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Autore: beyondJA    17/02/2016    0 recensioni
Un giorno gli ho offerto la colazione, era una domenica mattina e splendeva il sole, ecco perché ha accettato. Siamo entrati, ha preso una ciambella e un cappuccino, io un caffè doppio e un pezzo di crostata all’albicocca. Abbiamo mangiato seduti a un tavolino fuori dal bar sotto gli occhi di tutti, ma cosa c’era da guardare? Il cielo era azzurro, Omar sempre nero, io sempre bianca. Quasi non osservavano il suo sorriso bianco, perché troppo poco bianco rispetto al colore nero stampato in faccia, sulle braccia, sulle gambe. E mi sono domandata perché qualcuno dovesse ritenerlo trasparente.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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OMAR
Ho chiuso la portiera dell’auto e a passi lenti mi sono diretta verso l’entrata del supermercato. C’era lui, Omar, uomo talmente nero che se non fosse per le ore diurne verrebbe scambiato per un’ombra. In realtà Omar, uomo abbastanza nero per avere bambini neri come lui, era spesso invisibile e non solo di sera. Un uomo accanto a me, bianco con figli bianchi, passò indisturbato, senza degnare Omar di uno sguardo. Omar, diventato mio amico anzitempo, era vicino l’entrata del supermercato ed io, mentre infilavo un euro nel carrello, osservavo i suoi occhi bianchi in contrasto con la sua pelle scura. Da anni, ormai, lui era la macchia sulle pareti arancioni della struttura e non aveva nessuno con cui parlare al di fuori di me. Lui mi chiamava bionda ed io lo chiamavo moro. Cosa c’era di sbagliato se Omar, mentre vendeva ombrelli a un prezzo fin troppo economico, si prendeva un attimo di pausa per scambiare due chiacchiere con me? Di sbagliato nulla, soprattutto quando gli offrivo un caffè al bar adiacente al supermercato. Ma nelle giornate uggiose non poteva permettersi di assentarsi dal lavoro, altrimenti non avrebbe guadagnato nulla e, da padre, doveva mantenere la sua famiglia, proprio come un qualsiasi uomo bianco in camicia e cravatta. Anche lui, a pensarci bene, aveva una valigetta, ma non c’erano contanti. Lì erano contenuti braccialetti di colori variegati, collane artigianali a cui aveva provveduto esclusivamente sua moglie e infine gadget di svariato uso. Dunque, i passanti che mormoravano un banale “ombrellaio negro” di pessimo gusto avevano torto marcio, perché Omar disponeva di una merce più ampia. Ma a nessuno importava granché.
Un giorno gli ho offerto la colazione, era una domenica mattina e splendeva il sole, ecco perché ha accettato. Siamo entrati, ha preso una ciambella e un cappuccino, io un caffè doppio e un pezzo di crostata all’albicocca. Abbiamo mangiato seduti a un tavolino fuori dal bar sotto gli occhi di tutti, ma cosa c’era da guardare? Il cielo era azzurro, Omar sempre nero, io sempre bianca. Quasi non osservavano il suo sorriso bianco, perché troppo poco bianco rispetto al colore nero stampato in faccia, sulle braccia, sulle gambe. E mi sono domandata perché qualcuno dovesse ritenerlo trasparente, quando è più vistoso di quelle quattro goccioline d’acqua che possono mettere a repentaglio una messa in piega dal parrucchiere. Nonostante le false ipocrisie e gli pseudo-buonisti, la massa razzista non attende un secondo per comprare da quell’ombrellaio negro il necessario per sopravvivere alla pioggia successiva.
Quando compravo il pane spesso accadeva che mi avanzasse del resto. Immediatamente, senza indugiare troppo, lo destinavo a Omar, che imbarazzato non sapeva dir di no. Come biasimarlo, avendo solo quattro spiccioli in un misero cappello. Lui non chiedeva elemosina, né le sue intenzioni erano quelle di suscitare compassione nell’animo di qualcuno. La sua giornata si componeva della colazione che gli offrivo quando decideva di accettare, del pranzo, cioè tonno in scatola e bottiglietta d’acqua, che doveva mantenerlo idratato per dieci ore, e della cena, che riusciva ad arrangiare con quel poco che guadagna. Tutto il resto erano sudore e pianti, perché lui non lo sa, ma a volte mi è capitato di spiare qualche lacrima che gli usciva involontariamente. Non so se per la situazione precaria che costituiva l’intera sua vita, o per il fatto di non essere accettato per la persona nera che era; non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo. Tuttavia, sapeva di avere un’amica con cui poteva fare colazione, con cui dividere il panettone a Natale. Durante le vacanze natalizie, appunto, gli ho regalato il panettone più grande che offriva il supermercato, che nel frattempo era diventato come una casa scomoda per lui. Lui ha cercato in tutte le maniere di rifiutare, ma poi ho accennato di darlo ai suoi bambini, se proprio lui non voleva. Alla fine ha detto di sì e, convincendolo, ha preso pure il torrone che avevo in realtà comprato per il cenone della vigilia:  l’ho visto più sciupato del solito e non potevo non farlo, ché sono l’unica a prendermi cura di lui, quindi mi son detta che i miei genitori avrebbero capito se mi fossi presentata a mani vuote dagli zii.
Omar è particolarmente felice a Pasqua. Crede in Dio, nella resurrezione di Cristo e ne è fiero. Di conseguenza io sono felice nel regalargli quattro uova di pasqua, uno per ciascun figlio che ha, che ama, proprio come un normale uomo bianco sposato con una normale donna bianca con quattro normali figli bianchi. Inoltre, a volte ride sul fatto che al loro esterno le uova sono marroni, come lui, perché di cioccolata, e al loro interno sono bianche, come chi lo giudica, perché di latte. Lui sin da bambino non ha mai digerito bene il latte, non ci riesce tuttora. E odia il bianco, mi ha detto lui una sera, quando era troppo buio per vederlo e si scorgevano solo un paio di occhi tristi.
Io abbraccio spesso Omar, che possiede più malinconia che soldi. Molti, da quanto ne so, si lamentano della puzza di negro. Ma quale puzza? Allora io, per ripicca, gli ho regalato un sapone del valore di ben cinque euro. Il giorno dopo tutti zitti.
Mentre infilavo un euro nel carrello, improvvisamente Omar, uomo nero, è caduto a terra svenuto, come un qualsiasi uomo bianco. E quel pavimento era calpestato da tutti, neri, bianchi, italiani, mulatti. Per la prima volta Omar è stato notato, seppure a terra. I razzisti, improvvisamente diventati tutti pseudo-buonisti, si sono avvicinati al suo corpo inerte, mentre io, preoccupata, ho chiamato l’ambulanza. Dopo dieci minuti le sirene si sono fatte più vicine e una volta giunti i soccorsi hanno adagiato Omar su una barella e fatta scivolare dentro il veicolo. Dopo di che è scomparso, e da quel giorno scomparso per sempre. Non ho più notizie di lui e mi manca poterlo abbracciare, sorridere quando le giornate erano solari e non uggiose. Il portafoglio strabocca di spiccioli e mi sono ripromessa di concederli tutti a Omar una volta tornato. Ma lui, appunto, non è mai tornato. Un giorno mamma mi chiese, ad esempio, di comprarle il pane. Essendomi avanzato del resto, non sapevo cosa farne. Uscita dal supermercato, ho notato poi la valigetta del mio amico nero poggiata a terra, era vuota. Le collane della moglie erano scomparse, così come i braccialetti e gli ombrelli e il cappello in cui riponeva i guadagni quotidiani. Quanto vuoto mi ha fatto il vuoto che ha lasciato in me la sua assenza. Ho pensato anche di contattare sua moglie in qualche modo, ma non è servito a nulla. Sconfortata, sono tornata a casa e mamma mi ha chiesto come mai ci avessi messo così poco tempo rispetto al mio solito. Inutile dire che mi sono rinchiusa in camera a piangere.
Fare la spesa lì non ha più senso ormai, così ho deciso di cambiare supermercato.
Oggi, a distanza di cinque mesi, sono a conoscenza della morte del mio amico nero, dopo essere stata contattata direttamente dall’ospedale.
E’ stato un infarto a rubare la vita di Omar e le cause sono ancora incerte.
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Ho deciso di scrivere questa storia per far riflettere.
Il luogo e il personaggio in questione esistono entrambi, ma lui non si chiama Omar né vende ombrelli. Vende altro, e oggi, vedendolo umilmente pulire il parabrezza di un auto con un panno, ho pensato se si sentisse sporco. Lo trovo sempre in piedi davanti l'entrata del supermercato e mia madre lo chiama moro, come lui la chiama bionda. A Natale gli abbiamo comprato un panettone e io volevo offrirgli una barretta di cioccolata perché ne avevo comprata davvero troppa, ma ha rifiutato anche quando gli ho proposto di darla ai figli, perché la cioccolata fa male. Ovviamente non è un senza tetto, ha una casa e una famiglia, come descritto; i fatti raccontati non sono veritieri, se non alcune vicende che ho riportato appositamente in questo spazio. Spero solo di avergli allungato la vita.

-beyondJA
   
 
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