Anime & Manga > Lady Oscar
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Autore: sabre    22/02/2016    8 recensioni
La piccola mano bianca stringe la sua e una voce sussurra al suo orecchio “Eccomi Andrè, sono tornata da te…. ”
Ripercorriamo l'adorata storia originale seguendo il sentimento che li lega, che è come una catena, che lega due individui rendendoli un’unità, forte come il più debole dei suoi anelli. Gli anelli di questa catena sono tanti: comprensione, affiatamento, complicità, condivisione, fiducia, pazienza, dedizione, passione… Ognuno è stato forgiato da quello che sono, da quello che hanno vissuto insieme e da quello che hanno portato delle loro esperienze personali…
Questa idea, probabilmente un po’ balorda, di rilettura della storia mi è venuta leggendo una recensione, in cui si sottolineava come la storia di Oscar e Andrè non fosse solo la storia di due innamorati separati dal destino.
Da tutto questo l’idea di questa raccolta di OneShot, ogni capitolo un anello, a partire ovviamente dal primo: “Amicizia”
P.S. Ho modificato il rating del capitolo solo per correttezza a causa di qualche dettaglio storico e espressione nei dialoghi
Fanart in cap1 e cap2.
Genere: Romantico, Slice of life, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Premessa dell’autore:
Ciao a tutte, scusate la lungaggine, ma al solito per narrare la storia originale il difficile è non cadere nella banalità (ansia), non sp*ttanare un il sacro testo (doppia ansia) e centrare la ‘chiave’ di ogni anello… questo e il prossimo poi, sono un po’ come… essere sui binari ed essersi accorti che ne manca una sezione, non ci si può fare nulla e sta arrivando il treno… di fatto non resta che attendere l’inevitabile e assistere al deragliamento di un treno, non so se mi spiego.
Ci tengo a precisare che come al solito, benchè la narrazione sia in terza persona (per evitare deliberatamente un’introspezione troppo esplicita e per mantenere una certa continuità formale, pur cambiando POV da un anello all’altro), il POV è di un personaggio specifico, in questo caso Andrè, per cui spesso l’inghippo è descrivere le cose nella prospettiva imposta dal POV, lasciando intendere che in realtà sono altro... si insomma, probabilmente sono trip miei, ma come al solito la scelta dei termini e dei tempi non è casuale, poi se è efficace o tatolmente inutile… me lo direte voi ;-)

Per chi ancora mi segue spero che la lettura sia comunque gradevole, al solito le allegorie in questa ff si sprecano, spero che arrivino.
Come sempre ringrazio chi ha inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare e chi mi dedica il tempo per recensire ;-). Non mi rimane che augurarvi buona lettura, sperando che sia gradevole… ovviamente lunga... ma essendo io...

 
 
Indice
Sabato 9 Marzo 1779, Palazzo Jarjayes
 
 
 
Anello 1.5: Affinità
 
 
La porta è socchiusa,
dolce respiro dei tigli...
Sul tavolo, dimenticati,
un frustino e un guanto.

Giallo cerchio del lume...

tendo l'orecchio ai fruscii.
Perché sei andato via?
Non comprendo...

Luminoso e lieto
domani sarà il mattino.
Questa vita è stupenda,
sii dunque saggio cuore.

Tu sei prostrato, batti
più sordo, più a rilento...
Sai, ho letto
che le anime sono immortali.


Marina Ivanovna Cvetaeva
 
 
 
Sabato 9 Marzo 1779, Palazzo Jarjayes
 
La candida mano di Oscar avvolge il cristallo panciuto, ondeggia appena in bilico sul gomito stancamente incuneato nel sontuoso broccato del bracciolo. Il movimento fluido e rotondo si amplifica nel vortice morbido del liquido ambrato e l’unghia[i] si accende ad ogni voluta dell’oro delle fiamme, che colmano il grande focolare, divorando pian piano i nodi di un imponente ceppo, voraci e alte. Arrivano a strappare all’oscurità lembi di ogni superficie dell’immenso salon, conferendole nuova vita. Tingono di calda ocra gli intagli del candido marmo, accendono di tepore lo scintillio della tappezzeria in seta, si moltiplicano disordinate sui legni, negli specchi e negli argenti perfettamente lucidati, fino a insinuarsi e penetrare impudenti sulla soglia dell’arco, che conduce alla camera da letto[ii].
In ogni angolo perfettamente ordinato, lingue di luce danzano irrequiete e scomposte con le ombre scure, infrangendosi contro la trasparenza delle grandi finestre, oltre le quali non sembra esserci altro che un impenetrabile e solido buio, screziato dal rumore della pioggia battente, cui fa da contrappunto solo il crepitio del fuoco.
André avanza silenzioso di un altro passo, avvicinandosi al divano. La osserva starsene immobile con lo sguardo tra le fiamme, come se non si fosse accorta della sua presenza. Eppure sa che è lì, anche se probabilmente non ha neanche sentito il suo bussare leggero alla porta dell’anticamera, anche se non lo guarda ancora, ma lo stava aspettando, come sempre.
“Vuoi che accenda le candele, Oscar?” una domanda consueta, la cui risposta, forse scontata, tarda ad arrivare. E’ solo un istante, ma gli basta per perdersi nei riflessi perlacei accesi dalle fiamme sul candore della sua pelle, nello scintillio dell’oro nei capelli, la linea pensierosa e perfetta del profilo. Ritrova quel filo di tensione nel lungo collo, le membra flessuose, i polsi sottili, leggera ma sempre intuibile, almeno per lui, anche quando se ne sta così, apparentemente rilassata, con lo sguardo sfavillante e perso, da sempre lo stesso, ma sempre come se qualcosa sfuggisse.
“No…” lo coglie alla sprovvista “…non serve.”
Si riscuote appena e le labbra prendono quella piega leggera, cortese e familiare, che riconosce come l’allusione di un sorriso “E’ già passata Genevieve[iii], le ho detto che preferisco così.”
Un altro breve silenzio, di cui approfitta per scrutarla ancora nella penombra, come se nella posa della gamba accavallata o nell’inclinazione delle sopracciglia potesse leggere cosa stia realmente pensando. Ancora un attimo fino a che finalmente si gira.
“Cosa stai aspettando?” gli sorride davvero adesso.
Appare divertita e anche un po’ interdetta per quell’insolita esitazione, che le fa aggrottare appena la fronte “Versati da bere e fammi un po’ di compagnia qui vicino al fuoco. Non ti metterai a fare complimenti proprio stasera!?”
“Ah, certo non io!”
Con decisione scrolla il capo e si china sul tavolino da caffè, dove, al centro di un labirinto d’intarsi, troneggia già aperta una delle pregiate bottiglie di cognac dalla riserva privata del Generale, affiancata da un secondo ballon in fine cristallo, inappropriatamente lasciato lì per lui, ma certo degno di raccogliere una generosa dose di quel prezioso nettare.
Si lascia andare sulla seduta morbida, in quello che dopo tanti anni oserebbe definire il suo posto, all’estremo opposto dell’elegante divanetto a ventaglio[iv]. Sospira, rumorosamente compiaciuto, e si agita un po’, fino a ritrovare la sua posizione perfetta tra lo schienale e il bracciolo.
Oscar non commenta, c’è abituata ed è tornata a perdersi tra le fiamme inquiete. Sua nonna piuttosto troverebbe da ridire, ora come quando era un ragazzino, per le gambe distese e un po’ scomposte, e più ancora per quel braccio allungato sul bordo dello schienale. La sua solita posa un po’ troppo ‘protesa’, solo che la mano, un anno dopo l’altro, è arrivata quasi a sfiorare la spalla di Oscar. In effetti ora gli basterebbe stendere appena il gomito per farsi scorrere tra le dita quella ciocca setosa, che gli solletica la punta dell’indice.
Invece avvicina il bicchiere alle labbra per godersi il profumo caldo e voluttuoso del liquore, e un po’ anche per nascondere la smorfia agrodolce innescata da quel pensiero malandrino, come se Oscar si potesse mai accorgere di una cosa simile.
Ne approfitta per riempirsi ancora per un po’ gli occhi del suo distratto fulgore e intanto inspira profondamente. L’aroma inebriante gli fa pregustare il piacere, il leggero pizzicore sul labbro screpolato, la consistenza amabile e pastosa che riempie la bocca, la carezza di velluto sulla lingua. Indugia finche può, prima di lasciare che il calore gli scorra giù per la gola, per poi irradiarsi alle membra e rarefarsi in testa.
Infine la lascia, almeno con gli occhi, per dedicarsi a quello sciocco gioco che fa sempre. Posa il bicchiere in precario equilibrio sul ginocchio, sostenendolo appena con un dito, lasciandolo oscillare, ogni volta un po’ di più. Prima o poi finirà col farlo traboccare, o gli sfuggirà dalle mani e quel prezioso cristallo andrà in mille pezzi cadendo a terra, e non ci sarà più niente da fare per rimediare.
Trattiene un mezzo sorriso, dandosi dello sciocco tra sé e sé. Non sa perché continui a farlo. Non è certo particolarmente divertente, né minimamente sensato, ma ha cominciato quando era un ragazzino e un po’ alla volta è diventata una sorta di rituale necessario a quelle pigre serate con Oscar, finalmente solo loro due, sempre uguali. Sa perfettamente che non ha alcun senso, e chissà perché proprio stasera sente l’altrettanto insensato bisogno di trovarne uno.
Sospira oziosamente e solleva lo sguardo, abbandonando l’equilibrismo del suo bicchiere e cercando di spegnere il brulicare di quei pensieri importuni nelle fiamme del camino, decisamente troppo alte e troppo vicine.
“Lo hai fatto di nuovo!” esclama, perturbando la quiete ferma e ovattata con un tono forse un po’ troppo divertito.
“Cosa!?”
Si gira di scatto Oscar, ma non saprebbe dire se il modo cui lo fissa sia più sorpreso o piccato, e lo sbuffo di risata, che stenta a trattenere, certo non migliora la situazione.
Si sforza di ricomporsi prima di proseguire.
“Hai spostato di nuovo il divano per avvicinarlo al fuoco.”
E’ sempre una strana sensazione, come se fosse in grado di vederla un istante prima. Prima che raddrizzi la schiena, sollevi il mento, affili lo sguardo. Prima che si forzi improvvisamente in quella compostezza eccessiva, che qualcuno definirebbe portamento, ma che il serrarsi appena percettibile della mascella e delle labbra trasforma nella sua posa di elegante inflessibilità, quella per cui viene considerata da tutti algida e distaccata, o addirittura altezzosa e superba. Almeno da tutti quelli che non la conoscono quanto lui.
“Non capisco di cosa tu stia parlando.”
Riconosce nella sua voce tutto l’aristocraticissimo distacco di cui è capace. ‘Scostante’ è il termine più indulgente con cui possa definire quel tono, eppure lui non può fare a meno di sorridere. Gli riempie il cuore di una dolce malinconia quando fa così, perché la rivede bambina, quando si rifugiava dietro l’apparenza del perfetto soldatino forgiato dal Generale, perché si sentiva insicura, o troppo esposta e disorientata, o magari solo in imbarazzo per essere stata colta in flagrante a commettere una qualche marachella.
Appena arrivato a Palazzo l’aveva detestata[v]. Crescendole accanto, aveva cominciato a comprendere, ma aveva sofferto[vi] all’idea che in quei momenti cercasse di tenere a distanza anche lui. Ora, dopo tanti anni, lo intenerisce e, allo stesso tempo, gli instilla uno strano senso di privilegio, perché ha la presunzione di essere uno dei pochi, se non l’unico, capace d’intravedere la sua fragilità anche dietro a quell’apparentemente impenetrabile durezza.
Forse ha solo imparato a non farsi intimorire o distrarre da quello sguardo tagliente. Gli balza agli occhi l’impercettibile fremito, che tradisce lo sforzo di sostenere la maschera, richiamando all’ordine l’angolo della bocca. Sa che si sente un po’ sciocca e, se non fosse per l’orgoglio ferito, si concederebbe di ridere per essere stata scoperta ancora una volta. A dispetto di tutto è comunque e sempre la sua Oscar.
“Oscar…”
La richiama come se avesse ancora cinque anni e come non oserebbe mai fare fuori di lì. Sorride e sostiene il suo sguardo fino a vederla cedere. La tensione si dilegua con uno sbuffo sonoro e rassegnato. È come se si sgonfiasse, ricadendo contro lo schienale. Non lo guarda neanche più in faccia, ma ancora trattiene il riso in quel broncio contrariato, perché ancora non è disposta a dichiarare apertamente la resa.
“Non so come te ne sia accorto questa volta!” osserva contegnosa.
“In effetti mi ci è voluto un po’.” le concede doverosamente prima di puntualizzare “Ho notato che ti sei persino premurata di mettere a posto le pieghe del tappeto.”
Porta la mano a sostenere il mento per continuare più comodamente a osservarla e lei lo sa. La scorge mordersi il labbro per non concedergli di vederla ridacchiare, come invece sta già facendo lui.
Non ricorda neanche più quando sia cominciata quella specie di gioco delle parti. Da piccoli era sua nonna a redarguirli sistematicamente ogni qual volta li trovava accucciati troppo vicini al fuoco. Crescendo avevano smesso entrambi di stravaccarsi sul pavimento, ma Oscar non aveva perso l’abitudine di avvicinarsi oltre il consentito, seppur accomodata su una seduta degna del suo rango, e lui, per qualche motivo, aveva assunto quel ruolo di ragionevole censore[vii] senza rendersene neanche conto.
È perfettamente cosciente che non lo riguarda, ma non riesce a fare a meno di richiamarla all’ordine per quel vizio infantile e la cosa lo diverte, anche se forse non quanto sembra motivare lei a continuare a farlo, cercando comunque di non farsi scoprire.
“Non ti fa bene stare così vicina… ” la solita ammonizione.
“Avevo freddo… ” risponde da consuetudine.
“Ne avrai ancora di più dopo.”
“Non è vero!”
Sbuffa, non ha mai trovato una replica convincente a quell’obiezione finora.
“Forse dovresti solo evitare di andare in giro sotto il diluvio.” ma non stasera.
Non risponde subito, ma quel silenzio non ha più niente in comune con la morbida e pigra quiete di appena un istante prima, così come la smorfia contratta delle labbra o la nota secca e sbrigativa nella sua voce.
“Non sapevo sarebbe venuto a piovere.”
Le parole affogano nell’abbondante sorsata con cui svuota il bicchiere, riappoggiato immediatamente sul bracciolo con un gesto stizzoso.
Il viso è sempre rivolto alle fiamme, ma in un istante si è velato di un’ombra scura, come quel pomeriggio nello spiazzo antistante all’ala sud della reggia, mentre la aspettava con i cavalli, pronto per tornare a casa.
 
Neanche mezz’ora prima si stavano già avviando lungo lo scalone, quando una delle guardie assegnata alle stanze della regina li aveva raggiunti, accelerando il passo e richiamando l’attenzione del suo Comandante con una certa apprensione, seppure sempre nel rigido rispetto della forma.
La sovrana richiedeva urgentemente la presenza di Oscar per un’udienza privata.
“Comunicate a sua Maestà che sarò subito da lei.”
Aveva replicato autoritaria, rivolgendo però a lui un’occhiata, che gli aveva quasi fatto sfuggire un accenno di risata. Un po’ perché aveva costretto il sottoufficiale a fare un ulteriore palese sforzo per ignorare la sua presenza, ma soprattutto perché non era certo un’abitudine per Oscar lasciarsi andare a un gesto così informale a corte. Subito prima di quell’imprevisto, però, stavano giusto scherzando su quanto fosse incredibile, dopo mesi, riuscire a lasciare la reggia prima del tramonto[viii].
“A quanto pare avevi ragione tu.” lo aveva apostrofato seguendo con lo sguardo il suo sottoposto, che si affrettava per obbedire all’ordine “Non avrei dovuto cantare vittoria troppo presto.”
“Vuoi che dia disposizioni perché riportino i cavalli alle scuderie e ti aspetti nel tuo studio, Oscar?”
“No” finalmente si era girata “cerchiamo di non essere troppo disfattisti.” aveva sorriso, come se le chiacchiere di poco prima l’avessero già riportata un po’ a casa “Potrebbe non richiedere molto tempo. Precedimi nel piazzale, se sarà necessario ti farò avvertire.”
Era rimasto a guardarla mentre accelerava appena l’andatura su per lo scalone, decidendosi a riprendere la discesa solo quando l’aveva vista scomparire oltre la balaustra.
All’esterno aveva ricevuto formalmente le briglie di Caesar da un mozzo di stalla, mentre un altro rimaneva poco arretrato con Alexander. Come al solito si era posizionato in composta attesa, confidando di vederla ricomparire al più presto dal grande arco a vetri.
Si era accorto subito che c’era qualcosa di diverso nell’aria. Era stata una giornata luminosa e tiepida, e quella mattina, per la prima volta dopo tanto tempo, gli era sembrato di percepire un delicato sentore di primavera, di cui però non era rimasta traccia. Spirava invece una brezza cruda e uggiosa, che lo faceva rabbrividire.
Lo scalpiccio nervoso degli zoccoli di Caesar lo aveva costretto a rinsaldare la presa sulle briglie e a lambire il collo del candido[ix] stallone di Oscar con il suo tocco confortante ma fermo, per cercare di ammansirlo. Nel farlo aveva abbandonato per un attimo la sorveglianza dell’uscita, sollevando gli occhi al cielo. Da dietro il profilo della reggia, dove si apprestava a ritirarsi il sole, si stavano affacciando grosse nubi scarmigliate e gravi. Con molta più urgenza dell’avvicinarsi del tramonto, sul pallore dorato del selciato si allungavano ombre dense e scure. Era stato allora, che ne aveva visto riemergere Oscar.
 
“Mia Madre e Rosalie? Sono già tornate?”
La domanda lo coglie un po’ alla sprovvista, ma è solo un attimo.
“Mentre salivo ho sentito arrivare la carrozza. Non si trattengono mai troppo alle cene della Marchesa di Lambert, e con questo tempo… Probabilmente, ora saranno negli appartamenti di Madame a discutere della serata[x] prima di ritirarsi per la notte.”
La risposta sintetica ed esaustiva ha mandato in fumo il tentativo un po’ maldestro di cambiare argomento, ripiombandoli in quel silenzio teso, in cui lei si trincera.
“Allora… ” cerca d’insinuarsi con cautela “… non mi vuoi raccontare dove sei andata?”
“Te l’ho già detto… niente d’importante, dovevo solo consegnare un messaggio a Parigi.”
“Così poco importante da rischiare la vita a cavallo sulle strade allagate?[xi]” un ultimo tentativo, che sa perfettamente non sortirà alcun risultato, perché già le ha viste le sue dita sottili serrarsi come una morsa d’acciaio intorno al cristallo, esattamente come quel pomeriggio.
 
Avrebbe dovuto già capire dal passo grave con cui si era avvicinata, dall’ombra che aveva offuscato la spensieratezza di poco prima, dal fatto che non avesse risposto al suo cenno di saluto, dal modo in cui evitava il suo sguardo, ma erano a corte. L’aveva aiutata a montare, sostenendole lo stivale, come richiedeva il suo ruolo benché lei non ne avesse alcun bisogno. Solo cedendole le briglie se ne era reso conto, la piccola mano custodita nel guanto le aveva strette nervosa e tirate con violenza, tanto da far nuovamente agitare Caesar.
“Oscar…”
Aveva fatto appena in tempo a scansarsi per non essere colpito, quando aveva scartato di lato. Poi era stato solo uno sbuffare di froge, un colpo secco sui fianchi, il rumore incalzante di zoccoli al galoppo e un ordine stentoreo.
“Precedimi a Palazzo, André…”
La voce era svanita come l’immagine di lei, che si allontanava veloce, spronando sempre di più il cavallo e lasciandolo lì. Non gli era rimasta altra scelta che obbedire.
Già varcati i cancelli dorati di Versailles, il cielo si era fatto cupo e opprimente. Aveva cominciato a cadere a terra in grosse e gelide gocce non appena imboccata la deviazione che conduceva a Palazzo, allontanandosi dalla strada principale, quella che certamente Oscar stava percorrendo per raggiungere Parigi.
Il buio della boscaglia era stato improvvisamente rischiarato a giorno da un lampo, subito seguito dal rombo del tuono. Nonostante il temperamento mansueto, aveva sentito Alexander farsi nervoso sotto la sella ed era dovuto ricorrere e tutte le sue risorse per costringerlo a mantenere l’andatura, ma quando un fulmine era caduto poco lontano, schiantando un grosso ramo in un fragore di fuoco, non era riuscito a evitare che s’imbizzarrisse, impennandosi sulle zampe posteriori e ricadendo a terra in direzione opposta per fuggire, tornando sui suoi passi.
Aveva strattonato il morso una volta e poi ancora, per farlo girare, costringendolo sul giusto percorso, e lo aveva spronato al galoppo fino a non avere più fiato per raggiungere il Palazzo il più velocemente possibile, prima di rischiare di rimanere impantanati, sfidando la pioggia sempre più violenta e insistente, e un vento avverso e gelido, che gli offuscava la vista e penetrava nelle ossa.
Era stato immensamente grato a Philemon, che gli era corso incontro nello spiazzo sul retro anche sotto quel temporale per occuparsi del cavallo.
“Madamigella Oscar?…” aveva chiesto mentre smontava, rivolgendo lo sguardo in un punto indefinito e scuro oltre la cancellata.
“Arriverà più tardi.” aveva tagliato corto.
Gli aveva ceduto le redini senza neanche ringraziare ed era corso verso l’ingresso delle cucine, richiudendo la porta vetrata in fretta, nel tentativo di lasciare fuori la tormenta e il gelo.
Si era sentito subito carezzare le guance dal tepore familiare del grande camino sempre acceso, ma era stato un sollievo fugace, perché sentiva ancora il peso di tutta la tensione accumulata lungo il tragitto, e quel freddo penetrante, che era arrivato troppo in profondità per dileguarsi così facilmente.
Anche lì dentro poi, dove aleggiava sempre un confortante profumo di brace, di pane e di qualche manicaretto tenuto in caldo, si era insinuato un sentore di umidità e muffa, un che di stantio, che gli procurava un vago senso di disgusto. Le responsabili dovevano essere le due grandi ceste ricolme di biancheria malamente ripiegata, stranamente sistemate nei pressi del focolare. Aglaè e Thecle[xii] vi si affaccendavano intorno con estrema dedizione, apparentemente incuranti del suo arrivo e del fango, che inzaccherava l’orlo delle loro uniformi di lavanderia, solitamente candide e perfette.
“Tieni!”
Per quanto lieve quel richiamo lo aveva fatto sussultare.
Era bastato girare appena il capo per trovare fissi su di lui i grandi e rassicuranti occhi blu di Nanà, tanto vicini da chiedersi come avesse potuto non accorgersi, che gli si era fatta incontro.
Gli aveva sorriso ed era stato impossibile non ricambiare un’espressione tanto sincera e gentile. Per lui sarebbe rimasta sempre la bimbetta fragile, timida e timorosa, arrivata a palazzo dieci anni prima, anche ora che aveva compiuto ventidue anni ed era diventata la cuoca di Palazzo[xiii], dando prova di una tenacia e un temperamento inaspettati.
Aveva abbassato lo sguardo, trovando nella sua manina protesa l’offerta di un canovaccio candido e ancora profumato di bucato.
“Grazie.”
Gli era uscito un tono flebile, quasi un sussurro, tanto da dubitare che l’avesse sentito, mentre si passava il telo leggermente scabro sul viso e ci si frizionava i capelli, per scrollarsi di dosso almeno un po’ dell’acqua gelida di cui era zuppo.
“Bel temporale, eh? Ha colto tutti di sorpresa.”
“Già… mia nonna?”
“Madame[xiv],…” gli faceva uno strano effetto sentirla chiamare così, per quanto dovuto e usuale“…sta facendo il giro della casa con Genevieve e Clodine, per verificare che tutte le finestre siano ben chiuse e per attizzare il fuoco nelle stanze. Vuoi che ti prepari qualcosa di caldo mentre l’aspetti?”
“No, ti ringrazio…” le aveva restituito il canovaccio con un gesto fin troppo sbrigativo “… preferisco andare subito in camera a cambiarmi.”
Si era già allontanato di un lungo passo prima di finire la frase, e in un attimo era fuori dalla cucina, nel lungo corridoio malamente illuminato. Gli era parso piccolo e opprimente, troppo affollato di cameriere e lavandaie, servitori e lacchè, che si affrettavano dentro e fuori dalle stanze di servizio sui due lati, richiamandosi a vicenda, discutendo sul da farsi; un disordine di persone, rumori e voci, che lo riportava all’insistenza inesorabile della tempesta da cui era appena sfuggito.
Aveva allungato il passo, opponendosi al flusso turbolento, schivando l’improvviso cambio di direzione di Mathieu[xv] mentre dalla lavanderia Yvette tuonava un qualche ordine o rimprovero, e finalmente era riuscito a dileguarsi, girando a destra e imboccando la stretta scala, che conduce alle stanze della servitù, al momento deserte.
Con gli stivali ancora fradici era scivolato sul primo consunto gradino in pietra, e solo aggrappandosi con forza al ferro freddo del corrimano aveva evitato di cadere. Era buio lì, nessuno si era certo ancora premurato di accendere la sola lampada sistemata in una piccola nicchia a metà strada. Avrebbe dovuto portare con sé una candela, magari tornare indietro a recuperarne una, ma non ne aveva nessuna voglia.
Aveva bisogno di un po’ di tranquillità. Non voleva ributtarsi in quella bolgia e non gli serviva alcuna candela. Gli era talmente familiare quella scala, così come ogni più recondito anfratto del Palazzo, che avrebbe potuto percorrerla a occhi chiusi.
Soprattutto non aveva nessuna voglia di rischiare d’incontrare sua nonna, non ancora, non fino a che non si fosse calmato almeno un po’. Lo sapeva già cosa gli avrebbe detto e, in quel momento, non ce l’avrebbe fatta ad affrontare ancora una volta i suoi rimproveri.
Come hai potuto lasciarla sola… sei uno sciagurato, un irresponsabile… un servo incapace e ingrato!’
Non aveva alcun bisogno di averla di fronte per sentire le parole, che gli ronzavano in testa da quando aveva varcato i cancelli. Tra le pareti ruvide d’intonaco di quel passaggio buio e angusto, poi, era come se rimbombassero, come se scricchiolassero sotto i suoi passi tra le travi di legno del ballatoio e poi della sua stanza.
Si era chiuso la porta alle spalle rabbrividendo di nuovo. Un altro lampo aveva rischiarato ogni cosa, stagliando nel quadro della finestra la sagoma irrequieta di un albero battuto dal vento.
‘…sotto questo nubifragio poi… chissà cosa le accadrà…
Si era scollato di dosso con forza le maniche fradice della giacca, e l’aveva gettata sulla sedia, subito seguita dal panciotto.
… dovevi andare con lei…
Aveva afferrato l’acciarino dalla mensola del camino e si era inginocchiato per accendere il fuoco. Per il tremore gli era sfuggito un paio di volte dalle mani, prima di riuscire a far prendere l’innesco. Le fiamme erano presto divampate vivaci, nutrendosi della piccola e ordinata catasta di legna, ma lui continuava ad avere freddo.
 ‘… dovevi correrle dietro… raggiungerla…
Si era strappato di dosso la camicia appiccicosa, frizionato vigorosamente la pelle con un asciugamano di lino, divorando il pavimento a grandi passi, avanti e indietro in cerca di un po’ di calore e sollievo.
… dovevi fare qualcosa… qualunque cosa, ma non lasciarla andare sola…
Un fulmine aveva squarciato di nuovo il buio, facendo tremare i vetri.
Come se non lo sapesse già da solo o non se lo fosse ripetuto mille volte dal momento in cui l’aveva vista scomparire oltre l’oro delle cancellate di Versailles.
Era balzato in sella e aveva lanciato il cavallo al galoppo nell’estremo tentativo di raggiungerla, in barba al rispetto della forma e del protocollo. Aveva corso fino a perdere il fiato, ma alla fine la ragione gli aveva imposto di arrendersi alla realtà. Ormai era scomparsa oltre la linea dell’orizzonte e non sarebbe più riuscito a recuperare il distacco. Gli era stato fatale quell’interminabile istante d’incertezza, in cui era rimasto immobile con gli occhi fissi sulla sua immagine che si allontanava, incredulo.
Cosa avrebbe dovuto fare? Gli aveva ordinato di tornare a Palazzo, aveva fatto tutto quanto in suo potere per lasciarlo indietro, non lo voleva con sé, non voleva essere seguita, non gli aveva neanche detto dove sarebbe andata.
Ancora non riusciva a crederci, neanche di fronte all’evidenza. Come aveva potuto comportarsi in quel modo… trattare lui in quel modo?
Un altro lampo aveva attirato il suo sguardo fuori dalla finestra e subito era seguito un tuono, tanto forte da farlo sussultare. La pioggia continuava a cadere incessante, pesante e violenta, mentre il vento costringeva anche le chiome degli alberi secolari del parco a piegarsi alla sua veemenza. Lui sapeva solo che sentiva sempre più freddo.
Aveva spalancato le ante dell’armadio e si era buttato addosso una camicia pulita e una giacca asciutta. Afferrato il mantello, si era lanciato oltre la porta e poi giù per le ripide scale.
Era stato come se all’improvviso il tempo avesse ripreso a scorrere, per mettesi poi a correre, sempre più svelto, come lui oltre la cucina, attraverso il cortile in mezzo al fango, verso le scuderie.
Erano stati solo brevi istanti, il mantello di Oscar preso dalle mani di Genevieve, l’espressione interdetta di Philemon riportando fuori Alexander, solo frammenti sconnessi, che in qualche modo lo avevano riportato su quella strada per correre da lei il più in fretta possibile.
Lanciato al galoppo, era certo che presto l’avrebbe raggiunta, sapeva perfettamente dove andare, anche se non glielo aveva detto o forse proprio per questo. Più si allontanava da Palazzo, più aveva l’impressione di procedere spedito e sicuro come il vento alle sue spalle, nonostante il fondo fangoso. Era quasi sulla strada maestra, quando l’aveva vista.
L’aveva riconosciuta subito, anche se da principio era solo un movimento indistinto, poco più di un’ombra oltre la cortina di pioggia, poi era diventata un flebile alone di luce nel buio. Gli era parsa così fragile, rannicchiata con il capo chino in equilibrio sulle staffe per proteggersi dalla pioggia e dal freddo. Aveva assestato un altro colpo ai fianchi Alexander e lui aveva risposto immediatamente, accelerando ancora un po’, nonostante fosse esausto, ma ormai era lì.
Non le aveva staccato gli occhi di dosso, come se avesse paura che potesse svanire da un momento all’altro, esattamente com’era apparsa. Poi, a un tratto, si era accorta di lui, anche se era troppo lontana per distinguere il rumore degli zoccoli nel fango in mezzo allo scrosciare della pioggia. Aveva sollevato il mento, spalancando gli occhi pieni di sorpresa.
In un attimo era corso al suo fiancato e Oscar si era lasciata accogliere nel tiepido rifugio del mantello, continuando a fissarlo, mentre facevano rallentare l’andatura. Sembrava così delicata e incredula, o forse erano solo i suoi occhi ad apparire ancora più grandi e la pelle più candida e trasparente nella cornice dei capelli resi scuri e pesanti dall’acqua.
Le era rotolata sulla guancia una goccia, una delle tante che imperlavano le ciglia folte. Aveva voluto credere fosse solo pioggia. Poi non aveva avuto più alcuna importanza, perché gli aveva regalato un sorriso malinconico e arreso, gli si era fatta ancora un po’ più contro e gli aveva permesso di riportarla a casa.
 
Recupera il cognac dal tavolino e si allunga per rabboccarle il bicchiere, attento a non sfiorarla. Il liquore defluisce e ondeggia morbido nel cristallo con uno sciacquio sordo, che si mescola al crepitio delle fiamme, al fruscio dei loro respiri, al picchiettare ormai sommesso della pioggia in lontananza.
Si è già servito anche lui e sta riponendo la bottiglia quando finalmente la sente.
“Grazie.”
Poco più di un sussurro ma sufficiente a spazzare via la tensione e a riportarli a quella calma tiepida e soffusa, accogliente e familiare. La stessa di sempre quando sono solo loro due, da sempre, da quando erano solo due bambini, a dispetto degli anni e degli eventi.
Sospira e sorride, lasciandosi di nuovo andare contro lo schienale.
“Allora?”
“Allora cosa?”
“Come sta il Conte di Fersen?”
“Ma… come…?”
Alla fine c’è riuscito. Si è girata di scatto riportando su di lui i suoi grandi occhi, sgranati di sorpresa e di qualcosa che assomiglia a un certo disappunto. Non crede si renda conto della sua mancanza di attitudine a mantenere un segreto, almeno con lui. Almeno in quello avrebbe molte cose da insegnarle. Ridacchia, e distoglie lo sguardo, seguendo per un attimo le sinuose volute del liquore nel suo bicchiere.
“Non era poi così difficile da immaginare…” beve un sorso, quasi potesse ammorbidire le parole “… l’urgenza con cui sei stata convocata in udienza privata… il modo in cui ti sei allontanata senza dirmi una parola… cos’altro avrebbe potuto essere?”
Risolleva il mento solo per vedere i suoi occhi sfuggire di nuovo. Scintillano del riflesso delle fiamme, dando l’illusione che il ghiaccio possa ardere come fuoco.
“Era necessaria la massima segretezza.” un sorso anche per lei “Credo tu possa comprendere.”
“Comprendere… certo capisco, anche se dubito, che una cosa simile possa destare particolare scalpore in mezzo alle tante voci, che già circolano e che sono sempre circolate a corte e non solo.”
“Non ti rendi conto…”
“Di cosa? Del fatto che questa sarebbe in qualche modo ‘vera’? Sai meglio di me che non è certo questo ad alimentare la diffusione di certi pettegolezzi.”
Sfugge di nuovo Oscar, sospira e tace, perché lo sa anche lei, anche se preferirebbe ignorarlo.
Improbabile che il nome di un altro amante possa destare più di un fugace interesse in mezzo alla moltitudine di quelli, che negli anni sono stati attribuiti a Maria Antonietta. Già troppi illustri signori hanno, a detta di tutti, goduto di tale privilegio. Decisamente troppi, per non giungere a noia anche del cortigiano più pettegolo, sono gli aneddoti di prima mano confidati in segreto da testimoni d’indiscutibile credito, divulgati di bocca in bocca o addirittura pubblicati sugli innumerevoli libelli, che regolarmente sfuggono alla tanto inflessibile quanto inefficace censura[xvi].
Ormai non c’è in Francia un muro, dalle magioni della grande aristocrazia alle più putride stamberghe, che non abbia sentito almeno una volta delle prodezze del barone Desenval, dei sospiri per il duca di Guines e il duca di Cologny, delle languide occhiate per il conte Esterhazy. Quando ai quattro fu poi affidato il singolare incarico di assistere la regina malata di risipola[xvii], si sprecarono le oscenità e in tutta la corte fu solo uno speculare maligno su quali quattro dame avrebbe scelto il re per assisterlo, qualora si fosse trovato anche lui costretto a giacere tanto a lungo. Poco era importato, che nessuna di queste storie avesse alcun fondamento.
Poi c’erano già stati anche pettegolezzi più ‘plausibili’, anche se solo per l’ingenua frivolezza di una ragazzina troppo giovane e forse impreparata a rivestire il ruolo di regina di Francia. Il bel Dillon e quella giovane testa calda del Duca di Lazun avevano preoccupato non poco il conte de Mercy, che aveva provveduto opportunamente a invitarli ad allontanarsi da Versailles, mentre il conte Adhemar, il cui talento nel suonare l’arpa e nella recitazione non avevano potuto lasciare indifferente il temperamento artistico della sovrana, era stato spedito come ambasciatore prima a Bruxelles poi a Londra.
Questi e tanti altri si erano avvicendati, mentre lo sventato e frivolo conte di Artois[xviii], da sempre inseparabile angelo custode di Maria Antonietta e complice fraterno nella ricerca di nuovi divertimenti, è rimasto, nelle chiacchiere e nell’immaginario dei francesi di ogni estrazione, il suo eterno innamorato e il reggente del fratello maggiore tra le lenzuola.
Altre voci, per quanto anche circostanziate, che portassero alla ribalta il nome del conte di Fersen non aggiungerebbero molto al mare di maldicenze, che già è stato riversato sulla reputazione della regina. Al contrario, probabilmente il conte verrebbe considerato fin troppo prevedibile, se non addirittura noioso. Attraente, colto e amabile, dotato di spirito e di un ottimo lignaggio, rispettato membro della corte svedese e vicino allo stesso Re Gustavo, è un uomo alla moda[xix], l’oggetto più ovvio dell’ammirazione di tutte le più nobili dame. Non può certo alimentare pettegolezzi più accattivanti, dopo tanti blasonati cortigiani, dediti al gioco e pieni di debiti, sfacciati e vanagloriosi, sprovvedutamente accolti nella ristretta cerchia di Maria Antonietta solo per la loro fatua capacità di saperla divertire.
Per quanto incompatibile con il suo senso della giustizia e dell’onore, persino Oscar si è quasi arresa. Dopo tutta la rabbia e le frustrazioni dei primi anni, anche lei ora si sforza d’ignorare quello che si è resa conto di non poter combattere, soprattutto da quando, dopo la principessa di Lamballe e la contessa di Polignac, anche lei si è ritrovata inclusa nel millantato circolo saffico della sua Regina[xx].
“È solo che… questa volta è diverso.”
Inspira profondamente, come per dare più peso alle parole, che però non sembrano riuscire a varcare la soglia delle labbra. Scruta ancora per un attimo il suo profilo pensieroso, poi si gira anche lui ad assistere al contorcersi delle stesse fiamme.
Non è sicuro di cosa voglia dire e, in questo caso, non è neanche certo di volerlo sapere. Affoga in un’abbondante sorsata un sorriso amaro.
Sicuramente Fersen è diverso o almeno così gli è sembrato la domenica precedente, presentandosi in visita a Palazzo.
 
‘Una visita di cortesia dovuta ad amici di lunga data’, così l’aveva definita il conte con fare scherzoso da uomo di mondo, mentre Richard si allontanava, dopo averlo introdotto nel salotto accanto all’ingresso principale.
“Vi prego di perdonarmi, Madamigella. E’ davvero troppo tempo che non vengo a porgervi i miei omaggi[xxi]. Sono imperdonabile.”
“Non dovete neanche pensarlo, Hans. In fondo ci incontriamo quasi ogni giorno a Versailles.”
“… ma certo, tra amici, non è la medesima cosa!”
Perfetto come sempre, il conte si era premurato di porgere i suoi saluti al Generale, d’informarsi sulla salute della Contessa de Jarjayes e di chiedere anche della piccola Rosalie, certo che dovesse essersi fatta ancor più graziosa e bene educata in quegli ultimi mesi, in cui non aveva avuto il bene d’incontrarla. Divertente, disinvolto e amabile, senza mai apparire affettato o lezioso, si era unito a loro in quel pomeriggio finalmente libero da impegni, come era accaduto tante altre volte da quando era tornato in Francia, sebbene non di recente.
Avevano chiacchierato a lungo, di tutto e di niente, godendosi il piccolo rinfresco di bevande calde e liquori, prontamente allestito per l’occasione. Poi, si erano spostati in giardino, nel grande spiazzo lastricato vicino alla fontana sul retro, perché Fersen aveva espresso il desiderio di confrontarsi nella spada con Oscar ed era lì che loro due erano soliti esercitarsi. Era stato un bello scambio, per tanti versi equilibrato, ma alla fine Oscar non aveva potuto che primeggiare e il conte manifestare galantemente il suo compiacimento per la fortunata occasione di imparare qualcosa di nuovo.
Una visita come tutte le altre, identica nel copione e nel tempo trascorso piacevolmente, eppure qualcosa gli era sembrato diverso dall’istante stesso in cui lo aveva visto varcare la soglia del salotto e cedere guanti e mantello a Richard.
Non aveva capito subito cosa fosse, forse qualcosa nella sua espressione e nei gesti, che, anche nell’eccitazione del duello, lo faceva apparire malinconico e stanco, come quel cielo velato e screziato di nubi, che, in un tardo pomeriggio, non si era ancora scrollato completamente di dosso i rigori invernali.
“André, la prossima volta vorrei avere l’occasione di battermi con voi.”
Lo aveva sorpreso con quella richiesta, attirando inaspettatamente la sua attenzione dal gradino su cui era rimasto in disparte ad ammirare l’inevitabile trionfo di Oscar.
“Mi hanno detto che siete molto abile con la spada…”
Si era chiesto chi mai avesse potuto informarlo di una cosa simile.
“… anche se certo il vostro stile lascia un po’ a desiderare.”
Aveva chiosato con una risata apparentemente un po’ scomposta, una spontaneità maturata per conferire leggerezza a una battuta, che sarebbe suonata scortese sulle labbra di qualunque gentiluomo che non fosse Fersen.
Eppure, per quanto sempre impeccabile, il conte Hans Axel di Fersen non sembrava lo stesso uomo, che aveva visto solo due giorni prima animare con leggerezza il seguito della regina nei giardini di Versailles.
Non sembrava nemmeno lo stesso di tutti i giorni precedenti, da quando era tornato in Francia e aveva preso a frequentare la reggia con un’assiduità e una devozione, ormai difficili riscontrare anche nei rappresentanti della grande nobiltà francese, storicamente più legati alla famiglia reale. A differenza della maggioranza di questi fedeli sudditi era entrato nella ristrettissima cerchia della nuova società[xxii] della sovrana e, diversamente dalla maggior parte degli altri selezionati accoliti, non sembrava correre il rischio di esserne estromesso con la stessa volubile imprevedibilità con cui si veniva ammessi. A differenza dei tanti che lo avevano preceduto, Fersen non fondava certo la sua devozione sulla volatilità di un capriccio, eppure questo non sembrava comunque renderlo felice.
Per la prima volta il conte aveva declinato garbatamente l’ormai usuale invito di Oscar a trattenersi per cena. Si era congedato, ma era come se non se ne fosse andato del tutto. Aveva  lasciato dietro di sé un vago senso d’inquietudine, che si era insinuato e continuava ad aleggiare persistente tra di loro anche più tardi nell’orangerie, dove attendevano come d’abitudine che venisse annunciata la cena. Oscar gli dava le spalle, osservando al di là della vetrata l’avanzare del crepuscolo, senza dire una parola.
“Oggi ho notato uno strano sguardo negli occhi di Fersen…” aveva pronunciato quel nome come per esorcizzare il silenzio “… sembra che il suo grande amore gli dia più sofferenza che gioia.”
Aveva azzardato per riscuoterla e lei finalmente era tornata a guardarlo, ma non aveva risposto.
“Prendi la tua spada André, voglio battermi ancora.”
Non ne era rimasto sorpreso.
“André, farò sul serio questa volta.”
Glielo aveva gridato fendendo l’aria con la spada, mentre la raggiungeva sul lastrico macchiato di ombre e tinto di rosso dal tramonto.
“Come vuoi Oscar.”
Come sempre.
Oscar voleva dissipare i pensieri che l’assillavano, ignorare quello che non era in grado si affrontare, accettare o combattere. Lui non poteva che obbedire, aiutarla a scacciare quella mesta insoddisfazione, che si era insinuata tra di loro. Anche lui ne aveva bisogno, voleva scacciarlo con tutte le forze, tenere lontana la frustrazione di quell’uomo, che si era reso conto di non poter essere felice accontentandosi di rimanere silenziosamente accanto alla donna amata, senza poterla mai dire veramente sua[xxiii], che non riusciva a capacitarsi che anche l’essere riamato potesse rivelarsi una tortura.
Per lui era diverso, doveva essere diverso.
 
“Penso che tu ti stia preoccupando troppo, come al solito.”
Vorrebbe solo che smettesse di pensarci.
“Lo credi davvero?”
“Beh, non sarebbe certo la prima volta.”
Si sforza di ricambiare la sua occhiata sbieca con un sorriso rassicurante e un po’ beffardo.
“Vorrei tanto poterci credere, ma…”
“La gente sparla semplicemente perché Fersen è uno dei pochi eletti della cerchia della Regina, sparge malignità solo per invidia.”
Nonostante la confortante sicurezza che ha cercato di ostentare, la smorfia che gli restituisce è intrisa di un certo scetticismo.
“In fondo, non è diverso per te e la Polignac…”
Netta disapprovazione.
“… se dovessimo attenerci a quello che si dice, non c’è poi molta differenza tra di voi…”
Palese indignazione.
“… entrambe dissolutamente coinvolte in una torbida relazione con la nostra licenziosa sovrana.”
Il tono è platealmente teatrale, ma non sembra bastare a mitigare l’effetto di un simile azzardo.
“Andrè!!! Io… io non… tu non puoi… ”
Oltraggiato disgusto è quello che trasuda ora dalla sua espressione, e decisamente ira quella che lo sta dardeggiando dai suoi occhi. Non è certo però se l’improvviso rossore, che le ha incendiato il viso fino alle orecchie, sia figlio della stessa furia o piuttosto del pudico imbarazzo, che, per come la conosce, al momento è l’unica cosa a trattenerla dal riempirlo di improperi e batterlo come un tappeto.
 “Perdonami, Oscar, forse ho esagerato, ma per quanto tu lo voglia ignorare, sai benissimo che questo è il tipo di voci che circolano, e converrai con me, che hanno davvero poco a che fare con la verità.”
Almeno è riuscito nell’intento di distoglierla dai quei pensieri e, in fondo, sa anche lei che, a onor di cronaca, avrebbe potuto dire ben di peggio.
Sbuffa contrariata, ma in qualche modo rassegnata.
“È disgustoso…”
“Ne convengo.”
“… e tu sei il solito pettegolo.”
Lo fa ridere.
“Decisamente dissento, ma ammetto che è così che posso apparire.”
“Ah, buona questa!”
Sa che non gli concederà la soddisfazione di ammettere che ha ragione, per cui si limita a godersi un altro sorso del suo liquoroso nettare e il modo un po’ infantile, che ha, di mordicchiarsi il labbro quando è nervosa.
“Se ci pensi bene, è un paradosso.”
“Cosa intendi?”
“Fersen è invidiato per il semplice fatto di essere uno dei pochissimi nella corte della regina, e tutte queste voci vengono messe in giro da chi se ne è sentito ingiustamente escluso.”
“Dove sarebbe dunque il paradosso?”
La fissa per un attimo negli occhi, chiedendosi se veramente voglia sentirglielo dire, sembra quasi lo stia sfidando.
“… che se Maria Antonietta non avesse, di fatto, abbandonato la vita di corte, ora sarebbe sotto gli occhi di tutti quello che davvero prova per il bel conte svedese[xxiv] e lo scandalo sarebbe veramente inevitabile.”
Eccola di nuovo, la piccola mano nervosa che si serra intorno al cristallo.
“Scandalose menzogne, che nascondono una verità scandalosa… è questo che intendi?”
Si limita ad annuire.
“Forse hai ragione…” già si sorprende di una simile concessione “… Maria Antonietta non è capace di nascondere quello che prova… né di ignorarlo.”
Gli verrebbe voglia di chiederle, se veramente creda che possa esistere qualcuno capace d’ignorare i propri sentimenti, ma ancora una volta non è sicuro di voler sentire la risposta. Preferisce limitarsi a osservarla, illudendosi d’indovinare quello che va cercando tra le fiamme.
“Ha pianto sai?”
E’ appena un sussurro, tanto da non essere certo che abbia veramente detto qualcosa.
“Chi?”
“Maria Antonietta...” alza un po’ la voce, ma ancora non lo guarda “… quando mi sono presentata nelle sue stanze.” inspira profondamente prima di continuare “Si è nascosta il viso tra le mani ed è scoppiata in lacrime… come una donna qualunque[xxv].”
È come se i troppi pensieri trovassero finalmente un varco per gocciolare nelle parole e lei ha solo bisogno che l’ascolti. Si limita a sostenerla con lo sguardo mentre si sistema meglio contro lo schienale, porta il bicchiere alle labbra solo per riabbassarlo subito.
“Aveva congedato anche Madame Campan[xxvi], eravamo sole… fortunatamente…” come se all’improvviso ci avesse ripensato, lo risolleva e prende un piccolo sorso “… mi sono dovuta avvicinare e stringerle le mani… confortarla… aspettare che si calmasse… rassicurarla, ricordandole che non potrei mai rifiutarle nulla...”
Non sembra neanche lo stia raccontando a lui, poi finalmente si gira per ritrovare il suo sguardo.
“… e stato come se…”
“Cosa, Oscar?” un piccolo incoraggiamento, perché trovi il coraggio di dire quello che preferirebbe ignorare.
“… avesse bisogno che le ricordassi di essere la Regina di Francia.”
“Non credi sia questo il problema?”
Sgrana gli occhi e lo fissa, come se avesse detto qualcosa d’incomprensibile.
“Ma lei è la Regina, cosa…”
Non riesce neanche a finire la frase.
“Ma non credi, che preferirebbe non essere…”
“Ciò che dici, non ha alcun senso!” addirittura inconcepibile “Non si può cambiare ciò per cui si è nati, questo è un fatto. Si tratta solo di dimostrarsi all’altezza.”
Inutile insistere, sembra di sentire parlare il Generale, come sempre quando non vuole affrontare un argomento scomodo, probabilmente neanche con se stessa.
“Come credi, Oscar. In tal caso, anche Maria Antonietta sembra trarre più sofferenze che gioia dal suo amore per Fersen.”
“Non può dare gioia ciò su cui non si ha alcun controllo…” un’altra delle massime del Generale, declamata con la medesima insindacabile sicurezza “… e comunque… soffre di più chi ama senza essere riamato.” la voce scema, fino quasi a scomparire nel crepitio sommesso del fuoco.
Non dice altro, si limita a tornare a cercare il suo sguardo e lui ha l’impressione, che quell’azzurro si sia fatto più profondo e liquido, tanto che quasi ci si sente affogare.
“Credi…” la voce gli esce ruvida, un altro sorso per addolcire la gola “… credi dunque che non lo ami?”
La vede aggrottare la fronte.
“Chi?”
“Sua Maestà il Re.” sembra ancora non capire, esattamente come non vorrebbe “Credi che Maria Antonietta non ami il Re?” un azzardo “E’ questo che vuoi dire?”.
“Ma cosa… no… ma certo… certo che lo ama, è suo marito.”
Si rifugia nelle parole consuete, ma subito prosegue quasi tra sé e sè.
“Certo che lo ama…” come se davvero ci stesse pensando solo ora “…lo ama per il modo in cui lui la ama, esattamente per ciò che è… con Fersen… è diverso... ”
Fersen è sempre stato diverso.
“Diverso come, Oscar?”
“…forse… per tutto quello che vorrebbe essere.”
Ha di nuovo quello sguardo corrucciato, quello con cui sembra perdersi lontano in cerca di qualcosa che le sfugge.
“André… credi davvero che sia possibile?”
“Cosa?”
“Credi sia veramente possibile soffocare l’amore?... come hai detto l’altro giorno, riguardo a Fersen.”
Torna a cercare l’appiglio dei suoi occhi, ma ora è lui a sfuggire, perché non ce la fa a sostenere quello sguardo.
“Non lo so, Oscar… cosa vuoi che ti risponda? Credo che a volte sia necessario farlo… o almeno provare… con tutte le nostre forze.”
Serve un altro lungo silenzio prima che si decida. La ritrova con la fronte aggrottata e quello sguardo lontano.
“Si è fatto tardi.”
“C… cosa!?”
“Dicevo che si è fatto tardi. Forse è il caso di andare a dormire.”
“Sì, certo hai ragione.”
La osserva bere l’ultima goccia ambrata sul fondo del suo bicchiere, che appoggia sul tavolino mentre si alza.
“Lascia...” lo anticipa “… ci penserà domani Genevieve a portare via tutto.”
“Come preferisci.”
Prima di abbandonare il salon si gira un’ultima volta.
“Buonanotte, Oscar, e a domani.”
È appoggiata con entrambe le mani alla mensola del camino, sempre troppo vicina al fuoco. Gli regala quel sorriso appena accennato, lo stesso di ogni sera da quando erano piccoli. Ricambia di tutto cuore senza dire nulla, tanto lo sa già che non andrà a letto subito e rimarrà ancora po’ lì da sola con i suoi pensieri.
Chiude la porta con cautela, attento a non fare rumore, più per abitudine che per l’effettivo rischio di disturbare qualcuno. A quell’ora sono già tutti a letto a Palazzo, dove il costume, per quanto poco alla moda, è da sempre di alzarsi presto, ma le altre stanze di quell’ala sono tutte vuote, benché sempre perfette, come se una delle sorelle di Oscar potesse tornare a occuparle da un momento all’altro, come se non se fosse mai veramente andata.
Anche la servitù si è ritirata e lungo la galleria, giù per la maestosa scala e nell’atrio, sul marmo lucido e gli specchi non rimangono che i pallidi riflessi proiettati da tremule fiammelle, in precario equilibrio sugli ultimi mozziconi di candela. Sono quasi tutte spente, ma il temporale è passato e dalle grandi vetrate filtra nuovamente la luce argentata della luna.
La casa apparentemente deserta, il languore della notte, quella luminosità bluastra e quasi irreale, che sottrae ogni superficie all’oscurità, l’eco del silenzio, inframmezzato solo dai rintocchi dei suoi passi, regolari e sicuri come il battito del suo cuore, gli danno l’impressione di muoversi in un luogo alieno, fuori dallo spazio e dal tempo, i cui esistono sono lui e Oscar, che immagina esattamente come l’ha appena lasciata, dietro quella porta con lo sguardo perso e troppo vicina al fuoco.
Il cigolio stridulo del discreto portoncino, che ammette agli ambienti di servizio, lo riporta fastidiosamente alla realtà. Deve ricordare a Clodine di oliare i cardini, prima che sua nonna se ne accorga e chiami a rapporto tutte le gerarchie della servitù di palazzo per capire cosa non abbia funzionato o chi abbia mancato per non riuscire prevenire una simile imperfezione.
Gli serve un attimo per abituarsi al buio, la fila di piccoli lucernai in alto sulla destra non riesce a catturare abbastanza luce e lui, come al solito, ha dimenticato di portarsi una candela.
Posa il palmo sul muro a sinistra e avanza a tentoni, seguendo i rintocchi dei suoi passi sulla pietra e l’alone di luce che balugina all’altro capo del lungo corridoio. Un po’ lo sorprende che a quell’ora nel camino della cucina possano ancora ardere fiamme e non solo braci, ma si limita ad avanzare cercando lo stipite del varco, che ammette alla scala. A un tratto, però, un rumore secco, forse una sedia o uno sgabello caduto, lo fa sobbalzare.
Si blocca, smette anche di respirare e rimane in ascolto. Per un po’ è solo il sibilo del silenzio, poi il lieve fruscio del suo respiro che torna, sta quasi per rinunciare e muovere un passo quando la sente.
”Fate attenzione, vi prego…” una voce strozzata che non riconosce “…Finiranno per scoprirci!”
Segue da un verso strano, forse un lamento o una risata strascicata.
“Per carità…”
“Chi è… chi va là!” declama stentoreo, precipitandosi verso le cucine, dove, da quello che sente, gli intrusi hanno rinunciato a qualunque velleità di non attirare l’attenzione. Certo però quel baccano disordinato non lo prepara allo spettacolo, che gli si para davanti appena svoltato l’angolo.
“Perdonate, Mons… Andrè sono io, sono Philemnon!”
Si blocca alla vista di quel ragazzone con gli occhi sbarrati e l’aria spaurita, che tiene una mano spalancata e protesa in segno di resa, mentre con l’altro braccio si sforza di sostenere qualcuno. Un altro uomo mezzo accasciato sull’estremo opposto del tavolaccio grande[xxvii] e palesemente malfermo sulle gambe.
“Philemon, ma cosa…”
“E’ Monsieur Jena-Luc… l’ho trovato così… nelle scuderie.” riabbassa il braccio per cingerlo meglio e quello ribalta la testa all’indietro rivelando, pur nella luce fioca, il viso familiare del vecchio capo-stalliere di Palazzo.
“Ma… cosa è successo?!”
Non fa in tempo a rispondere, perché quel verso disarticolato e indistinto riemerge dalla sua gola.
“Baaash.. shlasciami… shlasciami andjare…” biascica, tentando di divincolarsi dalla sua stretta.
“Vi prego… ” Philemon di affanna per trattenerlo “… vi prego non fate così…”
Accorre in suo aiuto, ma non fa in tempo.
“Shalashiami, ho detcho… ”
L’ha già spinto indietro con violenza, si protende per afferrarlo, ma barcolla pericolosamente. È troppo tardi, riesce appena ad acciuffare un lembo della giacca, mentre rovina a terra trascinando con sé nello schianto un’altra sedia. Si china con urgenza, ansioso di accertarsi che non si sia fatto nulla di grave.
“Jean-Luc… Jean-Luc… rispondetemi…”
Accartocciato e inerme sul pavimento nudo, non reagisce. Lo scrolla con cautela.
“Jean-Luc … vi prego… ”
Di nuovo quella specie di lamento, che non fa che accrescere la sua angoscia, ma almeno ha girato la testa, solleva per un attimo le palpebre. Lo sguardo è liquido, vuoto da principio.
“Jean-Luc, sono io, André… mi riconoscete?”
Una scintilla negli occhi, che fa affiorare un lieve sorriso, ma subito la testa ricade di lato con un brontolio indistinto, che in breve si trasforma in un rassicurante e sonoro russare.
“Si è addormentato…ma… è ubriaco fradicio!”
Solleva gli occhi incredulo, incrociando l’espressione sconfortata di Philemon, stretto nelle spalle possenti. Torce con quelle gigantesche mani un angolo della giacca, come potrebbe fare un bambino, e annuisce.
“Ho aspettato… ho aspettato, sperando che tutti fossero già a letto… ma faceva troppo freddo fuori, dovevo… dovevo portarlo in camera… ”
Philemon parla a scatti, quasi balbetta facendo oscillare lo sguardo da lui all’uomo accasciato sul pavimento. Andrè si sofferma a osservarlo a sua volta, cercando in quel vecchio inerme, con i vestiti in disordine, i pochi capelli arruffati e la barba sfatta sul viso scavato, il Jean-Luc che ha sempre conosciuto, quello che gli era sembrato un gigante, la prima volta che l’aveva visto, che si era rivelato gentile e paziente nell’insegnargli a cavalcare e a prendersi cura dei cavalli, che parlava poco, ma con pacata saggezza, che non perdeva mai la pazienza, ma nessuno avrebbe mai osato sfidare, il Jean-Luc che gli era sempre sembrato solido e imperturbabile come una montagna.
Per entrambi è stato un maestro e un mentore, per lui, in certi momenti, quasi un padre. Non avrebbe mai creduto possibile vederlo ridotto in quello stato, comprende, ma è tremendamente penoso.
“Non… non lo direte a nessuno vero?”
La faccia gli si contrae in una smorfia, offeso da quell’insinuazione. Si solleva di scatto, pronto a replicare, ma subito si blocca, trovando lo stesso impotente sconforto sulla faccia di Philemon. Sospira.
“No… naturalmente…” gli assesta una bonaria pacca sulla spalla, con cui riesce a strappargli un timido sorriso “… adesso però vediamo di portarlo via di qui, prima che arrivi qualcun altro.”
Faticano non poco per risollevarlo da terra. La stazza di Jean-Luc è sempre stata imponente, e così, a peso morto, gli viene da chiedersi come Philemon sia riuscito a trascinarlo fin lì tutto da solo.
Si caricano sulle spalle un braccio ognuno e muovono barcollanti i primi faticosi passi, ma a metà del tavolo il loro fardello sembra rianimarsi.
“Lasschiatemij… vho detcho…”
Torna a divincolarsi con violenza.
“No, Jean-Luc… per favore non fare così… ”
“Noooo… vjia… via..”
Con un ultimo strattone libera il braccio sinistro dalla sua stretta, compromettendo il loro già precario equilibrio. Philemon non molla la presa e Jean-Luc gli si avvita addosso, parandoglisi davanti e costringendolo a cercare il sostegno del tavolo, aggiungendo al trambusto un fragore di cocci infranti.
“Si può sapere cosa sta succedendo qui?”
Li fulmina una vocetta imperiosa, proveniente dalla sagoma, che si staglia impettita tra il varco d’ingresso e il camino. Sulla veste da camera si stringe uno scialle di lana troppo grande, che riesce a farla apparire ancor più minuta, ma l’espressione adirata, incorniciata nella cuffietta da notte, riesce comunque a risultare sorprendentemente minacciosa sotto il baluginare irrequieto delle fiamme.
“Mmmadmm…mmmadmmm… non.. noi non…”
Philemon si è improvvisamente fatto tutto rosso e la fissa con gli occhi sgranati senza riuscire ad articolare una parola.
“Oh, mio Dio… ma è Monsieur Jean-Luc!”
“Sì, non sta bene… stavamo cercando di riportarlo in camera. Puoi darci una mano, Nanà?”
Non c’è bisogno che le spieghi altro. Gli è corsa incontro e dall’espressione addolorata con cui lo fissa, ha già capito.
“Certo… non c’è neanche bisogno di chiederlo…”
La interrompe un altro di quei versi sofferenti.
“Forza Jean-Luc…” si sistema di nuovo il braccio sulle spalle “… un ultimo sforzo e potrai riposare.”
Un altro ancora, che però comincia a farsi intellegibile.
“chesserve… ormai è morta… a che serve…” un ultimo sussurro e un singhiozzo, prima di perdere di nuovo conoscenza.
A un tratto si sente solo il debole crepitio delle fiamme, mescolato al respiro ruvido e pesante di Jean-Luc. Quelle poche parole strascicate sono bastate a paralizzarli.
“Beh… muoviamoci da qui, prima che tua nonna se ne accorga.”
Nanà è la prima a muoversi. Recupera la bugia dalla mensola sopra il camino e si avvia, facendo loro strada lungo il corridoio e poi su per le scale. Nessuno dice una parola, per evitare di svegliare qualcuno, ma soprattutto perché, in fondo, non saprebbero che dire. Forse è solo strano che una cosa del genere non sia successa prima.
 
Da quello che poteva ricordare Agnes aveva sempre sofferto di quella tosse fastidiosa. Quando lui e Oscar erano piccoli, si era anche inventata per loro un’assurda storia su una fatina che abitava nella sua gola e le faceva il solletico battendo le ali[xxviii]. A suo dire anche la sua vocina stranamente sottile era dovuta alla magia della stessa fatina.
“Non mi credete forse, Madamigella?” diceva sempre di fronte al faccino diffidente e imbronciato di Oscar “Eppure dovreste!” poi faceva trillare una di quelle sue risate argentine, che per loro due bambini solo un incantesimo poteva liberare da un simile donnone. Quella fatina era stata per anni una presenza costante delle loro merende di latte e biscotti, trasformandosi un po’ alla volta da una bella favola a un malinconico ricordo della loro infanzia.
Agnes era stata veramente male per la prima volta l’ultimo inverno, che Annette e Jerome avevano passato a Palazzo[xxix]. La stagione particolarmente inclemente aveva trasformato la tosse in una brutta febbre polmonare, che l’aveva costretta a letto per settimane. Era stato allora che Jean-Luc aveva accettato, dietro suggerimento del medico, la proposta del Generale di abbandonare il villino vicino alle scuderie, per trasferirsi in una delle camere della servitù a Palazzo. Doveva essere una soluzione temporanea, per consentirle di ristabilirsi, invece la casetta assegnata al capo-stalliere e sua moglie era rimasta disabitata.
Agnes non si era mai rimessa del tutto, la febbre era passata, aveva ripreso le sue mansioni, ma sempre più spesso le mancava il respiro e a volte era troppo debole per fare qualcosa di più, che impartire direttive a un’instancabile Nanà, seduta su una vecchia poltrona di cuoio sistemata appositamente per lei vicino alle stufe.
Le febbri si erano ripresentate sempre più di frequente, Agnes si era fatta via via più debole e nell’ultimo anno era dimagrita vistosamente.
Nonostante tutto, non aveva mai perso quel carattere amabile e il suo sorriso, mentre Jean-Luc appariva saldo e imperturbabile come una roccia, come era sempre stato.
“Com’è stata oggi il mio uccellino?” Era la frase che le rivolgeva ogni sera, rientrando prima di cena, la stessa che tutti avevano sentito per anni. Da bambino lo aveva fatto sorridere, con il tempo era diventata un’abitudine, a volte aveva provocato qualche risatina o battuta inopportuna tra i nuovi servitori di Palazzo. Negli ultimi tempi aveva assunto un che di penoso, perché Agnes aveva cominciato a sembrare veramente un uccellino tra le braccia di suo marito, quando la portava su e giù dalle scale.
“Non ti devi preoccupare, oggi sto meglio, passerà.” gli rispondeva ogni volta con quella vocina delicata, che le si addiceva ogni giorno di più.
Forse Jean-Luc se l’era sentito ripetere tante di quelle volte, che alla fine aveva finito col crederci, o forse semplicemente aveva deciso di farlo, perché era l’unico modo per andare avanti.
A novembre la febbre era tornata senza più andarsene e la tosse si era fatta nera. Agnes se n’era andata l’ultima domenica di Febbraio[xxx].
L’avevano sepolta nel piccolo cimitero sul retro della chiesetta di Palazzo. Al funerale c’erano tutti, anche Madame la Contessa e il Generale erano intervenuti per presentare le condoglianze a chi li aveva serviti fedelmente per tanti anni. Jean-Luc aveva ringraziato con un inchino impeccabile, senza versare mai una lacrima.
 
Nanà richiude la porta in fretta alle loro spalle e accende le candele, mentre lui e Philemon adagiano Jean-Luc sul materasso.
“Torno giù un attimo a riordinare e a preparare qualcosa per farlo stare meglio, voi intanto mettetelo a letto.”
André provvede a chiudere a chiave dietro di lei, mentre Philemon accende il fuoco. Le fiamme divampano in fretta nel piccolo focolare, illuminando un po’ meglio quella stanza dignitosa ma un po’ spoglia, non tanto diversa dalla sua.
“Togligli gli stivali, io intanto prendo la camicia.”
Il giovane stalliere esegue in silenzio, mentre lui si dirige senza incertezze verso il piccolo armadio. Sulla destra sono appesi i pochi altri abiti di Jean-Luc, una giacca con panciotto di buona fattura per la domenica, un mantello pesante e uno più leggero. L’unica differenza rispetto al suo armadio è che sul lato opposto si trovano ancora l’uniforme di cucina e un abito in mussola di Agnes, manca l’abito buono, quello con cui l’hanno sepolta.
Afferra la camicia dal gancio sul retro dell’anta e la richiude in fretta.
“… mmmmè sholo colpa mia…” ha ripreso a lamentarsi.
“Shhhh… Monsieur Jean-Luc non dite così… non è vero… ”
Lo regge per le spalle mentre Philemon gli sfila le brache.
“… solo colpa mia… via… dovevo portarla via di qui… e ora è troppo tardi…”
Le parole si fanno via via più intellegibili, anche se quello che dice sembra ancora solo il delirio di un ubriaco.
“Non dire così… Agnes è stata felice qui con te… ”
Lo tirano su per sfilargli la camicia e fargli indossare quella da notte e lui intanto continua.
“… no… è solo colpa mia…non era abbastanza… non ho fatto abbastanza…”
Lo sistemano sotto le coperte, sperando che si tranquillizzi. Andrè gli sta sistemando i cuscini, quando bussano delicatamente alla porta.
“Deve essere Nanà, apri tu?”
Philemon però non si muove e dopo un attimo i colpi sul legno tornano un po’ più decisi.
Solleva lo sguardo, trovandolo ancora immobile e seduto sul bordo del letto. È di nuovo tutto rosso in viso, come poco prima nelle cucine, e fissa con i grandi occhi azzurri sgranati prima lui, poi la porta, solo per tornare a lui.
“Aprite, sono io…” un sonoro sussurro da dietro l’anta chiusa.
Andrè si affretta ad andare ad aprire, rivolgendo a quel ragazzone un’occhiata incredula.
Nanà entra reggendo una tazza fumante e si dirige senza indugi verso il letto.
“Posso?”
“P… pprego!”
Philemon scatta in piedi cedendole il posto.
Jean-Luc riprende ad agitarsi, ma lei gli posa una mano morbida sulla fronte, che sembra subito tranquillizzarlo. Lo aiuta a sollevarsi un po’, accostandogli con cautela la tazza alle labbra.
“E’ verbena. Bevetene un sorso, vi aiuterà a stare un po’ meglio.”
Forse è l’effetto ristoratore di pochi sorsi dell’infuso caldo, o forse è per il tono lieve come una carezza di Nanà, ma il vecchio stalliere sembra tornare presente.
Riapre gli occhi e la fissa. Lei ricambia con un sorriso dolce.
“Va un po’ meglio?”
Sospira.
“Devi trovarti un brav’uomo… uno che ti porti via di qui.”
La ragazza scrolla lievemente il capo e allarga il sorriso.
“Voi dite? Ma io sto bene qui.”
“Bene non è abbastanza… bene è solo per un po’ poi è passato… non torna…”
“Ma cosa dite?”
“…non si può solo sperare di rimanere aggrappati… un giorno ci si sveglia ed è perso tutto, nell’illusione di non lasciare andare qualcosa… è tutta colpa mia… non ho avuto coraggio… e non ho fatto abbastanza…”
“Non dite così… voi siete un brav’uomo e Agnes vi amava tanto.” un’ombra fugace offusca il suo sorriso, ma è solo un istante “Io lo so… i brav’uomini sono merce rara.”
Jean-Luc però si è già riaddormentato.
“Qualcuno può restare un po’ con lui? Per assicurarsi che non si svegli?”
“I..io… resto io.”
Philemon si è fatto avanti dall’angolo in cui si era rintanato, lo sorprende una volta di più con quel fare stranamente deciso e forse un po’ anche Nanà.
“Beh… allora… vi auguro una buonanotte.”
“Buonanotte.”
La ragazza è la prima a lasciare la stanza.
“Sei sicuro di voler rimanere?”
Ma il giovane si sta già sistemando su una vecchia poltroncina, che lo contiene a malapena.
“Non vi preoccupate, Andrè. Per me non è un problema, potete andare. Vi auguro la buonanotte.”
“Philemon…”
“Si?”
“Pensi che non riuscirai mai a darmi del tu? Neanche dopo stanotte?”
Sorprendentemente non arrossisce e non tentenna, è perfino riuscito a strappargli un sorriso.
“Credo… che a ogni cosa serva il suo tempo.”
 
La stanchezza gli piomba addosso tutta in una volta appena si richiude alle spalle la porta della sua camera. Ci si appoggia con la schiena per un attimo come se gli servisse un sostegno e lascia lo sguardo vagare tutto intorno. È tanto che non si sofferma a farlo e per uno strano caso la mente torna alla prima volta, quando era solo un bambino smarrito e triste e tutto gli era apparso nuovo e ostile. Adesso invece è tutto così familiare da dargli l’impressione di non essere mai stato altrove, eppure da allora non è cambiato molto: qualche libro in più sul piccolo scrittoio, una mensola per sostenerne qualche altro, un nuovo calamaio, poco altro. È esausto e la mente divaga, lasciandosi trasportare da quelle considerazioni senza senso. Ovviamente è lui a non essere certo più un bambino.
Si spoglia in fretta e s’infila a letto, lo stesso che un tempo gli sembrava tanto grande, mentre ora lo contiene appena. Lancia un’occhiata al volumetto appoggiato sul comodino, ma è tardi e lui è così stanco. Spegne la candela e si lascia ricadere pesante sul cuscino, come faceva da bambino.
Per un attimo quell’angoscia torna ad aggredirlo, il pensiero di Lean-Luc, della sua disperazione per Agnes, per l’idea di non aver fatto abbastanza, si essersi aggrappato al passato, ma è stanco e il sonno lo trascina via in fretta. Meglio così. Ha bisogno di riposare, è stata una giornata lunga e faticosa, e domattina dovrà alzarsi presto. Ci sarà Oscar ad aspettarlo, come sempre da quando era solo un bambino.
 
continua... 


 Aggiornamento 5/11/2016: Work in progressssss... 
 
[i] Del liquore non della mano ;-)
[ii] Sulla struttura delle stanze di Oscar, e in particolare del salon mi sono già ampiamente dilunga all’inizio dell’anello 3, quindi qui andiamo solo per ‘impressioni’
[iii] Il tempo scorre e c’è stato un avvicendamento nella servitù (ammesso che qualcuno si ricordi che la cameriera personale di Oscar era Colette), ma ci torneremo più il là.
[iv] In realtà questo modello di divano, con dei bei graccioloni imbottiti inclinati a 45° su cui stravaccarsi, è più Luigi XV, ma certamente Oscar non è una fashionista. Al più se lo sarà fatto rifoderare con una stoffa alla moda, ma dubito abbia preferito un divanetto Luigi XVI, sicuramente più elegante e leggero nella linea, ma con quei braccioletti in legno appena foderati… scoooooomodi!!
[v] Vedi anello 1
[vi] Vedi anello 3
[vii] Per quanto decisamente meglio… ‘apparecchiato’, Andrè è sempre un po’ il grillo parlante di Oscar. Quello che ha sempre fatto in modo che lei evitasse di fare in età opportuna le tipiche stupidaggini formative… certo ha i suoi motivi, ma… non mi addentro oltre perché questo concetto verrà dipanato fino al nono anello… per cui!
[viii] Il 9 Marzo del 1779 il sole è tramontato a Parigi alle 17.55 ;-)
[ix] Lo denomino candido per ovvi motivi, ma in realtà un cavallo bianco è considerato grigio a meno che non sia albino, cmq … dettagli
[x] Essendo l’uomo settecentesco un animale sociale (ok, non Oscar e Andrè, ma è parte dei loro problemi) anche per una ragazza la formazione in tal senso era di centrale importanza. Una ragazza nobile, che seguisse una trafila di educazione ‘standard’ spesso veniva promessa in sposta subito prima di abbandonare il collegio (in cui entrava tra i 5 e i 6 anni, essendo stata prima di allora affidata prima a una balia e poi a una governante). Quando usciva dalla scuola iniziava la sua ‘educazione alla società’. Se era già sposata se ne occupava la suocera, in caso contrario la madre, o una ‘protettrice’ (che poteva essere un’amica di famiglia più nobile o meglio introdotta). Di fatto era una sorta di ‘tirocinio’, per due anni la ragazza seguiva la sua protettrice in diverse occasioni mondane (the, pranzi, cene, visite… se non sposata non avrebbe in realtà mai partecipato a un ballo e non sarebbe stata portata a corte, ma su quello devo svicolare altrimenti cadono pezzi essenziali della storia) con il solo compito di osservare e imparare (a comportarsi, a osservare, a capire, a parlare), rispondendo solo qualora interpellata (La donna del XVIII Secolo, F.lli Goncourt). E’ lecito supporre pertanto che Madame Marguerite (amabile ex dama di compagnia della Regina, moglie di un Generale e madre del Comandante delle guardie Reali, quindi socialmente papabilissima) faccia questo con Rosalie (di certo non la bionda!), che è stata presentata a tutti come protetta della famiglia. Fino a che non si sposerà se la porta dietro, come pupilla, a cene, the, visite varie, e poi al ritorno se la porta in camera per commentare il comportamento della serata e quello che è accaduto.
[xi] Da un punto di vista moderno questa osservazione può apparire esagerata, ma in realtà non è affatto. Andare a cavallo su strade coperte da lastre di pietra o in terra battuta sotto la pioggia non è per niente sicuro, il cavallo può scivolare o affondare nel fango, tanto più in una città come Parigi, il cui sistema fognario è stato realizzato nel ‘800, per cui si allagava (fatto ampiamente fruttato in un'altra ff “Era una notte buia e tempestosa…” XD). In presenza di un temporale poi, e di notte per giunta, il rischio che il cavallo s’imbizzarrisca e disarcioni il cavaliere non è affatto remoto.
[xii] Personale di lavanderia di Palazzo, fanno parte del mio repertorio di personaggi apocrifi, e hanno rischiato di far arrabbiare di brutto Oscar in “Un sorso d’acqua di Fontebranda” XD
[xiii] Che fine ha fatto Agnes?? (che se non ve lo ricordate, come è lecito, era la cuoca di Palazzo di cui era diventata aiuto Annette prima di trasferirsi ad Arras e poi è diventata Nanà)
[xiv] Anche io ho parecchio abusato l’uso del tu, sicuramente più familiare per noi, ma all’epoca ci si dava del voi anche tra marito e moglie, genitori e figlio, amici, amanti… gli altri membri della servitù avrebbero per forza chiamato la governante Madame, mentre la madre di Oscar sarebbe stata chiamata Contessa.
[xv] Attendente del Generale, subentrato a Jerome, trasferito come nuovo amministratore ad Arras con la moglie Annette, li abbiamo visti in Anello 4 (parte2) che era nata da 1 anni la prima figlia Camille.
[xvi] La propaganda, più o meno studiata a questo scopo, è stata un elemento essenziale, se non l’elemento essenziale che ha condotto alla rivoluzione. Il popolo non era sicuramente meno affamato o sofferente sotto Luigi XIV, con tutte le sue guerre, ma il Re Sole aveva perfettamente presente l’importanza della propaganda, come gli aveva ben insegnato Mazzarino. Una delle armi a doppio taglio che ha alimentato la disaffezione e poi l’odio viscerale nei confronti dei regnanti e in particolare della Regina è stata, paradossalmente, la censura, che ha contribuito alla proliferazione di informazioni false, ma soprattutto non attribuibili alla fonte, cosa che ovviamente non permetteva un contraddittorio. In questo calderone, si incontravano le voci messe in giro dai nobili esclusi dalla vita di corte dalla gestione ‘leggera’ di MA (dalle figlie del Re agli esponenti delle più importanti famiglie di Francia), i vari aspiranti al trono (in primis i fratelli, entrambi, di Luigi, più che il Duca di Orlean, che anche durante la prigionia hanno contribuito parecchio dall’estero, con la loro millantata estrema accorata difesa, a spingere Luigi XVI e congiunti sul patibolo), i borghesi e gli intellettuali che volevano riforme più o meno consistenti, un aspirante ministro delle finanze protestante, che nel dubbio sputtanava tutti quanti (perché il tema del ‘Ah, se avessero lasciato fare a me… invece quegli incompetenti…’ non è certo che ce lo siamo inventato noi)… questa pioggia associata a due sovrani non cattivi come persone, ma decisamente inadeguati al ruolo, una classe politica altrettanto inadeguata (per responsabilità anche dei suddetti), un’incidentale paio di cattivi raccolti e, ovviamente, il tempismo (perché in Europa le riforme erano nell’aria e il sostegno del regno di Francia all’indipendenza americana è stato un poco lungimirante suicidio economico e politico) hanno scatenato la tempesta perfetta. Libro interessante sul tema della censura e delle modalità di diffusione dell’informazione è “Poetry and the Police: Communication Networks in Eighteenth-century Paris” di Robert Dalton.
[xvii] Termine desueto per l’erisipola, che di fatto non è altro che un’infezione batterica (da streptococco o stafilococco) del derma. Di fatto un graffio che s’infetta, generando una macchia rossa e gonfia e febbre. Nelle condizioni igieniche del tempo e in assenza di antibiotici, ai tempi aveva una mortalità quasi del 100% in vecchi e bambini.
[xviii] Fratello minore di Luigi XVI e del duca di Provenza (poi Luigi XVIII), che salirà al trono, sepolti tutti gli altri, come Carlo X
[xix] Fare follie per un ‘uomo alla moda’ era considerato pressoché ovvio nella società francese del XVIII secolo. Ovviamente mantenimento di una ‘dignitosa discrezione’ per quanto riguarda i costumi sessuali era essenziale, per non turbare le regole della buona società, ma fare parte del ‘carnè amoroso’ di un uomo simile era quasi ambito quanto un abito della sarta più in voga (tipo la Bertin). Emblematico ‘uomo alla moda’ dell’epoca è il III duca di Richelieu (1696-1788), non particolarmente bello, ma ambitissimo, le donne e le nobildonne di Francia facevano, appunto, follie per lui, arrivando a sfidarsi a duello.
[xx] Ok, qui vi sembrerà che io stia partendo per la tangente rispetto alla storia originale, ma in realtà… non è così. Come ho detto lo scopo di questa storia è di rimanere fedele rispetto alla storia originale per quanto concerne i nostri due amati protagonisti, inserendoli in un contesto più storicamente ‘reale’ e cercando di approfondire i personaggi. Questa ‘modifica’ rientra in questo tipo di approccio. Vista l’audience cui si rivolgeva e per la necessaria semplificazione richiesta da manga e anime, è piuttosto ovvio, che la Ikeda prima e Dezaki poi abbiano delineato una MA investita solo dai pettegolezzi per il rapporto con Fersen e che la puntata 20 “un amore impossibile” Oscar pensi di ‘proteggerli’ ballando con lei tutta la sera al ballo. Rispetto alla realtà storica però, i pettegolezzi messi in giro su MA dai 15 anni in poi erano tali e talmente sudici, che nell’immaginario di quasi tutti lei era già una sorta di puttana ninfomane, che si era ammucchiata con tutti nei peggio modi (poco importa che questo fosse in contradizione con altri pettegolezzi che la definivano una frigida incapace di dare un erede… è il bello delle voci infondate XD) per cui il nome di Fersen girò anche ai tempi, ma ne fregò poco e niente a tutti (una sorta di al lupo, al lupo al contrario, suppongo). Dopo averle attribuito una tale schiera di uomini, alle malelingue non rimaneva che darle della lesbica, oltre alle fondate critiche per le spese folli, per danneggiare ulteriormente la sua immagine e cercare di colpire una sua favorita pericolosa. Nel ’79, subito prima della partenza di Fersen per l’America, da pettegolezzo MA si arrovogliava tra le lenzuola con la Polignac, per cui non sarebbe stata una grande idea ballare tutta la sera con la sua cara amica comandante della guardia reale! Per tutti questi motivi ho scelto di eliminare quelle scene, rispettando però lo sviluppo dei personaggi.
[xxi] Per noi oggi che uno ti piombi in casa senza essere stato invitato non è esattamente il massimo dell’educazione, mentre all’epoca in assenza di telefoni e vista l’importanza del rapporto sociale, la casa era sempre aperta agli ospiti, di norma anche per il pranzo e al cena gli ‘amici’ potevano presentarsi ed era ovvio essere pronti e contenti di accoglierli.
[xxii] La ‘nuova società’ istituita da MA è un problemino che può apparire solo formale, ma i realtà sarà sostanziale. Luigi XIV aveva istituito Versailles con lo scopo di ‘disinnescare’ il potere di delegittimazione del potere costituito dei nobili di Francia. Di fatto, se stavano tutti a corte e impegnavano tutte le loro risorse per muoversi in quel complesso meccanismo e per ottenere i favori del Re, non avrebbero avuto tempo e non gli sarebbe venuto in mente di mettersi a cospirare! (come avevano sempre fatto fino all’avvento del Re sole). Ovviamente questo giochino funziona, fintanto che il Re e la Regina fanno la loro parte, visto che, nonostante appaiano superficialmente solo come ornamento, sono l’ingranaggio fondamentale di tutto il meccanismo. MA scardina il tutto, non tiene più impegnati i nobili con il cerimoniale di Corte, si fa la sua cerchia ristretta di ‘amichetti’, spesso di discutibilissima reputazione, che sommerge di regalie, mentre prima nel bene e nel male era necessario essere stati di una qualche utilità al Re per ottenere una rendita o una pensione, allontanando così dalla corte la nobiltà. I nobili tornano semplicemente a fare quello che facevano prima di Luigi XIV, a ordire trame per delegittimare un Re che non li soddisfa, solo che è troppo tempo che non sono più signori delle loro terre e generali dei loro eserciti, la corte ha insegnato loro a chiacchierare e che a volte una parola ferisce più della spada, e questo fanno scatenano una guerra civile di voci diffamatorie.
[xxiii] Ok, qui si inserisce un concetto chiave e storicamente fondato, che non collima con la visione semplificata e modernizzata del manga e dell’anime, ma che invece si combina molto meglio con lo strano rapporto tra Andrè e Oscar. Al di là della profusione di leggende, romanzi rosa, fantasiose sceneggiature cinematografiche e fanta-biografie scandalistiche e rosate che la storia di MA e Fersen ha alimentato, Fersen e MA non andava a letto insieme. Lui era palesemente innamorato di lei, lei platealmente di lui, ma non facevano sesso. La trasformazione del loro rapporto in un rapporto anche fisico è ipotizzata solo dopo lo scoppio della rivoluzione, dopo il trasferimento a Parigi e realisticamente con il tacito consenso del Re. Tutta la mia comprensione perché la cosa possa apparire strana a un occhio moderno, ma per quanto ci si ostini a negarlo l’educazione che si riceve e la società in cui si vive condiziona sostanzialmente i nostri comportamenti (infatti a noi sembra inconcepibile nutrirci dei nostri morti e sposarci tra consanguinei, ma sono retaggi assolutamente culturali). Detto ciò, Fersen era sicuramente un gran vanesio e questo deve aver giocato un ruolo essenziale nella sua attrazione per MA, ma era altrettanto un aristocratico di formazione impeccabile, assolutamente alla moda, ma non ha mai dato adito a scandali, non avrebbe mai fatto una cosa come scoparsi una regina, senza il consenso del re (anche perché scoparsi la regina è un reato comparabile attentare alla vita del Re)… e infatti, passava le sue giornate con la sua amata e nel frattempo si scopava tutte, ma proprio tutte le altre, socialmente collocate nella fascia consentita al suo rango. Maria Antonietta era leggera e frivola, anche un po’ civetta se vogliamo, ma come una bambina, in fondo lo è rimasta per buona parte della sua vita, non era un genio, sua madre le aveva inculcato in testa 3 concetti, ma quelli erano inamovibili, al limite, e spesso oltre, l’autolesionismo: cortigiane brutto (da cui l’inusitato casino con quella povera donna della Dubarry, ma solo perché aveva anche il marchio di cortigiana, perché della cerchia delle sue care amiche l’unica a non essere in fondo una gran puttana era la principessa di Lamballe, e quelle le andavano benissimo); cardinale di Rohan brutto (nonostante la Ikeda e Dezaki lo rappresentino come una specie di barattolo burino, il cardinale era in realtà un uomo socialmente molto ambito, ricco e generosissimo fino a rovinarsi, divertentissimo in società, ambito nei salotti… insomma, nella sua ristretta cerchia di amici avrebbe fatto la sua porca figura e a lei sarebbe piaciuto un sacco perché era estremamente divertente e alla moda e invece… il problema era proprio questo, Rohan era stato in passato assegnato alla corte di Vienna, che, sotto la direzione dell’austera e bigottissima Maria Teresa era meno divertente di un convento di clausura francese. Al suo arrivo, in questa landa di noia, tedio e uso del cilicio come svago, Rohan divenne immediatamente popolarissimo insinuando nella nobilità viennese la sconvolgente idea che… ci si potesse anche divertire!?!? Ma davvero!??!? Ovviamente Maria Teresa, preoccupata che i suoi nobili potessero deviare dalla vita di penitenza e morigeratezza che lei reputava loro consona, scacciò immediatamente Rohan da Vienna con ignominia. A MA è rimasto questo imprinting, ma rispetto al conte di Artois, Rohan era una specie di santo.); non lo far per piacer tuo, ma per dare figli a Dio ed eredi al regno (nel settecento si parlava liberamente di sesso, e a ogni fanciulla con responsabilità dinastiche era chiaramente spiegato che PRIMA si garantiva una discendenza legittima, POI con un marito compiacente ci si poteva dedicare ai propri diletti). In realtà, tutto il discorso di Fersen nella lettera alla sorella del ‘non posso avere colei che amo’, rientra poi proprio in questo quadro. È ovvio che un conte, per quanto socialmente ben collocato, non potesse sposare una principessa di stirpe reale (le figlie di Luigi XV sono rimaste zitelle proprio per questo), ma ai tempi il fatto che matrimonio e amore fossero due concetti distinti era piuttosto chiaro, ma Fersen non può ‘avere’ colei che ama, e lo sa, nonostante sappia di essere corrisposto ‘colei che amo, e mi ama’. Si insomma… questo per la solita pippa della contestualizzazione storica, che come detto però funziona anche meglio rispetto al parallelismo con Oscar e Andrè, perché Fersen ama MA rimanendo nei limiti della differenza di rango esattamente come fa Andrè, a differenza di lui ha anche la certezza di essere riamato,… ma lo stesso non è soddisfatto… e… sì il soggetto è deliberatamente ambiguo ;-)
[xxiv] Contestualizzando all’epoca, Fersen non appare nei libelli che elencano gli amanti di MA, non nelle lettere degli ambasciatori (se non in quella dell’ambasciatore svedese al Re, che elogia il suo comportamento impeccabile e la decisione di lasciare la corte nel ‘75), non nelle cronache dell’epoca. Fersen è sicuramente un uomo sociale e ‘alla moda’, ha anche tante amanti, ma non è uno che genera scandali e si tiene alla larga da situazioni che possono apparire ambigue, ad esempio di tiene alla larga dal salotto della Polignac. L’epica della storia d’amore tra Fersen e MA scoppia solo quando verrà pubblicato, seppur censurato dagli eredi, il carteggio tra i due, che rivela per la prima volta la profondità del legame, la rilevanza di Fersen e l’attenzione di entrambi a celare il segreto per prudenza e dovere. Sicuramente quello abile nel mantenere il segreto e dal comportamento socialmente ineccepibile è Fersen, MA probabilmente è stata paradossalmente aiutata dal fatto di aver abbandonato la vita di corte. Ovviamente Manga e Anime fanno la scelta di sintetizzare nella figura di Fersen tutto lo scandalo intorno al MA, ma la vicenda è molto più complessa e, a mio avviso, interessante.
[xxv] Questo punto mi ha sempre colpito, o meglio… mi ha sempre colpito che lo noti lei, e lo trovo piuttosto… rivelatore (o almeno, io lo concepisco così nelle mie elucubrazioni XD). La bionda ha chiaramente dei problemi a gestire i diversi ‘livelli’ della personalità di una persona. È come i bambini, vorrebbe vedere la gente in 2D, o bianca o nera… forse perché lei stessa ha qualche problema a gestire i suoi di ‘livelli’ e semplicemente preferirebbe ignorarli, facendo finta che ci sia il comandante e basta. Per certi versi è una sorta di rifiuto di crescere, in cui Andrè la asseconda.
[xxvi] Premiere femme de Chambre di Maria Antonietta. Nata come Jeanne Louise Henriette Genet, sebbene la sua provenienza non fosse nobile, ricevette per merito del padre un'ottima educazione e a quindici anni sapeva comporre in versi, suonare e parlare italiano e inglese. Il suo maggior talento era la lettura, motivo per cui ebbe a Versailles la carica di lettrice delle figlie del re: Vittoria, Sofia e Luisa. Nel 1770, quando a Versailles arrivò la giovane Maria Antonietta, Jeanne Louise fu nominata première femme de chambre, un'importante carica nella quale il titolo di cameriera non era inteso in senso servile come adesso, ma piuttosto come direttrice di camera, ovvero di tutte le attività legate alla vita della principessa nei suoi appartamenti. Nel 1774 convolò a nozze con François Bertholet-Campan, maestro del guardaroba della contessa d'Artois. Mantenne la sua carica sino al 20 giugno 1792, quando la folla in tumulto assalì il palazzo delle Tuileries; in seguito a un secondo assalto Maria Antonietta e la sua famiglia furono imprigionati nella Torre del Tempio, Madame Campan chiese di poter assistere la sovrana, ma la sua richiesta fu rifiutata.
[xxvii] A chi interessasse, la disposizione delle cucine di palazzo la trovate nell’Anello 1.
[xxviii] Le storie di fate sono una grande tradizione del seicento-settecento, spesso scritte da donne che si erano sudate un’istruzione da autodidatte, apparentemente innocue, in realtà non erano destinate ai bambini. Dipingevano un mondo ‘singolare’, in cui gli uomini rimanevano un secondo piano e il potere era amministrato da donne, fate appunto, sagge, istruite, potenti e spesso comprensive nei confronti delle debolezze umane. Ovviamente i vari favolatori uomini hanno rimodellato questa tradizione, lasciandola a margine delle loro belle fiabe incentrate sulle principesse in attesa di un principe, in cui le fate sono state retrocesse a donne di servizio atte a propiziare l’idillio finale.
[xxix] Inverno 1774-75, che precede la guerra delle farine.
[xxx] All’epoca la pneumoconiosi dovuta all’esposizione prolungata ai fumi di carbone era la morte più comune per il personale di cucina, che vi era esposto per anni. Persino Marie-Antoine Careme, ‘padre’ della Haute Cusine, cuoco di Talleyrand e figura chiave nel suo uso della cucina per intessere relazioni diplomatiche, partito come garzone per diventare ricchissimo e chef de cusine conteso dalle case regnanti di tutta Europa, muore della stessa malattia.
   
 
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