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Autore: Eden_9489    15/02/2016    0 recensioni
Sono già passati tre anni da quando Logan ha perso l'amore della sua vita, perdendo con lei ogni speranza per il futuro e ogni sogno di una vita insieme. L'unico legame che ancora lo trattiene nella città in cui è nato, Santa Monica, è l'oceano che ha il colore dei suoi occhi. Un blu così intenso in cui amava perdersi e naufragare. Solo, e ormai rassegnato a non poter mai più amare qualcuno tanto quanto ha amato Isabel, passa le giornate tra il lavoro, il cimitero, e l'anziana signora Smith che si prende cura di lui. Quello che Logan non sa è che molto presto qualcuno farà irruzione nella sua vita come un treno in corsa, distruggendo quelle poche certezze che gli restano.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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 Sono passati ormai tre anni da quel terribile giorno. 

Purtroppo però, ogni notte, il ricordo di quella sera mi tormenta ed è tutto così reale da fare male, troppo male. Sono stanco, stanco di tutto. 

Più volte ho pensato di andarmene, di andare via e lasciarmi tutto alle spalle, ma non ci riesco. E' come se qualcosa mi tenesse incatenato a questo luogo. Come se ci fosse ancora qualcosa qui chedevo fare, un conto in sospeso da pagare. 

Il problema è che ogni cosa, anche la più piccola mi ricorda lei. 

Per prima cosa l'oceano. 

Mi ricorda i suoi occhi, di quel blu così intenso in cui amavo perdermi e naufragare. 

Quando posso, al crepuscolo, vado sul molo per contemplare la bellezza dell'oceano, per convincermi che lei non se n'è andata davvero, che è ancora qui, che vive in lui e veglia su di me. E' l'unica cosa che mi da conforto, che mi fa tirare avanti, sopravvivere. Come potrei voltarle le spalle, abbandonare tutto questo? Non posso. 

La mia vita da quel giorno è cambiata così tanto. Ogni tanto mi capita di ripensare a quel ragazzo innamorato di tre anni fa, ma è come se rivivessi i ricordi di un altro. Tutto è così lontano e indistinto, un'altra vita vissuta che ormai non mi appartiene più. 

Avevo tanti progetti, tanti sogni nel cassetto ma è fallito tutto. Ogni cosa era legata a lei, il mio futuro era lei. 

Ancora oggi non riesco a credere a come abbia tirato avanti in questi anni, cosa non mi abbia fatto cedere, lasciar andare, porre fine al mio dolore.

 Non so se sono state più le volte in cui ho pensato di farla finita o quelle di andare via, comunque sia non sono riuscito in entrambe le cose. Farla finita farebbe smettere il dolore, la sofferenza certo, ma non posso farle questo. So dentro di me che lei non vorrebbe mai una cosa del genere, non me lo perdonerebbe. 

Mi sento così solo, una solitudine che non riesco a colmare. Non sono riuscito ad avere un'altra ragazza in questi anni, nessuna era abbastanza, nessuna era lontanamente perfetta come lei. Certo sono un uomo, ogni tanto do' sfogo alla mia natura, ma dopo quei pochi secondi di piacere, il vuoto dentro di me si fa più grande.

 Per me è quasi una sofferenza, baciare labbra che non sono le sue, sentire profumi che non si avvicineranno mai lontanamente alla perfezione del suo. E così anche i capelli, la pelle, guardare occhi in cui non vedo niente, in cui non vedo la sua anima.

Sono un parassita, mi sento una persona inutile la maggior parte del tempo. Il primo anno ho anche iniziato a bere, bevevo così tanto da dimenticare persino il mio nome, ma dopo esser finito in ospedale un paio di volte ho deciso di smettere. Ho iniziato a fumare, cosa che lei odiava profondamente, ma adesso fumo molto di rado, una sigaretta ogni tanto, quando ho bisogno di rilassarmi un po'.

Quando non sono a lavoro, sto a casa a trascinarmi da una stanza all'altra. Faccio il cameriere in un ristorante messicano, lo faccio da due anni ormai. Fare il cameriere non è mai stato il mio sogno, ma la paga è buona e poi è sul molo, in questo modo ho l'oceano sempre vicino. Molti odiano il proprio lavoro, io invece non vedo l'ora di andarci, è l'unico modo per non pensare, l'unica cosa che mi separa dal dolore costante che provo dentro di me. 

Non so quanto ancora durerà tutto questo, quanto ancora devo pagare? Quanto tormento, quanta sofferenza? Vorrei tanto strapparmi il cuore dal petto, non provare niente. Vivrò mai senza questo peso enorme, questo dolore lancinante, questo buco nero che mi sta inghiottendo pezzo per pezzo?

Vorrei davvero restare nel tepore del mio letto, ma non posso stare qui un minuto di più. I raggi del sole che giocano sulla parete di fronte a me sono il chiaro segno che è ora di alzarsi. 

Mi trascino in cucina, un piede dopo l'altro, con la lentezza pari a quella di un bradipo. Una volta in cucina preparo il caffè, spero che almeno lui possa movimentare un po' la mia giornata. Mi avvicino alla finestra e scosto un po' la tenda per guardare fuori, di fronte a me la signora Smith cura le piante in giardino. Faccio in modo che non mi veda, anche se, vista la sua tarda età, dubito fortemente che riuscirebbe a vedermi anche se le ballassi davanti. 

 Non che sia una cattiva signora, la conosco da quando sono nato, mi ha fatto da babysitter per anni, solo non sopporto il modo in cui mi guarda. I suoi occhi pieni di comprensione e pena mi fanno solo sentire peggio. Ma è l'unica persona di riferimento che mi è rimasta.

 Abito al secondo piano di un piccolo residence color kiwi sulla Bicknell Ave, è un posto tranquillo, ma oltre alla signora Smith, che abita in una piccola casetta al lato opposto della strada, non posso contare su nessun altro. 

Torno ai fornelli e preparo la caffettiera per il caffè. Mentre aspetto, il mio sguardo si posa sulle piccole tende che coprono le finestre. Le ho sempre odiate, fin da piccolo, come molte cose in casa mia, ma non voglio toglierle, ne cambiare qualcosa in tutta casa. 

E' uno dei pochi ricordi che mi son rimasti di mia madre. E' morta due anni fa, un brutto tumore al seno scoperto troppo tardi. Ha iniziato a marcire dentro anni prima e non ha mai detto niente a nessuno, nonostante si sentisse male, ne nessuno si è mai accorto del suo malessere e nessuno ha potuto fare niente per salvarle la vita. Arrivata al quarto stadio è tutto inutile, chemio, radio, persino l'operazione. Era tutto tropo esteso, aveva metastasi ai polmoni, al cuore.

 Ci sono momenti in cui mi sembra che anche la sua morte sia stata colpa mia. Avevo perso Isabel solo da un anno, ero distrutto, bevevo, come detto prima, ero egoista. Pensavo semplicemente al mio dolore, non esisteva niente e nessuno. E lei era li, sempre costantemente al mio fianco, mi ha coperto con mio padre ogni volta che venne a prendermi in ospedale. Subiva ogni mio capriccio, ogni sfuriata. 

Sono stato così cieco, lei cadeva a pezzi davanti a me, ma io vedevo solo i miei di frammenti. Se solo fossi stato più attento, se solo avessi fatto più caso ai segnali, probabilmente lei sarebbe ancora qui. Ma il mondo è un posto crudele e mi ha portato via anche lei. Mio padre, d'altro canto, ha preso a balzo l'occasione ed è andato via di casa. 

L'ha lasciata morire anche lui, ma in modo più grave. Le sue armi erano l'indifferenza ed il menefreghismo. Più volte mi ripeté che mamma l'amava davvero, ma erano tutte bugie, se l'avesse amata davvero si sarebbe accorto del mostro che aveva dentro di lei e che le stava risucchiando via la vita.

 Adesso vive a New York con la sua nuova compagna. Ci sentiamo raramente e ci vediamo ancora meno. Lui non è mai voluto stare qui, non è mai stato posto per lui, ma mia madre è nata qui ed ha amato questo posto incondizionatamente fino alla sua morte. 

Una volta preso il caffè mi accendo una sigaretta. Faccio il primo tiro, il fumo caldo mi brucia la gola mentre la nicotina mi entra in circolo facendo il suo dovere. Se solo mi vedesse lei, di certo non sarebbe fiera di me. Ma che altro posso fare? Lei non c'è più, niente me la restituirà, devo pur cercare di tirare avanti, vivere con la sua assenza. 

Schiaccio nel posacenere posizionato al centro del tavolo il mozzicone mentre l'ultima nuvola di fumo esce dalla mia bocca. 

La mia prossima tappa è il bagno, mi spoglio completamente e mi butto sotto il getto caldo della doccia. L'acqua calda mi accarezza, si insinua in ogni fessura, come se mi penetrasse oltre la pelle. Resto più del dovuto a bearmi di quel calore. Chiudo gli occhi e alzo il viso in modo che il getto caldo mi arrivi ben diretto. Inevitabilmente è come se mi ritrovassi dentro quella macchina con il sangue caldo a colarmi sugli occhi, ad offuscarmi la vista e subito entro nel panico. Cerco di respirare ma con il caldo asfissiante che si è creato in bagno non ci riesco. Esco dalla doccia a tutta velocità ed apro la porta. Una ventata di aria fresca mi inonda e finalmente prendo ossigeno. 

Respiri profondi e piano il mio cuore smette di galoppare. E' più forte di me, non riesco a fermarle. Da quel giorno continuo ad avare orrende allucinazioni, così tanto reali da farmi vivere dei e veri e proprio attacchi di panico. Fortunatamente adesso so come controllarmi, ma non riesco comunque a farle andare via del tutto. 

E' la mia punizione, credo. 

Mi avvolgo nell'accappatoio e vado in camera da letto, una volta indossato i boxer, prendo il primo jeans e la prima maglietta che mi capitano. Ritorno in bagno e mi piazzo di fronte allo specchio appannato. Cerco di ripulirlo con le mani. Di fronte a me appare un ragazzo alto a cui gli anni hanno fatto decisamente un brutto scherzo. I capelli color pece spettinati e ancora un po' bagnati mi ricadono sulla fronte non troppo ampia, non riesco mai a domarli, a sistemarli per bene, è come se avessero vita propria. Il naso non è niente di particolare, ereditato da mio padre, e lui, interamente, non è niente di particolare. Gli occhi sono l'unica parte che mi piace di me. Un po' perché mi piace il colore che hanno, un po' perché sono identici a quelli di mia madre. Sono a mandorla, abbastanza grandi, di un colore verde bottiglia. Sembrano due stagni e sono impenetrabili. Si dice che gli occhi siano lo specchio dell'anima, di solito è così, ma non per quanto riguarda i miei. Solo una persona è riuscita a leggermi dentro, a rompere queste due barriere, a vedere la mia anima e da tre anni a questa parte non è più al mio fianco. Le labbra sono grandi e carnose, altro regalo di mia madre insieme alla pelle olivastra. Il viso è un po' allungato, ma nel complesso diciamo che ho il mio fascino. 

 Mi sciacquo il viso con abbondante acqua fredda e poi tocca ai denti. Una volta pronto torno in camera e metto le scarpe. Prendo le chiavi della moto ed esco di casa, faccio le scale di corsa e in pochi secondi sono fuori. 

 L'aria calda mi si appiccica un po' addosso, saluto con la mano, senza avvicinarmi, la signora Smith ancora intenta a potare le sue adorate piante e monto in sella. Dopo aver distrutto la macchina ho deciso di non volerne più. So che è da stupidi comprarsi una moto, è molto più pericolosa della macchina, ma riesce a farmi sentire un po' meno morto. Anche se mi succedesse qualcosa non avrebbe importanza, non sarebbe una grande perdita per l'umanità.

 Indosso il casco e la moto, una volta accesa, trema sotto di me rumorosa. Vago senza meta per la città balneare, il vento mi solletica le braccia scoperte. So che non ha molto senso vagare per la città, ma è sempre meglio che restare a casa, mi fa sentire come se avessi ancora uno scopo. 

Dopo un po' la moto si ferma e, inevitabilmente, mi trovo di fronte al cimitero. Ci vado tutti i giorni, lo faccio per lei, per non dimenticarla, lei non se lo merita. E lo faccio per mia madre che, oltre me, non ha mai avuto realmente nessun altro. Compro due rose rosse, fresche, profumate, le più belle in mezzo al mucchio. 

Prima mi dirigo da mia madre, sostituisco la rosa di ieri con questa fresca e dopo averle raccontato cosa ho fatto ieri, di come la signora Smith sia stata così premurosa a prepararmi del roast-beef, vado via. 

Raggiungo la tomba di Isabel e mi inginocchio di fronte ad essa. Cambio anche qui la rosa, resto immobile a fissare la sua lapide. La tocco come se da un momento all'altro potesse rompersi, ripasso con il dito ogni incisione come se stessi accarezzando lei, come facevo un tempo. Mi piaceva tracciare con un dito ogni sua forma, con la stessa leggerezza, con la stessa paura che anche lei potesse rompersi, così da imprimere ogni più piccolo suo dettaglio per bene nella mia testa. Ma adesso, ad essere sincero, non riesco più a ricordare niente.

- Perdonami.. - sussurro. Ogni giorno convivo con questi sensi di colpa, ogni giorno vivo con il pensiero che, se quella sera fossimo rimasti a casa, tutto questo non sarebbe successo. Lei sarebbe ancora viva, accanto a me. Tutti i giorni vivo con la consapevolezza che se fossi morto io al posto suo tutto sarebbe diverso. Lei avrebbe continuato ad inseguire i suoi sogni, a vivere una vita piena e felice, anche senza di me.

 Vorrei piangere, sfogarmi, urlare ma non ci riesco. Dopo il giorno in cui mi son reso conto che fosse morta, non ho più versato una lacrima. Ne al funerale, ne dopo. E so che è un male, so che prima o poi scoppierò. Un vulcano che distruggerà tutto dopo aver dormito e covato dolore per anni. Prendo un bel respiro profondo e mi alzo in piedi. Accarezzo ancora un po' la lapide prima di voltargli le spalle e andare via. Una volta tornato sulla moto decido di andare in spiaggia.

  
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