoker avevano già visto qualcuno morire, ma assistere all’esecuzione di un criminale è molto diverso dal guardare con occhi sbarrati la morte di chi si ama, rimanendo bloccati dalla paura, incapaci di fare qualsiasi cosa. Fu questione di pochi istanti, ancora prima che riuscissero a riscotersi dal torpore in cui erano stati avvolti Havamama si piazzò davanti a loro con tutta la sua mole, scansando lo sconosciuto con una potente manata alla quale seguì uno scoppio che riecheggiò tra le mura della casa sonoramente.
«Antloyfn!» urlò voltandosi appena i bambini e sul viso era stampata un’espressione seria che non avevano mai visto prima.
«Havamama! Havamama! Vieni!» urlò Hina, intrecciando le sue dita a quelle di Smoker e dirigendosi verso la porta.
«Havamama resta qui un po’ ancora, kinder, con questo shmendrick» disse la donna «E non preoccupatevi per me, Havamama sa sempre quello che fa e Havamama vi vuole bene, piccini».
Hina sentì la mano di Smoker stringere la sua con maggiore forza, non ne era certa, la sua vista era appannata da lacrime, ma era abbastanza sicura che anche lui stesse piangendo. Uscirono per strada, seguiti dalle ultime parole che avrebbero mai sentito pronunciare alla vecchia Havamama, indirizzate verso il pirata che ancora le stava di fronte: «Ikh hob dir in drerd!»
Se avessero loro detto che era scoppiata l’Apocalisse, forse ci avrebbero creduto; la città era completamente diversa da quel porto sicuro in cui si erano abituati a girare. Le fiamme avanzavano veloci da ovest verso est, un fumo nero e acre saliva in ampie volute verso il cielo, finendo loro negli occhi e portandoli a lacrimare ancora di più; solo l’avere passato così tanti anni a correre tra i vicoli sporchi e le strade secondare gli permise di riuscire a districarsi in quell’intreccio quasi mortale di case in procinto di crollare e persone in fuga.
La villa degli Okabe, grazie, in parte, alla sua posizione privilegiata in cima alla collina, grazie anche alle spesse mura di cinta di pietra, era rimasta indenne e si ergeva come roccaforte della città; Natsuki, davanti all’ingresso principale, armata come nessuno dei ragazzi l’aveva mai vista, aiutava i cittadini in fuga ad entrare, invitandoli a rifugiarsi nel giardino. Come li vide arrivare, corse verso di loro, abbracciandoli di slancio con un malcelato moto di sollievo, tornando, interiormente, a respirare. Non lo avrebbe mai ammesso, non a sua figlia, tantomeno a suo marito – che in quella rara occasione aveva dimostrato di avere più coraggio di quanto chiunque avesse creduto, imbracciando un fucile e correndo ad aiutare gli uomini al porto – ma Natsuki aveva vissuto l’ultima ora con groppo alla gola e un nodo all’altezza dello stomaco, nel timore che fosse successo qualcosa alla sua bambina. Non aveva nemmeno mai espresso il suo disappunto tanto era turbata e ora, finalmente, sentiva che il peggio era passato.
«Dentro, presto. Entrate in casa!» disse con voce accorata, indicando il cancello aperto e sospingendoli verso di esso.
«È successo qualcosa? State bene?» domandò quindi, nel notare i loro occhi lucidi e i solchi chiari delle lacrime sulla pelle fuligginosa e annerita dal fumo.
Smoker distolse lo sguardo, puntandolo verso il basso e accorgendosi, solo in quel momento, del cane che lo attendeva sulla soglia del cortile; lasciò andare la presa sulla mano dell’amica e corse incontro a Chaser, maledicendosi per non avere pensato a lui nemmeno un momento in tutto quel trambusto.
«Havamama è morta» disse piano Hina abbassando la voce, con occhi spenti, spostando lo sguardo da Smoker a sua madre «Le hanno sparato qui» indicò un punto all’altezza della sterno, un po’ troppo vicino al cuore per i gusti di Natsuki.
«Hina, guardami negli occhi e ascoltami bene» il suo tono di voce era così serio e greve che la bambina si riscosse leggermente e fece come le era stato detto «Devi aiutarmi perché non posso fare tutto da sola. Sai dove sono le chiavi delle cantine?»
«Sì, ma –»
«Prendi Smoker, andate a prendere le chiavi e fate entrare tutti i bambini, le donne incinte e chiunque sia troppo vecchio o troppo fragile per imbracciare un fucile in cantina. Poi con questa» disse staccandosi una chiave arrugginita dal collo «Andrai, con chiunque non sia rimasto di sotto, nel capanno in fondo al giardino. Ora ascoltami molto attentamente, la marina sta arrivando, non quegli smidollati della sezione della città, dei veri Marine, da Rogue Town, dobbiamo cercare di resistere fino a quel momento, a meno che i pirati non decidano di andarsene prima, hai capito?»
Il viso di sua figlia si era fatto più serio del solito e la bambina annuì; Natsuki ringraziò che avesse ereditato il sangue freddo della sua famiglia, in grado di farle mantenere la calma anche nella peggiore delle situazioni. La osservò avvicinarsi a Smoker e spiegargli cosa fare, quindi annuì leggermente quando entrambi si girarono a guardarla ancora.
Hina sobbalzò leggermente nell’udire il pesante cancello del giardino chiudersi dietro sua madre dopo che Hideaki e gli uomini che erano scesi al porto furono tornati, la udì mentre ordinava agli uomini che le erano rimasti vicini come barricarlo quindi si fece forza e fece come le era stato detto. Per quel breve lasso di tempo, né lei né Smoker tornarono col pensiero a quanto era accaduto poco prima, cercando di concentrarsi sulle persone che avevano di fronte agli occhi, sulle persone che erano ancora vive.
Hina non aveva mai messo piede nel capanno prima, non le era permesso e lei era sempre stata abituata ad obbedire agli ordini; non si immaginava, quindi, che quel modesto edificio in un angolo del giardino ospitasse così tante armi e così tante munizioni. Quello non era semplicemente un luogo sicuro dove nascondere oggetti troppo pericolosi per finire nelle mani di una bambina, bensì una vera e propria armeria, sembrava quasi che ci fossero fucili a sufficienza per un esercito. O almeno così sembrò ai due ragazzini in quel momento; erano le prime pistole, le prime spade che vedevano da così vicino e quando le loro mani tremanti andarono a sfiorarli percepirono un brivido di adrenalina scorrere lungo la schiena.
Gli uomini accanto a loro parevano guidati dalla voce calma e fredda di Natsuki che andava intimando a ciascuno di raccogliere un’arma e piazzarsi lungo il muro e dietro il cancello, in attesa dei rinforzi. Dovevano fare da baluardo difensivo per i deboli e gli indifesi, dovevano essere ciò che la marina dell’isola non era stata in grado di fare.
«Io però questa non la so mica usare» borbottò Smoker prendendo in mano una spada troppo lunga per lui.
«E infatti non la userai» Hideaki, comparve alle sue spalle sfilandogli con delicatezza l’arma dalle mani e riponendola al suo posto «Cosa ci fate ancora qui, si può sapere? È pericoloso, dovreste già essere in cantina con gli altri!»
«Hina vuole restare» protestò la figlia, guardando con aria leggermente preoccupata sua madre che pareva completamente assorbita dai preparativi della battaglia «Posso combattere».
«Anche io, sono il più forte di tutta Natsukashii, anche i ragazzini più grandi hanno paura di me!»
«Il fatto che siate due piantagrane non giustifica assolutamente la vostra presenza qui, andate in casa, di corsa».
«Non andrò a nascondermi in cantina quando ci sono persone che sono qui a rischiare la vita, non sono più un bambino e Havamama…»
«Havamama vorrebbe che tu fossi al sicuro, Smoker. E lo voglio anche io. Ora filate in casa entrambi!»
Hina afferrò di malavoglia la mano dell’amico e se lo trascinò di peso verso l’ingresso.
«Non vorrai davvero andare a nasconderti?»
«Hina non si nasconde, ma se stiamo qui saremo di peso per tutti. Vieni su, dalla finestra di sopra riusciremo a vedere tutto, e se poi fossimo davvero in pericolo io li conosco i passaggi segreti della villa».
Il ragazzino fece una smorfia, ma la seguì seppur di malavoglia dentro la casa; il vasto ambiente, vuoto e quieto, faceva da eco ad ogni loro passo, mentre, il più silenziosamente possibile andavano attraversando le ampie sale.
«Secondo me non arriverà nessuno».
«Se la mamma dice che la marina arriverà, allora arriveranno di sicuro. Lei non mente mai».
«Te lo avrebbe detto in ogni caso, mica vuole che ti preoccupi!»
Hina sollevò le spalle, senza riuscire a trovare la forza di ribattere, affacciandosi all’abbaino del tetto.
«Però quelle là a me sembrano navi» gli fece notare, indicando uno stormo di vele bianche in prossimità del porto.
Smoker la scostò bruscamente, montando in piedi sul cornicione della finestra e guardando fuori.
«Come fai a sapere che non sono di pirati?» chiese, riluttante ad ammettere a sé stesso che l’amica aveva ragione.
«Hina non è stupida!» ribatté la giovane piccata «So riconoscere il simbolo dei marine».
Smoker si lasciò ricadere all’indietro, sedendosi sul pavimento polveroso dell’attico.
«Lo so» borbottò a mezza voce «Lo so che non sei stupida. Però… Però potevano arrivare prima! Se fossero arrivati prima ora Havamama -»
Hina rimase immobile per qualche secondo a fissarlo, senza trovare la forza di correggerlo, senza trovare la forza di chiedergli di finire la frase; quindi si sedette al suo fianco e gli prese la mano, ancora incerta su quale fosse il modo giusto per consolarlo, perché, anche lei se ne rendeva conto, quella che Smoker aveva subito quel giorno, era una perdita che nessuno avrebbe mai potuto lenire del tutto.
Gli appoggiò il capo sulla spalla, stringendo più forte le piccole dita attorno a quelle del ragazzo e attese, rimanendo a osservare l’orizzonte che si tingeva di rosso.

Suo zio era un uomo sgradevole.
Almeno fu questa la prima impressione che Hina ebbe di lui quando lo vide qualche ora dopo. Prima di tutto aveva aperto un grosso buco nel muro di cinta, invece di entrare dal cancello come le persone normali; quindi aveva lasciato piccole gocce di lava bollente per tutto il giardino, persino sulle rose della mamma, lasciando dei solchi sgradevoli. La prima cosa che le disse, quando finalmente si rese conto della sua presenza di fronte a lui, dopo avere fatto una smorfia strana, fu: «Perché dovete tutte avere i capelli rosa?»
«Akainu, piantala!» lo redarguì sua sorella, avvicinandosi alla figlia e prendendola in braccio, cosa che non accadeva da anni «Potresti almeno salutare tua nipote come si deve, visto che non la vedi praticamente da quando è nata!»
«Avevo altro da fare, Natsuki. La giustizia non aspetta».
«Via, via, Akainu. Non è carino trattare così tua sorella» gli fece eco il suo collega, un uomo da una folta capigliatura scura raccolta sotto una bandana blu «Sei affascinante come al solito, Natsuki, cara»
«E tu come al solito sei un adulatore, Aokiji. Ora levati gli occhiali da sole, e anche il cappello, sei in una casa non in una stalla. E tu» continuò rivolta al fratello «Vedi di levarti quel cappotto, muoviti. Sarete anche due Vice Ammiragli, ma in questo momento siete miei ospiti».
«Natsuki non ho tempo per queste stronzate, devo compilare un rapporto».
«Hina, tesoro, perché non vai a controllare come stia Smoker, mentre io dico a tuo zio dove deve infilarsi il suo rapporto?»
«Hina è seccata» borbottò sua figlia guardandola storto «Ma ci va lo stesso, e comunque» riprese girandosi verso Akainu «Non si dicono le parolacce».
Non fece che pochi metri, uscì dal salone e si fermò nell’atrio, girandosi a osservare con sguardo ostile l’uomo che l’aveva seguita.
«Ha bisogno di qualcosa?» domandò con educazione.
«No» rispose Aokiji sbadigliando «Ma i tuoi parenti sono una vera scocciatura e io voglio filarmela».
La ragazzina aggrottò le sopracciglia, perplessa.
«Pensavo che i marine non… se la filassero» esordì, calcando con tono esagerato sull’ultima parte della frase «Che cosa vuol dire?»
«Che ho tutta intenzione di passare il pomeriggio a far niente, me lo merito dopo aver lavorato così duramente» le fece notare il vice ammiraglio, sperando che la bambina non si accorgesse del velo di ironia celato nelle sue parole.
«E deve proprio seguire me?»
«Non ho di meglio da fare, te l’ho detto».
In realtà Aokiji avrebbe avuto ben altro da fare, tipo una telefonata ai suoi superiori, tuttavia, in quel momento, trovava molto più divertente seguire la giovane figlia di Natsuki, mosso sia dalla noia che da un sentimento di protezione verso la figlia di una donna che negli anni gli aveva sempre dimostrato profonda amicizia. Anche se l’isola era stata completamente ripulita era comunque meglio che una ragazzina così piccola non vi si avventurasse da sola, non subito almeno.
«Guardi che so badare benissimo a me stessa» mormorò la bambina uscendo di casa con aria impettita e vagamente scocciata.
«Non ne dubito».
«I bambini più grandi hanno paura di me» continuò ancora, cercando di darsi un tono proprio come avrebbe fatto Smoker.
«Oh, beh, anche io avrei paura di Natsuki».
«Non di mia mamma, i bambini hanno paura di Hina e di Smoker. Soprattutto di Smoker, ma anche di me».
«E questo Smoker dov’è ora?»
Hina parve pensarci qualche istante, quindi un’ombra le attraversò lo sguardo.
«Di solito… Beh, di solito sarebbe da Havamama, ma le hanno sparato e papà è andato a controllare e ha detto che hanno spostato il suo corpo nella chiesa del settore Est, quella con le stelle».
«Intendi la Sinagoga?»
«E io che cosa ho detto? Comunque a lui quel posto lì non piace, dice che puzza di morto e di spezie, ed è vero. Anche la mia chiesa ha lo stesso odore. Credo che adesso sia al porto».
Aokiji sbadigliò di nuovo, calandosi i piccoli occhiali da sole sul viso e sistemandosi la bandana con un gesto rapido, quindi afferrò Hina con un braccio e ignorando le proteste accorate della ragazzina, se la caricò in spalla.
«Mi spiace, ma hai le gambe troppo corte».
«Mettimi giù, nemmeno ci puoi venire al porto! Mettimi giù!»
«Non essere maleducata, vedrai che il tuo amico non avrà di che lamentarsi» borbottò l’uomo cominciando a pensare di aver fatto un errore.
«E quello lì chi è?» chiese Smoker con aria ostile nell’istante stesso in cui li vide comparire da dietro un angolo.
Aokiji, sulla sua bicicletta, portava in spalla Hina che con irritazione crescente si era aggrappata ai suoi capelli e cercava vanamente di scendere; il ragazzino di fronte a loro teneva in mano una grossa mazza da baseball chiodata, al suo fianco un cane dal pelo biancastro dormiva pacifico.
«Oh. Ora capisco perché gli altri bambini hanno paura di voi» borbottò a mezza voce, rimpiangendo di non essere rimasto a far da spettatore alla lite tra Akainu e Natsuki.
«A quanto pare è un amico di mia mamma» spiegò Hina saltando a terra e avvicinandosi all’amico «È tipo un marine però».
«L’avevo capito anche da solo quello, anche se non ha l’aria del marine».
«Io sarei sempre qui…»
«Credi che ci voglia fermare?» sussurrò Smoker chinandosi leggermente verso l’amica.
«E come faccio a saperlo?»
«Sei qui per fermarci? Perché non funzionerà!» esclamò quindi il ragazzino volgendosi verso il Vice Ammiraglio.
«Fermarvi dal fare cosa?»
Hina sollevò piano la mano e indicò un’imbarcazione poco lontana.
«Ci infiliamo là dentro e partiamo» disse con voce seria.
«Interessante, e poi?» domandò l’uomo trattenendo un sorriso divertito.
«E poi andiamo a picchiare quel Putz che ha ucciso Havamama e tutti gli altri. E se ne resta qualcuno vivo lo uccidiamo» sibilò Smoker stringendo i pugni e aggrottando le sopracciglia in una smorfia di rabbia.
«E poi? Dopo averli uccisi cosa farai? Oltre a farti arrestare e probabilmente condannare a morte?» domandò Aokiji accovacciandosi di fronte a lui e lasciando penzolare pigramente le mani fino a terra.
«Non mi arresteranno e comunque non lo so, non ci o pensato, voglio solo che quei bastardi muoiano tutti».
«Hina è d’accordo, ma dovresti parlare un po’ meglio» la ragazzina si issò su una cassa e si mise a sedere, fissandoli entrambi «È una vendetta, non serve un piano».
«Prima di tutto, signorina, serve sempre un piano, anche quando sembra che non sia necessario» fece notare il marine «E perché di grazia vorreste vendicarvi?»
«Per avere giustizia!» sbraitò il bambino mollando la mazza e facendo un passo avanti «Havamama è morta e quanti di questi schifi avete preso? Eh, quanti? E quanti sono scappati? Non è giusto!»
«Il mondo raramente lo è, ragazzino. Ma, come dicevo a un vecchio amico non molto tempo fa, quella che chiamiamo "giustizia" cambia forma a seconda da che parte stai, quindi non ti biasimo per la tua giustizia. Ma se questa ti porta a intralciare la marina, ad intralciare la legge, allora non si può più fare finta di niente solo perché quello che fai è virtualmente giusto. Lo capisci?»
«Hina lo capisce».
«Io no, se siete davvero la giustizia perché non avete fatto niente? Perché i vostri soldati non li hanno fermati? Dovevate annientarli tutti!»
«Lo sterminio di massa non è un’operazione contemplata, la giustizia di cui parli tu è assoluta, non concede margine di errore né concede redenzione, e spesso porta l’uomo alla follia, fidati ragazzino, non è la soluzione. Ho visto con i miei occhi dove porta e a cosa porta, e ho visto solo morte e fuoco e fiamme».
Smoker sembrò calmarsi leggermente a quelle parole, trattenendo con rabbia le lacrime di frustrazione che minacciavano di uscire, che continuava a sentir pizzicare da ore oramai e che facevano pressione da quando aveva finalmente realizzato di essere solo al mondo. Ora Havamama non c’era più e a lui cosa restava? Una casa vuota e un cane di cui non poteva prendersi cura.
«E allora cosa posso fare io?»
«Tanto per cominciare puoi evitare di imbarcarti senza sapere dove andrai a finire. Poi lascia che le cose facciano il loro corso».
«Hina non lo trova un gran piano questo…» fece notare la ragazzina sollevando un sopracciglio.
«Giustizia con pigrizia, fidati che è meglio aspettare il momento giusto piuttosto che catapultarsi a capo chino verso l’ignoto».
«Non mi hai risposto, cosa dovrei fare io?» chiese ancora Smoker.
«Hai mai pensato di entrare in marina?»

Hina sedeva sui gradini di pietra bianca della sinagoga, era la prima volta che si avvicinava all’edificio e avrebbe preferito continuare a non vederlo; all’interno Smoker stava dritto in piedi, di fianco al corpo irrigidito della donna che lo aveva cresciuto, che aveva visto epoche intere scorrerle davanti agli occhi e che era stata testimone dei cambiamenti del mondo.
In quel momento l’unica cosa che interessava a quel ragazzino era che Havamama fosse morta, non lo avrebbe più chiamato Klutz, non lo avrebbe più sgridato per i lividi con cui si presentava la sera a casa, né gli avrebbe più raccontato storie noiose di quando era giovane; improvvisamente Smoker si pentì di non averla mai ascoltata davvero.
«Geh gesund, Havamama» mormorò piano allontanandosi a passi lenti verso l’uscita principale.
Hina era ancora lì, dove l’aveva lasciata un’ora prima, in attesa; si sedette al suo fianco, avvicinando le gambe al petto e affondando il viso tra le ginocchia. La ragazzina non disse niente, rimanendo in silenzio ad ascoltare i singhiozzi dell’amico; era la prima volta che vedeva Smoker piangere a quel modo e, probabilmente, sarebbe stata anche l’ultima, o almeno così pensò in quel momento perché Smoker non piangeva mai, nemmeno quando veniva picchiato dagli altri bambini, nemmeno quando si faceva male. C’era stata una volta in cui si era fatto un taglio sulla gamba cadendo da una roccia, Havamama gli aveva dovuto mettere cinque punti e lui non aveva fatto un plissé. Vederlo così, in quel momento, era peggio di quanto Hina potesse sopportare, eppure non pianse, se si fosse messa a piangere anche lei di che consolazione sarebbe stata? E comunque che diritto aveva di piangere in quel momento? I suoi genitori erano ancora vivi, la sua casa era ancora in piedi, il suo futuro era ancora lì, brillante e luminoso, davanti a lei.
«E ora?» borbottò il ragazzino tirando su col naso.
«E ora cosa?»
«Che cosa faccio ora?»
Hina parve pensarci su qualche istante, quindi scrollò le spalle come a indicare che lei non sapeva quale fosse la risposta giusta a quella domanda.
«Aspetta».
«Cosa dovrei aspettare».
«Non lo so, ma quando sarà il momento credo che lo capirai».
«Inizi a parlare come quel marine con gli occhiali cessi» le fece notare l’amico sorridendo mestamente.
«Magari ha ragione lui, sai. Magari non è il caso di imbarcarsi ora, saresti tutto solo e lo sai che il grande blu è beh… grande».
Smoker borbottò qualcosa di incomprensibile e balzò in piedi, guardandola con aria arrabbiata.
«Come se cambiasse qualcosa! Sono già solo, Havamama è morta! Non ho una famiglia, non ho nessuno!»
La ragazzina fece una smorfia, sollevando appena lo sguardo verso di lui.
«Hai me» mormorò piano «Hina è qui e non va via a meno che non vada via anche tu. E la mia famiglia è la tua famiglia, non è vero che sei solo».
«Scusami, Havamama aveva ragione, sono sempre uno stupido schmeckle» disse strappandole un sorriso.
«Ho promesso e Hina mantiene sempre le promesse».
«Quindi se decidessi di partire verresti davvero con me?»
Annuì prima di borbottare a mezza voce: «Anche se penso sia una cosa stupida».
Smoker si rimise a sedere al suo fianco, lasciando vagare lo sguardo sulla città, verso il porto, oltre la baia, sulla distesa immensa d’acqua.
«Sono uno stupido schmeckle e ho delle idee stupide, cosa ti aspettavi? Però credo questa volta, solo questa volta, tu abbia ragione».
«E quindi cosa vuoi fare?»
«Aspettare, direi, che poi magari quel marine ficcanaso aveva anche ragione e se aspettiamo poi lo scopriamo».
Hina annuì, prendendogli la mano e aspettando che fosse lui a stringerla.
«Credo che a mio padre prenderà un colpo».
«Sarà molto divertente» fece eco il ragazzino, voltandosi verso di lei e fissandola per qualche istante, come a volersi imprimere quel momento nella memoria.
Hina non abbassò lo sguardo, rimase immobile, serissima, in attesa.
Quando finalmente Smoker le strinse la mano e sorrise, nei suoi occhi passò un leggero lampo di eccitazione, aspettativa per il futuro, la consapevolezza di essere in procinto di iniziare qualcosa di nuovo e della più assoluta ignoranza di ciò che li aspettava.
«Quindi se decidessi di entrare in marina?»
«Hina pensa che sia più intelligente che salire su una nave per farsi sparare addosso da chi passa».
«Sì, ma tu verresti con me?»
«Che palle, Klutz, ti ho già detto di sì, sei diventato sordo oltre che stupido?»
Smoker scoppiò a ridere, sollevato. Hina rimaneva un punto fermo nella sua vita e, con il calare del giorno su quegli eventi così carichi di dolore, la consapevolezza che sarebbe rimasta al suo fianco era quanto gli serviva per riuscire ad andare avanti.






   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio! / Vai alla pagina dell'autore: Alexiel Mihawk