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Autore: Blablia87    23/02/2016    7 recensioni
[Omega!verse]
[Alpha!Sherlock][Omega!John]
Pezzi di una filastrocca come briciole di pane lasciate da un passato pronto a riscuotere la sua vendetta.
Genere: Angst, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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“Pensavo avessi smesso.” Disse una voce piatta alle sue spalle, e Sherlock non poté far altro che alzare gli occhi al cielo. Inspirò una grossa boccata dalla sigaretta che teneva tra le dita e si voltò verso il fratello, soffiando con voluta lentezza il fumo in sua direzione.
“Molto maturo.” Fu la risposta di Mycroft, che non poté esimersi dall’assumere un’espressione di disappunto.
“Cosa ci fai qui? Non è neanche l’alba.” Domandò Sherlock, tornando a rivolgergli le spalle. “Spuntino notturno?” Aggiunse, sogghignando.
“Divertente.” Fu il commento dell’altro, mentre copriva con passo lento e misurato gli ultimi metri che lo separavano dal fratello.
“Mi verrebbe da chiedere cosa faccia tu, in una caffetteria, a quest’ora. Ma immagino che sia compito di un buon Alpha prendersi cura del suo Omega.” Lo schernì il maggiore, accennando un sorriso compiaciuto.
“Non essere ridicolo.” Commentò Sherlock, caustico, buttando a terra la sigaretta e schiacciandola con la suola delle scarpe. “John non è qui.”
“Oh, ma c’era. È uscito meno di mezz’ora fa.” Ribatté Mycroft, senza scomporsi.
“È lui che cercavi? Ti sei ricordato qualche altro aneddoto sulla mia vita che vorresti raccontargli?” Sherlock si voltò verso di lui e gli lanciò uno sguardo carico d’astio.
“Più di accennargli alla tua dipendenza, non saprei davvero cos’altro fare.” Rispose il maggiore, estraendo dalla tasca del cappotto un portasigarette argentato.
“Pensavo avessi smesso.” Gli fece il verso il detective, con tono canzonatorio.
“Mi adeguo alla compagnia.” Disse l’altro, portandosi la sigaretta alla bocca e cercando l’accendino.
Sherlock allungò una mano e fece scattare il suo, che si stava rigirando tra le dita da quando aveva acceso la sua.
Mycroft diede un paio di boccate e poi soffiò il fumo in alto, tirando indietro la testa.
“Grazie.”
“È sempre un piacere aiutarti a farti del male. Anzi, perché non entriamo? Vorrei offrirti un pezzo di torta.” Rispose Sherlock, tagliente.
“La gente non capisce il nostro modo di scherzare.” Commentò il maggiore, a bassa voce.
“Non sto scherzando.” Disse il detective, senza nessuna inflessione nella voce.
“No. Infatti.” Mycroft si portò nuovamente la sigaretta alla bocca e diede un'altra boccata. “Neanche io.”
“Che cosa vuoi, Mycroft.” Sherlock si voltò completamente verso il fratello. “Non ho tempo per queste idiozie.”
“Sì, ho saputo del cadavere a Kensington. Non mi piace questa storia.”
“Quale, esattamente? Un Holmes che si muove tra tracce di sangue e pezzi di cervello, o il fatto che qualcuno abbia potuto deliberatamente ammazzare un uomo in uno dei parchi cittadini che, se non sbaglio, dovrebbero essere sorvegliati dalle tue telecamere?”
“Non mi piace che qualcuno sappia esattamente che quello è uno dei punti ciechi del circuito di sorveglianza.” Iniziò Mycroft, gettando a terra a sua volta il mozzicone di sigaretta. “E ancor meno mi piace che mio fratello giri tra sangue e parti anatomiche sparse.” Concluse, una leggera intonazione di tensione nella voce.
“Desolato che il mondo non giri come vorresti, fratello caro. Comunque era il contenuto della scatola cranica ad essere sparso. Il resto delle “parti anatomiche” era tutto al suo posto.” Sottolineò Sherlock, accennando un sorriso divertito.
“Trattengo a stento l’entusiasmo.” Ribatté Mycroft, facendo fare un mezzo giro sul puntale al suo ombrello.
“Come sai odio ripetermi, ma per te farò un’eccezione: cosa ci fai qui, Mycroft?” Sibilò Sherlock, spazientito. “Non ho nessuna intenzione di tornare a casa. Né di “rivedere le mie priorità.” E, nel caso avessi deciso di ampliare verso altri lidi le tue del tutto inopportune manie di controllo sulla mia vita no, non ho neanche nessuna intenzione di Legarmi al dottor Watson. Né ora, né mai.”
Il maggiore dei fratelli Holmes sospirò rumorosamente, continuando a rigirarsi il manico dell’ombrello tra le mani.
“Ho chiesto al dottore di controllare nei tuoi cassetti.” Commentò dopo qualche attimo, senza nessuna inflessione nella voce.
“Ne sono stato informato.” Rispose Sherlock, senza scomporsi. “Se può esserti di qualche giovamento, ha anche già assistito ad uno dei miei “viaggi”.” Aggiunse poi.
Mycroft si voltò ad osservarlo alzando un sopracciglio, una leggera aria di sorpresa sul volto.
“Hai fatto presto a mostrare il tuo lato migliore, quindi.” Disse. “E la sua reazione è stata…?”
“Mi ha gettato nella vasca da bagno e ha aperto l’acqua.” Rispose l’altro, con noncuranza. “Piuttosto antipatica come reazione, a mio parere.” Concluse.
“Non ne dubito. Dev’essere fastidioso svegliarsi da un viaggio sintetico sotto una cascata d’acqua.”
“Decisamente.” Confermò Sherlock, estraendo il cellulare dalla tasca e controllando l’ora.
“Si è fatto tardi. Mi perdonerai se ti abbandono per dedicarmi a quella “stupida inclinazione malata”- come ti piace chiamarla - che io definisco “la mia vita”.” Aggiunse, facendo qualche passo in direzione della strada.
“È decisamente un tipo interessante, il tuo coinquilino.” Gli disse Mycroft, rimanendo immobile ma alzando la voce quel tanto da essere sicuro di essere sentito.
“Stai forse per dirmi che lo approvi, sperando che solo per questo decida di cacciarlo di casa?” Chiese il detective, voltandosi a guardare l’uomo impettito alle sue spalle.
“Sto solo dicendo che forse, e ripeto forse, la sua presenza al tuo fianco non è poi così deleteria. Voglio dire… ti ha svegliato da uno dei tuo “viaggi”, e invece di venire sbranato e lasciato sul marciapiede davanti casa, ti sei preoccupato persino che mangiasse. Perché non eravate qui per te, dico bene? Tu non mangi, durante un caso.”
Mycroft gli rivolse un sorriso ironico che sembrava dire: “non puoi negare, ti ho colto con le mani nel sacco.”
“Oh, taci!” Gli rispose Sherlock, tagliente, scoprendo i denti. “Per quanto ne sai potrebbe essere stato lui a decidere di venire a mangiare qualcosa.”
“Ancora meglio!” Rise l’altro, senza allegria. “In quel caso saresti stato tu a decidere di assecondare una richiesta dalla quale non avresti tratto alcun giovamento, se non quello di fargli un piacere.”
“Fottiti.” Ringhiò Sherlock, la voce ridotto un rauco sussurro. “Ad ogni modo, entro stasera sarà fuori da Baker Street. Spero ne potrai godere, una volta tornato dietro la tua inutile scrivania.” Sputò fuori, velenoso, ogni parola un grumo di disprezzo. “Sii felice, Mycroft. Ancora una volta non mi riavrai con te, ma potrai gioiare nel sapermi il solito reietto.” Detto questo si voltò e si allontanò a passo svelto, le mani in tasca e la testa leggermente piegata in avanti per sfidare il vento gelido che si stava alzando.
Mycroft, ancora fermo nello stesso punto, sospirò e scosse la testa.
“E tu, ancora una volta, non hai capito niente, Sherlock.” Sussurrò, avviandosi quindi lentamente verso l’auto nera col motore acceso che lo aspettava subito dietro l’angolo.
 
Praticamente sdraiato sulla propria poltrona, le lunghe gambe stese fin quasi a lambire quella di fronte, Sherlock si appoggiò il violino contro il petto, pizzicando le corde con le dita.
Il suono sordo che sentiva vibrare lungo lo sterno lo aiutava a tenere la mente libera, come un metronomo di legno e carne nato dall’unione tra il suo corpo e lo strumento.
Aveva bisogno di pensare. Di concentrarsi sul caso. Di vagliare ogni aspetto, rivivere ogni momento, catalogare ogni indizio. Ma più di tutto, aveva bisogno di abbandonare la sensazione di nausea che non lo aveva lasciato un solo secondo dal suo rientro a casa.
Non avrebbe saputo dire esattamente per quanto tempo era rimasto fermo sulla porta, lasciando vagare lo sguardo per la stanza, mai tanto ordinata come negli ultimi giorni.
John si occupava di sistemare, quando poteva, e quando la stanchezza o il lavoro gli portavano via le forze, non mancava comunque mai di raccogliere i giornali che Sherlock lasciava sparsi sul pavimento, e di dare una veloce spazzata.
Lo aveva osservato, mentre compiva quei gesti semplici, ed era rimasto ogni volta sorpreso di come, pur svolgendo compiti che solitamente venivano visti come di appannaggio esclusivo degli Omega coinvolti in un rapporto, John li compisse senza perdere per un solo attimo il suo distintivo aspetto di “uomo libero”.
Aveva passato buona parte della sua vita a tenere a distanza gli Alpha, e a scegliere con cura le (poche) persone delle quali fidarsi, ma questo non gli impediva di cucinare per entrambi o di rassettare, anche davanti a lui. C’era più forza in quei piccoli gesti che nella scelta stessa di assumere inibitori e vivere liberamente la propria vita, e Sherlock non riusciva ad impedirsi, ogni volta, di seguire con gli occhi il suo coinquilino, per poi fingersi occupato non appena questi si voltava in sua direzione.
Era quindi rimasto lì, immobile sull’uscio, immaginando come sarebbe stata la sua vita dopo aver detto a John che non era più il benvenuto.
Sicuramente il medico avrebbe capito, anzi, probabilmente sarebbe salito a radunare le sue cose ancor prima che fosse lui a doverglielo chiedere, ma nonostante questo non riusciva a smettere di pensare che, in poco più di qualche giorno, si era abituato alla sua presenza nell’appartamento in un modo che non pensava possibile e che no, non avrebbe voluto vederlo andar via. Si rendeva conto che questo andava contro ai patti, alla logica, come era completamente cosciente che convivere con un Omega in pieno possesso dei propri ormoni avrebbe aperto la strada a degli scenari non solo “scabrosi”, ma persino pericolosi, per entrambi.
John doveva andarsene, non c’erano altre soluzioni. Ma, quando finalmente era riuscito a muoversi nella stanza ed aveva raggiunto la sua poltrona, lasciandocisi cadere sopra, si era reso conto che più del dover dire al medico che non avrebbero potuto più vivere assieme, iniziava a temere che non avrebbe avuto neanche quella possibilità. Forse non sarebbe semplicemente mai tornato a Baker Street. Forse, non avrebbe avuto l’occasione di vederlo un’ultima volta.
John era scappato dalla caffetteria perché si era accorto che stava accadendo qualcosa alla sua scia? Non poteva dirlo con certezza, ma sicuramente qualcosa lo aveva spaventato. Poteva essere legato a quel ragazzo? Alla scia di piena disponibilità che gli aveva rivolto? Sherlock lo trovava impossibile. Una reazione del genere per un motivo simile avrebbe significato che John provava qualcosa nei suoi confronti, che si era sentito minacciato dall’Omega in quel locale, e Sherlock non riusciva a vederla in alcun modo come una prospettiva plausibile. Per rendere la cosa possibile il medico, sotto inibitori, avrebbe dovuto provare scientemente qualcosa per lui, essendo privo delle reazioni “normali” di un qualunque Omega. Ma aveva ripetuto più volte di non essere in cerca di un Legame, ed in caso la scelta non sarebbe comunque mai ricaduta su di lui, Alpha. Sarebbe stato davvero troppo pensare che John avesse preso in considerazione una cosa simile.
Sherlock sospirò, facendo nuovamente vibrare le corde del suo violino.
Aveva sempre considerato i sentimenti un limite, ancor più dopo quello che era successo ai tempi delle scuole superiori. Qualcosa che ti si aggrappa addosso, come una malattia, portandoti via ogni cosa.
Quando lasci che qualcosa ti cresca dentro, quando dai a qualcun altro il compito di respirare al posto tuo, l’unica cosa che puoi ottenere è di perdere tutto.” Aveva scritto qualche giorno dopo il loro addio su uno spartito, prima di comporre l’ultima sonata a loro dedicata.
Non era stato un amore come quelli che, pochi anni dopo, avrebbe coinvolto quasi tutti i suoi compagni. No. Era stato qualcosa di totalizzante, di sbagliato. Non solo per il loro essere entrambi Alpha. Non solo per il fatto di essere due adolescenti con famiglie problematiche, che si sentivano oppressi nel loro ruolo appena acquisito nella società. Era stato infelice da ogni punto di vista. A partire dal Soma per arrivare al sesso, non c’era stato un solo aspetto di quel rapporto che non lo avesse lasciato ferito e sanguinante quando, per scelta di entrambi, era volto al termine.
Per anni Sherlock aveva tenuta ben chiusa quella parte della sua vita, lasciandola relegata ad un angolo della sua mente che visitava raramente, e solo dopo aver assunto Soma in quantità tale da non ricordarsene al risveglio.
E adesso, seduto in quello che fino a qualche giorno prima aveva definito sempre con orgoglio il suo salotto, sentiva che riuscire a riemergere dall’esperienza di averne fatto, anche se per poco, il loro, non sarebbe stato affatto semplice.
Il solo pensiero era destabilizzante, e Sherlock lanciò con un gesto di stizza lo strumento verso la poltrona di John.
“La poltrona di John.” Ripeté, dando voce al fugace pensiero che aveva avuto, e gli venne da ridere.
Nessuno, neanche Mycroft, sarebbe potuto entrare in quella stanza e dedurre che in quell’appartamento abitava anche un’altra persona. Niente, tecnicamente, poteva dirsi di John, tranne i suoi effetti personali, al piano di sopra.
Eppure…
“Maledizione!” Imprecò a mezza voce, alzandosi e cominciando a muoversi in cerchio per la stanza, con passi lenti.
Il killer. Devo pensare al killer.” Si ripeté, avvicinandosi al divano e lasciandocisi cadere sopra.
Alzò le gambe e si sdraiò, congiungendo le mani sotto al mento e chiudendo gli occhi.
“Ok allora, dal principio.” Sussurrò, serrando ancor più forte le palpebre e iniziando a mettere a fuoco la scena del primo crimine.
Ricostruì, dietro il buio dei suoi occhi, la sala da pranzo del signor Marston, riposizionando tutto esattamente come lo aveva trovato. Cancellò con un colpo di mano Lestrade, che nel suo ricordo era nuovamente fermo sulla porta, e posizionò il biglietto dove avrebbe dovuto essere: sotto il bicchiere alla destra dell’uomo chino sulla tovaglia.
Quando fu soddisfatto della scena ottenuta, di guardò attorno, allargandola nei confini. Accanto a quella stanza riprodusse la camera da letto di Molly Rogers, e la separò con un muro di vetro trasparente dalla cucina della vedova.
Infine, sotto ai suoi piedi, ricreò una piccola parte del lago artificiale, osservandolo allargarsi e riempire gli ultimi spazi bianchi lasciati nella sua mente. Visto così, il colpo d’occhio era quasi bello. Sembrava che qualcuno avesse portato un pezzo dei giardini di Kensington all’interno di un’abitazione dalla bizzarra distribuzione spaziale.
Sherlock si guardò attorno per qualche secondo, ritenendosi in fine soddisfatto.
Ricreò la sagoma dell’uomo del vicolo accanto alla scritta in cucina, e quindi incominciò a muoversi tra le varie scene, osservando nuovamente ogni particolare.
“Comunque con questo dovrebbe aver chiuso il cerchio, no?”
Le parole di John lo colsero di sorpresa, e si girò verso l’uomo disteso a terra, con un’accetta conficcata nel volto.
Il medico stava leggendo la scritta fatta con sangue, postura eretta e testa inclinata da un lato.
Dopo qualche secondo, si voltò verso Sherlock, accennando un sorriso.
“Cosa ci fai, qui?” Domandò il detective, avvicinandosi. Poteva percepire la sua scia anche da quella distanza, e si bloccò non appena la sentì farsi più intensa.
“Non capisco.” Rispose John, semplicemente, corrucciando la fronte.
“Non dovresti essere qui. Non ho richiesto la tua presenza.” Provò Sherlock, senza riuscire a impedire che l’odore dell’altro gli riempisse i polmoni ad ogni respiro.
“Mhm.” Commentò il medico, facendo spallucce. “Magari sono qui per quella storia dei “catalizzatori”.” Disse.
“No, sei qui perché c’è un bug nel mio hard disk.” Rispose Sherlock, tagliente, dandogli le spalle. “Devi andartene. La tua scia mi distrae.” Aggiunse, tornando verso la camera da letto della signora Rogers.
“Scia? Quale scia? Io assumo inibitori, non ho alcuna scia.” Commentò il medico, seguendolo.
“Sì che ce l’hai, l’ho sentita chiaramente nella caffetteria, oggi, e…” Voltandosi Sherlock trovò John così vicino che ebbe l’istinto di arretrare.
“Non ho scia.” Ripeté quello, meccanicamente, accennando un sorriso innaturale.
“Se avessi una scia, sarebbe un bel problema.” Continuò, senza inflessione nella voce.
“Infatti lo è. E te ne dovrai andare, per il bene di entrambi.” Rispose Sherlock, girandosi a guardare la donna stesa sul letto di fronte a loro.
“Di entrambi?” Domandò John, sorpreso. “Non capisco.”
“Non è importante che tu capisca. È così e basta.” Disse il detective, muovendosi verso la cucina e, le spalle all’altro.
“Sherlock!” Lo richiamò il medico, con voce spaventata.
“Non ho tempo, adesso.” Rispose il detective, avvicinandosi all’uomo del vicolo.
“SHERLOCK!” Urlò John, un terrore cieco ben chiaro nella voce.
“Mi chiedo perché mi ostini a immaginarti qu-“ Cominciò Sherlock, spazientito, voltandosi indietro.
La scena che si presentò ai suoi occhi lo pietrificò, mentre sul suo viso si dipingeva un’espressione atterrita.
John se ne stava premuto contro la parete di fianco al letto della signora Rogers, con lo sguardo disperato dell’animale braccato, mentre un uomo senza volto lo teneva fermo, immobilizzandolo con una mano stretta con forza attorno al collo.
Un atro gruppo di sagome scure, con volti sfuocati ma denti ben visibili, si stava avvicinando ai due, ringhiando sommessamente. In pochi attimi erano tutti attorno a John, che stava cercando con tutte le forze di divincolarsi dalla presa.
Se avessi una scia, sarebbe un bel problema.” La frase riecheggiò nella testa di Sherlock, mentre riapriva gli occhi, mettendosi a fatica a sedere sul divano.
Un conato gli risalì in gola, mentre metteva a fuoco, senza volerlo veramente, l’immagine di quegli uomini che si gettavano su John.
Se davvero la sua scia si stava svegliando, dopo anni di inattività totale, non c’era un solo posto in tutta Londra nel quale sarebbe potuto essere al sicuro.
Sherlock si alzò in fretta dal divano e recuperò il cappotto appeso di fianco alla porta.
Probabilmente quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto John Watson, ma anche in quel caso (anzi, soprattutto in quel caso) sentiva il bisogno di controllare che stesse bene.
 
Angolo dell’autrice:
Capitolo tutto incentrato su Sherlock e la sua reazione a quanto successo nella caffetteria (e non solo.)
Dal capitolo scopriamo che il nostro detective ha avuto una storia, in precedenza, ad esempio. Ho volto volontariamente lasciare la cosa appena accennata, per due motivi: perché è qualcosa che voglio sviscerare pian piano, a piccoli pezzi (avevo già iniziato a parlare di questo nel capitolo sull’assunzione del Soma, forse qualcuna se ne sarà accorta ^_^), proprio come appare nei pensieri di Sherlock, e perché sto meditando di fare una OS (legata a questa long) che mostri e racconti proprio quel rapporto. La cosa mi intriga per molti aspetti e motivi, ma non vi aggiungo altro perché rischierei di lasciarmi sfuggire qualcosa di troppo.
Scopriamo poi che Sherlock inizia a scendere a patti con una realtà che è sempre più palese: ha degli istinti di protezione verso John. Questo non gli impedisce di pensare che il medico se ne debba andare, anzi, in qualche modo rende quella prospettiva ancora più reale e “ineluttabile”. Ciò nonostante compie qualcosa che per una come lui è davvero un gran passo in avanti: decide di assecondare il suo istinto. “John può essere in pericolo, John ha bisogno di me, questo pensiero è mutuato dagli ormoni ma va bene lo stesso: devo cercarlo e assicurarmi che stia bene.” Tutto il resto è secondario. Così secondario da uscire da un Mind Palace completamente sistemato per poter pensare al caso, e andare a cercarlo.
Questo capitolo, come il prossimo e quello dopo, sono stati molto complicati da scrivere, per me. Si parla di istinti, di paure, ma anche di cambiamento. Trascrivere dei sentimenti così complessi non è facile, anzi. Farlo cercando di non snaturare personaggi in parte “non miei” lo è ancor meno. Spero di star facendo tutto al meglio, e che la storia continui ad incontrare il vostro favore.
 
Come sempre grazie a tutte/i per aver letto fin qui, e a chi lascerà un commento su questo capitolo. ^_^
 
Un saluto a tutte/i e…
Alla prossima!
 
B.
   
 
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