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Autore: r_clarisse    23/02/2016    1 recensioni
Africa, 148.000 aC.
Due ragazzi innamorati, David e Steven, contemplano la bellezza del loro nuovo mondo dopo quattro anni di esodo nella Flotta Coloniale.
Il loro viaggio è terminato e ricominceranno da capo, a partire da quel momento, insieme.
David racconta in prima persona la loro storia, la loro vita insieme nelle Dodici Colonie e la corsa disperata per la sopravvivenza dopo la loro distruzione per mano dei Cyloni.
Non ha la pretesa di essere un grande racconto, ne un'opera di fantascienza, ma spero possa far trasparire in qualche modo quella che è la semplicità dell'amore che può unire due persone, attraverso lo spazio e il tempo.
"Eravamo finalmente a casa, la nostra nuova casa, e non dovevamo più scappare.
Certo, avremmo dovuto ricominciare da zero in un nuovo mondo, ma questo non mi spaventava; non mi spaventava la mancanza di cibo, il doverci arrangiare, il costruire tutto da capo.
Dopo quello che avevamo passato sarebbe stato sciocco preoccuparsi per il futuro.
Sapevo che ce l’avremmo fatta."
Genere: Drammatico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi Tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 7 – Speranze

7.1 –“Anni Luce e anelli matrimoniali”
Dovrei davvero imparare a concentrarmi e a non perdermi pensando ad altro mentre faccio qualcosa; è sempre stata una mia caratteristica, il vizio di distrarmi ed iniziare a navigare con la mente, in qualsiasi momento.
Sarà che ho una grande immaginazione ed un’instancabile vena nostalgica, e il che può essere anche un bene, ma in certi momenti è un problema.
Mi è successo oggi pomeriggio, mentre spiegavo ai bambini del gruppo il significato di “anno luce”; loro stavano seduti sul pavimento della capanna che chiamiamo scuola, un pavimento formato da piastrelle in ceramica di bassa qualità, riciclate dalle paratie interne di una sala dei servizi igienici di una delle astronavi passeggeri più piccole prima che fossero spedite nel sole dopo il nostro atterraggio sulla Terra.
Io camminavo a zig zag tra di loro con le braccia conserte e guardando in basso; in questi giorni non fa molto caldo, contrariamente al solito, e molti di loro indossavano magliette a maniche lunghe, chi rimboccandole ai gomiti, chi no.
Io avevo addosso i miei cari jeans neri, quelli stretti ed elasticizzati che indossavo il giorno degli attacchi alle Colonie; è incredibile che siano riusciti a conservarsi in tutti questi anni, nonostante le improbabili condizioni in cui siano dovuti permanere; nemmeno una sgualcitura.
“L’anno luce ragazzi” dicevo gesticolando “è un'unità di misura.” Mi sono fermato e mi sono voltato verso di loro per proseguire e porre ai bambini un quesito:
“Sapete cos’è un’unità di misura?” Ho incrociato le braccia e sorriso, invitando i giovani apprendisti a svelare il mistero.
La piccola Hilary Lorentz, figlia del supervisore ai lavori alla pompa dell’acqua, ha alzato la mano ed azzardato un’ipotesi; il suo indice teso verso il soffitto oscillava leggermente, mentre l’altro braccio, coperto dal suo golfino rosa leggero era timidamente conserto sul pancino.
“Hilary! Avanti, dicci.” L’ho indicata dandole il via.
“L’unità di misura è una cosa che ci dice quanto sono grandi le cose!” Ha ipotizzato timidamente mentre si toccava ansiosa i codini neri.
“Esatto” Ridacchiai per le parole buffe ma efficaci che aveva usato.
“E’ un mezzo per misurare le dimensioni degli oggetti. In questo caso, l’anno luce” mi sono passato una mano tra il ciuffo di capelli castani che mi copriva le sopracciglia “indica la lunghezza, ma.. di cosa, ragazzi?” Ho chiesto. Il silenzio nell’aula.
“La lunghezza  della distanza percorsa dalla luce in un anno.”
E’ seguito un sentito “ooh!” da parte di tutti loro; a quel punto ho tentato di renderli più partecipi e protagonisti della lezione, così, ho posto loro un nuovo quesito.
“Sapete quanti anni luce abbiamo percorso in questi anni? Da quando abbiamo lasciato le Colonie a quando abbiamo raggiunto la Terra, sapete quanti anni luce abbiamo percorso?”
Adesso i loro sguardi oscillavano qua e la nella stanza, cercando un qualche indizio per rispondermi.
“Non avete idea?” Ho chiesto di nuovo; ma nessuno ha risposto.
“Beh” mi sono arreso “I sistemi solari delle Colonie sono molto lontani da questo pianeta!”
“E quanto?” Ha chiesto il piccolo Robert Stewart con un tono curioso e quasi quasi esasperato, come se fosse una domanda che lo assillasse da anni.
“Abbiamo percorso circa duemila anni luce, ragazzi, una bella corsa!” a quel punto mi sono avvicinato al banco sul quale avevo precedentemente posto un foglio di carta bianco ed un pennarello blu –tutto ciò che ero riuscito a rimediare negli scatoloni della roba che ci siamo portati dietro- e l’ho portato in mezzo al cerchio.
“Questa è la nostra galassia!” Ho detto mentre disegnavo una sorta di spirale rotonda.
“Questo puntino siamo noi ora, sulla Terra” ho detto disegnando un cerchietto minuscolo all’estremi destro della spirale.
“E le Colonie… le Colonie sono qui” e ho disegnato il piccolo ammasso stellare che una volta chiamavamo casa, rappresentandolo con quattro piccoli puntini vicini.
Infine, ho unito i due estremi con una linea obliqua e leggermente zizzagata, che rappresentava il nostro tanto agognato esodo; quattro anni di viaggio, di battaglie, di salti iperspaziali, di speranze.
I bambini guardavano attentamente il movimento che le mie mani compivano sul foglio, analizzando scrupolosamente le linee che collegavano le stelle, tranne la dolce Sarah Kingsley, che era molto più interessata al luccichio della luce del sole che si rifletteva sul mio anello di matrimonio, infilato nell’anulare destro.
Ho guardato nuovamente i bambini e mi sono reso conto che la maggior parte di loro era troppo giovane anche solo per ricordare le Colonie, i pianeti su cui erano nati, dato che molti di loro avevano appena cinque anni, e di quei mondi lontani potevano avere solo delle flebili reminiscenze, alimentate dai racconti dei genitori; altri ancora più piccoli erano venuti al mondo già nello spazio, a bordo delle navi della flotta.
Una generazione di esuli che finalmente aveva trovato casa.
“Quanti salti iper-luce abbiamo fatto, David?” Ha chiesto Sarah alzando la mano e poi protraendola come se dovesse nascondere un misfatto, con quel suo sorrisetto impertinente e vivace.
“Oh cielo, beh, bella domanda! Ne abbiamo effettuati così tanti che credo che anche gli ufficiali sul Galactica ne abbiano perso il conto!” Centinaia di salti iper-luce.
Vidi le stelle fuori dal finestrino contorcersi e sparire in un bagliore accecante per poi riapparire centinaia di volte. Mentre rispondevo, disegnavo un panorama urbano sul retro del foglio “Comunque tanti, Sarah…” Ho risposto distrattamente.
Erano i palazzi di Hades, quelli che stavo disegnando, i palazzi della capitale di Canceron, la città vicino a cui avevo vissuto con Jennifer per vent’anni.
Si riconoscevano perfettamente i grattacieli del centro, soprattutto con il tetto spiovente della Telconf Corp, accanto allo spazioporto, ai piedi del quale Steven mi aveva chiesto se fossi felice con lui. Il giorno in cui ebbi la certezza delle sue speranze.
I bambini mi guardavano in silenzio domandandosi perché avessi smesso di parlare loro di misure astronomiche e mi fossi chiuso in un silenzioso e casuale momento artistico; al chè, rendendomi conto di essermi distratto nel momento sbagliato –come mio solito-, ho sorriso un momento per poi congedare i bambini.
“E’ abbastanza per oggi ragazzi! Andate pure fuori a giocare, domani continueremo il discorso sullo spazio.”
Sarah mi si è avvicinata per un’ultima confessione e vedendo che indugiava mi sono accovacciato perché potesse sussurrarmi il fatto in modo discreto.
“Il tuo anello è davvero carino!” Ha detto la piccola capricana con un filo di voce e un sorrisetto non più impertinente ma timido, prima di scappare di corsa fuori nel campo insieme agli amichetti.
Mi ha strappato un grande sorriso.
Ho osservato per un attimo l’anello a mia voglia e mi sono stupito di come quel piccolo, semplice cerchietto di argento, un argento nemmeno poi tanto pregiato, potesse rappresentare un concetto così grande ed infinito come l’amore.
E ho sorriso ancora una volta prima di uscire, per la consapevolezza che il tesoro a cui allude, è mio.

7.2 “Recapiti telefonici e amori”
Amavo suonare il pianoforte; era una di quelle cose che mi permettevano di staccarmi dalla realtà e di volare, librarmi in aria sfuggendo alla forza di gravità ed alle paure della vita.
Ricordo come il pianoforte digitale donasse una certa aria importante e ‘maestosa’ alla mia stanza, stracolma di oggetti d’infanzia e fotografie di amici incorniciate ed appese al muro.
Mi capitava di passare delle ore seduto su quello sgabello a suonare, alle volte deliziando l’udito di Jennifer che nel frattempo correva avanti e indietro presa dalle sue faccende, altre volte facendola impazzire per la micidiale ripetizione sempre degli stessi pezzi.
Ma la cosa che amavo di più era suonare in compagnia di Steven, accompagnando la sua voce con accordi bianchi e neri; era forse quello uno dei punti di forza del nostro rapporto, l’armonia, la musicalità, l’intesa artistica.
Riusciva a raggiungere note altissime quando si impegnava; il mio pezzo preferito era “Should I Let You In”  dei Priestly Bakers, una rock band di Libran che adoravo.
Iniziava con un arpeggio di piano seguito da accordi rombanti e graffianti di bassi e chitarre elettriche; Steven riusciva a rendere perfettamente quel verso nel pre ritornello cantato in falsetto

“Since I’ve been on this tree with my feet in my head”

Era il tredici Februarius quando, durante un pranzo insieme, Jennifer disse di doversi recare ad Hades per rinnovare il contratto con la compagnia telefonica della quale eravamo clienti.
Stava servendo il sufflè di pollo mentre disse di avere uno spiacevole inconveniente.
“Perché devi andare fin là? Non puoi farlo da casa?” Chiesi io mentre versavo dell’acqua nel suo bicchiere.
“No, diamine! E’ tutta una questione burocratica, non accettano pagamenti via computer ne per posta, devo firmare di persona!” Disse scuotendo la testa da cui oscillava una coda di capelli castano chiaro raccolti con un fermaglio di plastica.
“Devo farlo entro la fine della settimana, ma sono piena di impegni, ci mancava anche questa…”
Amavo il modo in cui la sua vena teatrale riusciva a rendere drammatici anche gli eventi più modesti.
“Questo sufflè è fantastico, Jennifer!” Esordì Steve per distrarre la donna dalla tragedia senza senso che stava vivendo.
“Oh caro, ti ringrazio, è una ricetta di Leonis! Sapevo ti sarebbe piaciuta!” Cambiò immediatamente espressione accendendosi in un sorriso compiaciuto.
“Potrei sempre occuparmene io, non è un problema!” Dissi a mia volta.
“Non ho molti impegni e con il lavoro posso gestirmela facilmente!” E deglutii un boccone.





7.3 –“Treni lev e paure”
Stavo seduto sulla panchina al centro del binario uno sotto il porticato della stazione dei treni di Lewdan ad aspettare che Steven mi raggiungesse; mentre soffiavo nelle mie mani per ottenere un leggero tepore, osservavo le persone attorno a me.
Vestite per lo più in abiti scuri, con lunghi cappotti e valigette ventiquattrore che contenevano i loro preziosi rapporti, o documenti legali, o ricevute di pagamenti.
Giusto una manciata di loro aveva in mano un cellulare; non eravamo in tanti ad averne uno a quel tempo: dopo la –prima- guerra con i Cyloni la nostra società aveva iniziato a provare una sorta di terrore smisurato verso le tecnologie informatiche avanzate.
Un terrore non proprio campato per aria dato che durante i dodici anni di guerra che misero a ferro e fuoco le Colonie, i Cyloni furono in grado di infilarsi più volte nei database, nei terminali e nei circuiti delle apparecchiature connesse tra loro degli umani ed usarle contro di loro.
 Nonostante i nostri mondi fossero in pace da molto tempo e ormai i Cyloni fossero solo un ricordo –o almeno, così pensavamo-, la paura delle innovazioni continuò ad assillare per anni la mente dei coloniali, come un oscuro presagio, un dubbio meschino e subdolo. Molte persone non si sentivano al sicuro sapendo di avere un computer in casa; per alcuni –pochi- fanatici, anche la televisione era diventata un nemico in agguato nel salotto, pronto a colpire i suoi padroni nel sonno.
Non saprei dire se per fortuna, ma la  nostra mentalità si stava gradualmente rilassando in quegli ultimi anni, riabituandoci all’idea di possedere aggeggi capaci di connettersi alla rete coloniale –rete che per altro era stata riattivata e diffusa nuovamente nei dodici mondi da appena quindici anni- soprattutto grazie alle ricerche e le parole pronunciate a gran voce a favore del progresso da personaggi di spicco come Gaius Baltar, noto per la sua piena approvazione degli studi per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, banditi dal governo dopo il disastro generato dalla creazione dei Cyloni.
Avrei scoperto tempo dopo –lo avremmo scoperto tutti- che tipo di uomo potesse essere quel Gaius: tanto geniale ed incredibile quanto vile e calcolatore.
Vedevo quelle persone attendere poco lontano da me, e mi chiedevo a cosa stessero pensando, in quel momento del pomeriggio di un qualunque giorno di fine inverno.
I treni a levitazione magnetica passavano velocemente sui binari tre e cinque; non potevo fare a meno di osservarli e scrutare le loro silhouette massicce, e il modo delicato e decisamente elegante con cui le loro calotte inferiori non sfiorassero nemmeno le rotaie, grazie ad un effetto di antigravità dovuto alla repulsione magnetica esercitata dagli apparati del mezzo sulla superficie.
Grazie all’assenza di ruote e freni altri dispositivi convenzionali, quei treni erano assai silenziosi, nonostante sfrecciassero a tutta velocità, quasi come se fossero estranei alla forza d’attrito dell’aria, di fronte a me.
Steven arrivò sul binario aprendo molto sgraziatamente la porta scorrevole accanto alla panchina su cui sedevo; si stava ancora avvolgendo nella sua sciarpa rossa mentre avanzava velocemente verso di me.
“Scusa il ritardo, ho dovuto aspettare cinque minuti davanti a quel frak di semaforo!”
Disse mentre guardava in basso, sistemando nervosamente il bottone superiore del suo cappotto nero.
“Il treno sta per arrivare, superstar, lo hanno appena annunciato!” Risposi nell’atto di controllare l’ora nel mio cellulare.
L’alto parlante trasmise nuovamente l’annuncio del nostro treno lev.

“Il treno interurbano 4592 in arrivo da Lianna e diretto a Hades delle 15:23 è in arrivo al binario uno.”
Ed eccolo là, il nostro treno lev, che si avvicinava velocemente e silenzioso, con il suo muso stondato e le piccolissime escoriazioni sul fondo della fusoliera dovute all’usura.
I suoi vetri oscurati all’esterno erano in netto contrasto con la vernice bianca smagliante –o almeno un tempo- sulla carrozzeria; fluttuava a circa mezzo metro d’altezza dal fondo della monorotaia, permettendomi di notare un piccolo mazzolino di fiori che cresceva alla destra del suo fondo, sbucando a lato della struttura metallica e del cemento.
I portelli di accesso traslucidi si aprirono davanti a noi che, dopo aver lasciato scendere un numero non proprio indifferente di passeggeri, ci andammo a sedere accanto al finestrino sul lato destro della cabina.
Avevo sempre amato viaggiare in treno; lo trovavo estremamente rilassante, e la possibilità di osservare il paesaggio in movimento conciliava i miei lunghi viaggi mentali.
In un attimo fummo fuori da Lewdan e potevamo osservare i vasti ma ben delimitati campi coltivati, alternati ai pozzi di trivellazione sotterranei, off limits per i cittadini di passaggio.
Nonostante l’inquinamento, l’eccessiva urbanizzazione, il sovraffollamento e la povertà, Canceron era uno dei pianeti era uno dei più fertili e ricchi di giacimenti petroliferi e metalli preziosi, le cui installazioni  per lo sfruttamento erano disseminate un po’ ovunque.
Era un giornata uggiosa e grigia, ma potevo vedere i monti, la grande catena montuosa sempre innevata, nonostante non fosse molto lontana dall’inquinamento.
Gli edifici sempre più fitti ed alti nelle zone che attraversavamo, sfrecciavano davanti al nostro finestrino ad una velocità impressionante, quasi da non farmene distinguere le forme, per lo più cilindriche e grigiastre.
C’erano molti stili architettonici nei mondi, stili che comprendevano moltissime forme, ma gli edifici più diffusi un po’ ovunque, erano quelli di forma cilindrica.
“Sai, potremmo andare al cinema domani!” Disse sorridendo il ragazzo dai capelli scuri di fronte a me, massaggiandosi delicatamente il mento con la mano sinistra. Non lo stavo ascoltando.
“Hey?” Ancora ero assorto nei miei pensieri; stavo domandandomi se avessi portato con me i documenti necessari per rinnovare l’abbonamento; dovrebbe essere una cosa ovvia, ma spesso mi capita di dimenticare persino di avere una testa sul collo.
“Finto biondo, mi senti?” provò nuovamente ad attirare la mia attenzione con un’espressione che mi era stata appioppata da una mia compagna di classe al liceo. Finto biondo.
Per un attimo quelle due paroline mi risuonarono in testa e m fecero realizzare che avevo più di tre dita di ricrescita e forse era ora di decolorare di nuovo il mio caschetto.
Steven, lungi dall’essere spazientito, schioccò le dita –cosa che io non sono mai stato capace di fare e che non so fare tuttora- vicino alla mia faccia per risvegliarmi dal coma.
“Hey! Scusa, hai detto qualcosa?” Dissi sbarrando gli occhi.
“Dicevo che domani potremmo andare al cinema, Chris e gli altri vanno a vedere Mary Trace Griffit e mi hanno chiesto se ci va di unirci!” Sorrise.
“Certo.. certo, perché no?” Risposi sorridendo a mia volta. 
I suoi amici erano formidabili; non avevo mai incontrato un gruppo così unito e perfettamente assortito quanto loro. Jeremy era il migliore amico di Steven  ed era una persona molto particolare; non riuscivo mai a capire quando scherzasse e quando fosse serio per via della sua sottilissima ironia, alle volte bonaria, altre volte pungente e spietata.
Chris era la sua migliore amica invece, ed era una ragazza di rara dolcezza; ingenua, divertente e carina, aveva i capelli chiari e mossi e le guance leggermente paffute. I suoi occhi brillavano e riflettevano i suoi sogni. Ci eravamo piaciuti da subito, forse perché anche lei ambiva a diventare un’insegnante, e non potevamo che condividere questo aspetto della nostra vita.
“Si dai, andiamo! Però, che film è Mary Trace Griffit?” Chiesi ridacchiando.
“Non ne ho idea” Rise “Ho visto il trailer ma non ho capito nulla, so solo che c’era una pazza che lanciava le cose” Rise di più.
“Oh bene!” Risi anche io, di nuovo. Guardai fuori dal finestrino: il treno sfrecciava a poco meno di duecento chilometri orari e quasi non ce ne accorgevamo dai nostri sedili.  L’ambiente fuori cambiava: gli agglomerati di edifici, o almeno quelli che riuscivo a vedere, si facevano sempre più fitti e numerosi nella campagna, i palazzi più alti e grigi. In cielo, il traffico aereo si intensificava man mano che ci avvicinavamo alla nostra meta; potevo vedere sempre più astronavi in rotta di decollo e di atterraggio verso gli aeroporti spaziali sia nel centro che nella periferia della capitale.
Guardai Steven: ora era lui ad essere assorto nei suoi pensieri; chissà a che pensava.
Forse alla sua arte: da qualche tempo stava lavorando ad una nuova canzone, “To You”.
In quelle ultime settimane lo avevo sentito parlare con suo padre al telefono, molto più di quanto non avesse fatto prima; abbassava la voce se si accorgeva che ascoltavo. Non sapevo ancora di cosa discutessero.
Ma io lo amavo, ed ero certo di amarlo. Non ero mai stato tanto certo di qualcosa in vita mia quanto quello.
Eravamo ormai circondati da palazzi piuttosto alti ed il treno diminuiva gradatamente la velocità con il sopraggiungere della stazione.

“Siamo in arrivo a Stazione Centrale di Hades”


7.3 “Grattacieli e domande”
Il centro urbano della capitale era certamente uno dei più avvenieristici e moderni sul pianeta, e la città era un tripudio di stili architettonici diversissimi tra loro, risalenti a più epoche, sia antiche che estremamente recenti. A terra, palazzine ultramoderne e piene di vetro luccicante si alternavano ad altre in mattoni vecchie di centinaia di anni, restaurate e ridipinte per nasconderne i tratti tipici di un’epoca in cui i lavoratori delle campagne decisero di affollare le grandi città. In alcuni incroci avremmo trovato templi con frontone a timpano, ancor allora frequentati dai credenti, per la maggior parte dedicati al patrono Efesto, ma non solamente data la moltitudine di forme di culti religiosi sul pianeta.
Due dozzine di torri in vetro ed acciaio svettavano dalla superficie frastagliata dalle molte palazzine più piccole e dagli edifici inferiori, raggiungendo un’altezza che variava dai trecento agli ottocento metri: grattacieli enormi a forma di parallelepipedi e cilindri, con guglie e tetti piramidali, spioventi o piatti. Si potevano notare sui terrazzi le decine di condensatori ed evaporatori che emettevano importanti quantità di anidride carbonica e condensa rilasciate dagli edifici. Una moltitudine di schermi digitali, ologrammi ed inserzioni pubblicitarie in neon puntellavano lo skyline di una delle città più popolate e cosmopolite delle Colonie, assillandone gli abitanti e i turisti con incessanti spot promozionali che li invogliassero a comprare, viaggiare, spendere.
E le antenne, centinaia di antenne spuntavano dai tetti e dalle cime dei palazzi: antenne televisive, radiotelevisive, antenne di comunicazione, trasmettitori interstellari.
Una delle cose più caratteristiche e curiose della città era il sistema di trasporto metropolitano, forse unico nelle Colonie, se non per alcune strutture simili ma comunque più semplici e in scala minore su Virgon, Leonis e Caprica: una fitta rete di cavi metallici elettrificati, ponti e cavalcavia sopraelevati attraversava la città a partire da un’altezza di diciotto-venti metri –appena poco più in alto del livello della strada- fino alla quota di duecentocinquanta metri circa; centinaia di treni metropolitani a levitazione magnetica scorrevano appesi lungo questi cavi grazie ad un gioco di attrazione e distorsione gravitazionale non molto diverso da quello descritto precedentemente, permettendo ai cittadini di spostarsi agevolmente nel sovraffollato centro urbano senza dover ricorrere necessariamente alle strade –spesso intasate- o alla metro sotterranea.
Le fermate della metro sospesa erano situate all’interno di stazioni alloggiate negli stessi grattacieli o in solide intercapedini ad essi collegate all’altezza in cui si intersecavano con i cavi magnetici.
Avevo undici anni quando vidi quei treni scorrere nel cielo, la prima volta che venni con Jennifer nella capitale per ritirare i risultati di una visita medica, e ricordo che la mia reazione fu di estrema sorpresa, quasi come se non avessi mai saputo di vivere in una società interplanetaria e tecnologicamente avanzata.
Qua e là, aiuole e piccoli parchi allietavano la vista dei passanti stressata dall’eccessivo e turpe grigiore della zona; preoccupante era la pesante cappa di smog che aleggiava nei cieli azzurro-grigiastri di Hades, ed ancor più preoccupante, se non irritante, era l’incredibile disinteresse del governo a proposito del problema. Su altri pianeti erano stati da tempo presi provvedimenti per circoscrivere i tassi di inquinamento, ma su Canceron che forse ne aveva più bisogno nessuno batteva ciglio.
Io e Steven ci facevamo strada tra la folla che abitava i marciapiedi, purtroppo, pieni di vagabondi e barboni che chiedevano l’elemosina, mentre alla nostra destra le automobili marciavano a doppio senso in sei corsie e sopra le nostre teste i treni metropolitani andavano e venivano, disegnando cupe ombre passeggere e sprazzi di luce solare quando ci sorpassavano.
“Non dovrebbe essere lontano” dissi leggendo l’indirizzo della sede dell’agenzia telefonica scritto sul biglietto da visita che Jennifer aveva conservato “dovrebbe essere al prossimo incrocio, nel palazzo a destra della strada.” Guardavo avanti.
Steve si guardava attorno con un’aria leggermente stranita e provando probabilmente un leggero senso di inadeguatezza. Il mondo da cui veniva era molto meno popolato di quello su cui vivevamo allora, ed era soprattutto  contraddistinto da una certa raffinatezza che si rispecchiava nei suoi abitanti e nelle sue costruzioni, raffinatezza che una società mista e meno isolazionista come quella di Canceron aveva perso da secoli.
Un grande schermo digitale affisso alla parete dell’edificio di fronte trasmetteva in quel momento un’intervista a Gaius Baltar, che spiegava al pubblico il progetto che stava realizzando in collaborazione con il ministero della difesa, un nuovo programma di navigazione utilizzabile dalle astronavi da guerra coloniali per ottimizzare gli sforzi del personale con una maggior resa.
Il suo sguardo sicuro e fiero si accendeva in una smorfia beffarda e quasi di sfida e forse lasciava trasparire il suo vero essere interiore, ma nessuno di noi pensava allora che ci sarebbe mai potuto interessare di ciò.
Non sapevamo ancora cosa avrebbe portato il futuro.

7.4- “Graffiti e religioni”
Sistemato l’affare con l’agenzia telefonica, decidemmo di svagarci un po’ per il resto del pomeriggio, esplorando il panorama urbano che ci circondava.
C’era davvero un gran frastuono in quella città, tra il via vai incessante di automobili per le strade, le migliaia di voci che si sovrapponevano, gli sbuffi  di vapore nelle prese ad aria sotto i nostri piedi ed i treni sopra di noi.
Nonostante ciò, non era comunque così male, e potevamo ancora godere della nostra reciproca compagnia; camminavamo vicini e ridacchiavamo frivolamente delle nostre cose, come se non ci fosse un domani, come se non avessimo impegni o come se non esistesse nulla attorno a noi.
Lui sorrideva, dolcemente; il suo sguardo sembrava darmi un eterno benvenuto, come se fosse un luogo fisico dove rifugiarmi dalle mie paure.
Ci trovavamo ora nella via che conduceva al Canceron Interplanetary Space Port, l’aeroporto spaziale più importante del pianeta; quel giorno non potevo immaginare che vi sarei entrato da lì a meno di un mese.
Ci appartammo in un parchetto accanto all’edificio, ai piedi del palazzo della Telconf Corp che, quasi totalmente ricoperto di vetro e con il tetto spiovente, sarà stato alto poco meno di settecento metri.
C’era una panchina, in realtà ce n’erano almeno una trentina in quell’isola verde, ma quella in particolare, accanto ai due alberi e a sinistra delle altalene per bambini, mi ricordava tantissimo quella vecchia panchina su cui ci sedemmo al nostro primo appuntamento, mentre ci raccontavamo delle guerre passate tra Virgon e Leonis e delle nostre vite.
Non so se anche lui notò quella curiosa somiglianza, non era mai stato uno che ricordava molto i dettagli –non dico di essere migliore di lui; in compenso io non so fare calcoli più complessi di 2+2 senza andare in panico-, ma vidi che sorrise quando gli feci cenno di sederci là.
Alla nostra destra, a circa duecento metri, le vetrate del terminal dello spazioporto luccicavano deliziosamente nella luce del tardo pomeriggio, così come la quasi totalità degli altri –ed alti- edifici attorno; con un intervallo regolare, le nostre voci venivano eclissate dal rumore assordante delle astronavi di linea che decollavano ed atterravano sulle piste là vicino.
Davanti a noi, decine di bambini chiassosi e gioiosi, incuranti dello stress della vita di città, correvano avanti e indietro nel parco trasformando quel piccolo fazzoletto d’erba in una distesa felice e genuina, ai piedi di colossali grattacieli d’acciaio, simbolo ultimo del potere imperialista del capitalismo.
“Allora ci andiamo al cinema domani?” Mi chiese guardandomi con un’espressione carica di comicità; sapeva formulare delle smorfie davvero uniche.
“Certo che ci andiamo se ti va!” Risposi “Ti va vero?” Chiesi.
“Se te l’ho proposto io mi va si!” E scoppiò a ridere.
Ci fu un attimo di silenzio in cui guardammo avanti a noi sorridendo. Ma solo un attimo.
Mi fece una domanda cogliendomi davvero alla sprovvista.
“Sei felice?”
Mi voltai verso di lui sbarrando leggermente gli occhi. Per un momento, non dissi nulla.
“Sei felice con me?” Chiese di nuovo.
Non dovetti pensarci più di un secondo e mezzo, giusto il tempo di assimilare la domanda e permettere alle mie labbra di pronunciare la risposta.
“Certo.” Sorrisi.
“Ne sei sicuro?” Indugiò un’ultima volta; non era una domanda posta per un qualche motivo oscuro, era sereno mentre lo chiedeva. In fondo possiamo amare qualcuno e volercelo anche sentir dire ogni tanto, no? Eppure notai qualcosa nei suoi occhi, qualcosa che non vedevo dai primi momenti in cui ci frequentavamo. Come un’ombra di paura, un’ansia, un dubbio.
Metteva in dubbio i nostri sentimenti? O i miei? Perché?
Ma no, no forse voleva soltanto sentirmelo dire, un’altra volta. Era una cosa romantica a pensarci.
“Con tutto me stesso.” Gli misi una mano attorno al collo e sorrisi, poi iniziai a scherzare facendo il verso a me stesso ed assumendo espressioni caricaturali mentre parlavo.
“Assolutamente. Senz’ombra di dubbio. All’unanimità. Chiaramente, anzi di più.” E scoppiammo a ridere di gusto, appoggiandoci l’uno sulla fronte dell’altro.
Misi la mano sinistra sulla panchina per appoggiarmi meglio, ma nel farlo non potei fare a meno di notare un piccolo disegno o scritta che stavo coprendo; spostati la mano e mi vi avvicinai, strizzando leggermente gli occhi per mettere bene a fuoco. Vidi una strana immagine.
Su quella panchina di legno, tra le decine di scritte che si confondevano tra loro, vi era un otto rovesciato, il simbolo dell’infinito, ed ai suoi piedi una scritta in maiuscolo, probabilmente incisa con un pennarello bianco indelebile:

                                                                          THE ONE”
Guardai Steven e gli indicai il piccolo graffito che avevo individuato; poteva essere un pasticcio qualunque come tanti altri su una panchina a caso su un pianeta sovraffollato, eppure destò la mia attenzione.
“Guarda Steve! Cos’è?” Chiesi come se avessi scoperto un nuovo corpo celeste.
“E’ … un disegno?” Rispose con ilarità.
“Si ma… guarda meglio! Guarda cosa c’è scritto! The ONE!”
The One. L’unico. Mi guardò perplesso con un espressione leggermente divertita. Io pensavo.
Ma si! Era il motto del culto monoteista!
I monoteisti erano sempre stati una minoranza nella nostra società, fin dai suoi albori; si dice che le origini di quel culto risalgano a prima ancora che l’umanità lasciasse Kobol, la nostra culla ancestrale.
E da allora, quella piccola branca di credenti devoti ad una fede ritenuta controversa, e da molti, assolutista ed integralista, si era sempre contraddistinta con il triste nominativo di voce fuori dal coro, in parte per il modo intransigente di condannare i costumi della società coloniale –infedele all’unico vero Dio ed infatuata dalla voce di un pantheon di dei bugiardi e falsi-, in parte per l’utilizzo in passato di mezzi come il terrorismo per divulgare le proprie idee.
I Soldati dell’Unico erano stati un tempo una piaga che trascinava nell’oscurità l’immagine pubblica della Chiesa Monoteista, inducendo la gente a pensare, erroneamente, che la violenza fosse accettata da quella religione, o che ne fosse addirittura la base.
Non mi ero mai sentito vittima di tale pregiudizio, ed ero in grado di capire la differenza tra credente e terrorista; forse in ciò mi è venuto in aiuto il fatto di essere cresciuto in un habitat multietnico e misto come quello di Canceron, in cui la diversità era riconosciuta in tutti gli ambiti della vita.
“Si è… è il simbolo dei monoteisti!” Dissi orgoglioso di me stesso.
“Ah si? I terroristi dici?” Chiese in dubbio.
“Non sono terroristi, non tutti!” Lo ammonì “Quelli sono solo una piccola frangia estremista… la religione non c’entra niente, e poi sono anni e anni che non si sentono più…”
I soldati dell’unico erano scomparsi così com’erano nati, nel nulla.
Tutt’ora non mi è chiaro quanto la Chiesa Monade monoteista fosse coinvolta o anche fosse solo consapevole del loro operato. So solo che sui libri di storia si diceva che prima della Guerra con i Cyloni la loro tela si fosse praticamente dissolta; nonostante ciò, l’odio nei confronti dei credenti in un unico Dio continuò a farsi sentire per molto tempo, tant’è che soltanto sul povero ed arido pianeta di Gemenon, da sempre patria del monoteismo, se ne poteva riconoscere una percentuale considerevole tra la popolazione.
Riguardai il simbolo dell’infinito e notai che vi era un’altra scritta accanto alla sua sagoma, ma molto più piccola dell’altra, quasi invisibile.
Dovetti sforzarmi per riuscire a leggerla. Qualcosa scattò dentro di me.

                                                                         They’ll come back
Sentì il sangue gelarsi nelle vene. Mentre fissavo quella scritta apparentemente senza alcun significato, mi sembrò per un istante di poter vedere un’immagine, ma questa era solo nella mia mente. Mi balenò di fronte agli occhi il viso di quella bellissima donna bionda che avevo visto in sogno un mese prima. Quella donna con un sorriso inquietante sulle labbra che mi fissava nell’oscurità della notte, preceduta da esplosioni atomiche ed altre visioni bizzarre.
Sul momento non trovai il nesso e pensai di aver fatto un qualche genere di associazione mentale inconscia, ma priva di nesso logico.
In realtà, un nesso c’era. Ancora adesso fatico a credere che tanti indizi ed avvertimenti siano stati posti sul mio cammino prima che l’inevitabile prendesse forma e ci sconvolgesse la vita, ma forse queste cose vanno prese così come vengono e senza stare a pensarci troppo.
Nonostante siano le prove quasi concrete di un disegno trascendentale che va oltre al nostro orizzonte materiale.
Il rumore di un’altra astronave che decollava mi fece sussultare, e Steven, notando il mio stato di disagio mi guardò leggermente preoccupato.
“Va tutto bene?”
Guardai di fronte a me la sagoma della nave, con tratti che la rendevano simile ad un aereo ed un dirigibile, librarsi in volo contro la luce del sole avviandosi verso la sua meta.
“Si, tutto bene.” Sorrisi, la nave non si vedeva già più.

7.5-“Voci e proposte”
Incontrai una certa difficoltà nel tentare di addormentarmi quella notte, sentivo una strana e profonda inquietudine e non avevo la minima idea di che cosa la facesse scaturire.
Mi ero sentito osservato tuttala sera, ed anche Jennifer si era accorta del mio strano comportamento a cena, io e lei da soli; continuavo a guardarmi attorno, come se ci fosse qualcun altro in casa –fatto assolutamente impossibile.
Anche il nostro gatto sembrò notare il mio strano disagio; alcuni dicono che gli animali, in particolare quelli domestici, siano capaci di percepire i nostri stati d’animo molto meglio di quanto noi stessi non sappiamo fare con i nostri simili.
E’ curioso, ma non incredibile, forse perché non possono comunicare con la parola e possiedono una sorta di sesto senso.
Forse non sono i soli ad averlo.
Mentre mi rigiravo tra le coperte in stato di dormiveglia, ebbi una stranissima sensazione che fu poco chiara per pochissimi istanti; divenne perfettamente decifrabile in un istante e, nonostante stessi per addormentarmi, capì che avrei sognato qualcosa che mi avrebbe turbato.
Di nuovo.
Prima di cadere definitivamente ebbi la sensazione di udire una frase che veniva pronunciata direttamente nel mio orecchio; era chiaramente una voce femminile, una voce calda, rassicurante e sensuale. Mentre diceva quelle parole sembrava quasi che sorridesse, lo potevo capire dalla cadenza che usava. Si stava sorridendo, anche se ovviamente non c’era nessuno accanto a me.
Ma lo stava dicendo davvero, lo stavo udendo davvero!
Era una voce… nella mia testa.
“I figli dell’umanità torneranno a casa…”
I miei occhi erano chiusi, ma risposi a quella voce come se le stessi davvero parlando.
“No..No!” Dissi senza rendermi realmente conto di aver capito cosa lei intendesse.
Crollai in un profondo sonno l’istante successivo; non ho altri ricordi di ciò che sognai quella notte, fu come se non ci fosse nemmeno stata.
Chiusi gli occhi e li riaprì il mattino successivo come se fosse passato un solo secondo.



Steven ed io ci eravamo accordati per fare una passeggiata in campagna nel pomeriggio prima di raggiungere i nostri amici al cinema, l’ideale per rilassarsi dopo una giornata nel caos della città.
Andai a prenderlo in auto direttamente sotto il suo ufficio e parcheggiammo nello spiazzo di fronte alla strada asfaltata che portava sulla cima della collina ai piedi della quale giaceva arroccata Eneris.
Amavo il silenzio di quel luogo; nonostante fossimo sul mondo più popolato, edificato, inquinato e chiassoso delle Dodici Colonie, quella collina sembrava essere un’isola felice nella quale rifugiarsi era un vero piacere per me.
In primavera ogni angolo si puntellava di colori gradevoli e sgargianti che creavano un delizioso contrasto con il verde della vegetazione.
C’era una straordinaria particolarità in quella zona: nelle ultimissime settimane dell’inverno, gli alberi, gli arbusti e tutta la vegetazione vivevano una sorta di “secondo autunno”, qualcosa
all’unanimità  di unico al mondo e considerato caratteristico solamente della nostra zona.
Ad una velocità inaudita, le fronde si riempivano di piccole foglie verdi chiare che si trasformavano in foglie rossicce nell’arco di pochissimi giorni e che sarebbero cadute altrettanto velocemente per lasciare il posto a quelle nuove che sarebbero spuntate in primavera.
La strada era dunque ricoperta di un manto di cellulosa marrone-cremisi, esattamente come in ogni altro luogo accadeva solamente in Novembre.
Steven era molto silenzioso e camminava fissando il tappeto rossastro che sembrava essersi posato poco prima proprio per onorare il nostro passaggio; non diceva nulla, ma i suoi occhi sembravano trattenere delle parole molto importanti.
“Oggi al telegiornale parlavano dello scandalo del ministro Rosbender!” Provai a rompere il silenzio con un argomento che lo avrebbe interessato solo relativamente.
“Ah si?” rispose “E cos’hanno detto?”
Balle! Dicono che su tutta Caprica si occuperanno delle indagini ma è chiaro come il sole che quei soldi se li sia intascati il governo, non capisco chi pensano di prendere in giro!”
“Oh beh… certo immagino..” continuava a guardare a terra e ciò mi rese leggermente perplesso.
“Va tutto bene?” Chiesi. “Mi sembri leggerm…” provai a continuare prima di inciampare e cascare a quattro zampe sul marciapiede; una cosa che mi capita spesso del resto, credo di essere la persona più scoordinata dei mondi.
“Dovrò raccoglierti con il cucchiaino se continui a ruzzolare così!” Disse lui ridacchiando mentre si chinava per soccorrere quel bradipo maldestro. Con tutto il rispetto per i bradipi.
“Lo so, lo so, sono incorreggibile!” Mi rialzai spolverando il tessuto elasticizzato dei jeans che ricopriva le ginocchia.
Guardai Steve negli occhi e notai che la sua espressione era cambiata: ora sembrava veramente che volesse dire qualcosa, ed infatti appena ricominciammo a camminare fu come se le parole gli sfuggissero senza controllo.
“Non capisco” Dissi “cosa intendi ?” Chiesi quando accennò al fatto che avremmo potuto operare dei cambiamenti nella nostra vita.
“Io… beh quello che intendo è che..” Indugiava. Io avevo la testa rivolta verso di lui, a destra, ma guardavo avanti.
“Sai ho parlato molto con mio padre in queste settimane e mi ha consigliato di..”
“Di?”
“Di trasferirci.”
Di trasferirci. Trasferirci? In che senso? Dove?
“Io… continuo a non capire!” In effetti stavo diventando assillante.
“Ricordi quello di cui parlammo un po’ di mesi fa? Di… tornare a casa?” Sentì qualcosa colpirmi il petto.
“Su Helios Beta…” Dissi con voce tremolante riferendomi alla nostra stella di origine.
“…su Virgon, David.” Al che mi voltai verso di lui e mi fermai.
“David, su Virgon avremmo moltissime possibilità di realizzare i nostri sogni….” Mi mise le mani sulle spalle e mi guardava dritto negli occhi “Ci sono ottime università, ottime scuole musicali, l’arte è il centro della cultura, non come qui…”
Aveva ragione. Virgon era uno dei pianeti più raffinati ed altolocati specialmente per quanto riguardasse l’arte; la sua moda era in voga ovunque, e i suoi architetti, studiosi, scrittori, poeti, migravano un po’ dappertutto nelle colonie,  tenendo alta la fama del proprio mondo.
“Mio padre vorrebbe davvero aiutarci, abbiamo trovato un appartamentino fuori dalla capitale e…l’ha acquistato…”
“Avete trovato un appartamento? Ma… non mi hai mai detto nulla!” La cosa mi toccò in modo strano; non posso dire che mi diede fastidio ma si parlava di ristrutturare completamente la nostra vita, e quanto meno avrei voluto esserne informato.
“Qui si parla di un cambiamento enorme Steve, perché non me ne hai parlato?”
“Scusami, lo so avrei dovuto… ma mi hai sempre detto che avresti desiderato moltissimo tornare a casa, sul pianeta della tua famiglia… possiamo farlo!” Il suo tono di voce era molto pacato; sembrava stesse chiedendo perdono per aver omesso questo progetto.
“Possiamo farlo davvero!” Ribadì. Non sapevo che cosa dire.
“Certo..” Continuò “…solo se lo desideri.” Sorrise, rassicurandomi.
Pensai per qualche istante, e mi resi conto che ciò che stava accadendo aveva dell’incredibile: il mio ragazzo mi stava chiedendo di lasciare tutto quello che conoscevo per seguirlo in un’avventura nuova e potrei dire mozzafiato. Cambiare pianeta. E’ vero, Virgon era la casa dei miei genitori quando erano ancora in vita, ma io non avevo mai lasciato Canceron, e a dir la verità non avevo nemmeno viaggiato tanto sul pianeta stesso.
Quello che Steve mi proponeva era eccitante ma allo stesso tempo spaventoso per il ragazzo di soli vent’anni insicuro e pieno di timore che ero allora.
“Io non so che cosa… cioè… si è vero, è una cosa che ho sempre voluto fare ma… non… come faremo?” Un turbinio di emozioni mi pervadeva e mi impediva di esprimermi correttamente.
Mi fece cenno di muoverci per la strada; io lo guardavo e non capivo come facesse ad essere così sicuro di ciò che diceva, come e stesse parlando di una cosa tanto leggera.
“In questi mesi abbiamo risparmiato soldi a sufficienza per almeno un anno di rate scolastiche, inoltre potremmo cavarcela con le sovvenzioni universitarie che danno” Ancora una volta, lo ascoltavo in silenzio ciò che diceva.
“Per il resto ci aiuterà mio padre, per il viaggio, il trasferimento e tutto quanto, e come ti dicevo, l’appartamento praticamente è già nostro…”
“Ma perché l’ha già acquistato? Nessuno mi ha nemmeno interpellato… voglio dire, è una cosa bellissima, ma come posso accettare un regalo del genere? E’…è una cosa enorme!” Espressi il mio disappunto. Mi faceva uno strano effetto pensare di andare a vivere in una casa che mi sarebbe stata regalata da mio suocero, non perché non fossimo in buoni rapporti, ma perché non avrei praticamente dovuto fare nulla per guadagnarmela. Si può costruire un futuro insieme senza faticare? Senza fare sacrifici? Non è essenziale lavorare sodo per concretizzare un progetto di vita? Erano queste le domande che mi giravano in testa in quel momento. Ma c’era dell’altro…
“Oh dei, e Jennifer?” Chiesi a me stesso ad alta voce “Le si spezzerà il cuore!”
“David ascolta..”
“No ascolta tu!” Ribattei deciso “Quella donna ha rinunciato alla sua vita per me, alla sua felicità, tutto per prendersi cura di me e crescermi… lei ha lasciato il suo pianeta per venire su questa roccia desolata e io… io la lascio qui? Come posso farlo?”
Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, finchè non provò di nuovo a dissuadermi
“Lo so cosa provi, credimi… ma sono sicuro che sarà lei stessa a spingerti a farlo.”
“Come fai a saperlo?” Chiesi.
“Da piccole cose, alcune allusioni che ha fatto… mi ha sempre detto che meriteresti molto di più, che dovresti vedere la tua vera casa.”
Oh Jennifer. Avrei dovuto starti più vicino quando ancora potevo. Mi manchi sai?
Mi voltai a sinistra ed osservai per un attimo il panorama dall’alto della collina; i grattacieli di Hades in cui ci trovavamo appena un giorno prima luccicavano lontani quasi all’orizzonte, mentre l’azzurro grigiastro del cielo si fondeva ad una sfumatura rosa aranciata dovuta al tramontare del sole. Vedevo tutte le città della contea da lassù, Eneris, Lewdan, Lianna; vedevo i campi, i giacimenti, le centinaia di strade che si sovrapponevano, e le montagne quasi evanescenti sullo sfondo. Canceron. Non ne avrei sentito la mancanza?
“Non posso credere che questo stia accadendo davvero…”Scoppiai a ridere, contagiandolo.
Un’auto sportiva rosso fuoco sfrecciò sulla strada accanto a noi; ci voltammo a guardandola sparire tra gli alberi che costeggiavano la carreggiata.
“Tu… tu ti rendi conto della gravità di tutto questo, vero?” Mi guardò “Sai cosa significa vero? Un passo del genere… è un per sempre.” Lo guardai anche io dritto negli occhi “Sei sicuro di volerlo davvero?”
Lui sorrise.
“Si. Credimi. Si.”
Quel si mi scosse profondamente; in realtà sapevo già che mi amasse davvero, ma come ho già detto precedentemente, è bello sentirselo ripetere ogni tanto. Ed era una conferma. Mi amava.
Una nave passeggeri di linea sorvolò la collina ad appena cento metri da noi, portandosi in assetto orizzontale e facendo l’ambiente attorno a noi. Come se il mondo si piegasse di fronte all’energia terrificante ed all’assordante rumore dei post bruciatori del velivolo; sparì fra le nuvole.
“D’accordo.”

Continua…
   
 
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