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Autore: Iridio89    24/02/2016    0 recensioni
Esattamente quindici anni e ventuno giorni fa, è iniziato un nuovo anno alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Durante lo Smistamento, il Cappello Parlante ha sondato le menti di una nuova generazione di studenti, scrutando nel loro cuore le loro fiamme di astuzia, coraggio, creatività e dedizione, ha stabilito quali tra queste fosse la più importante nella vita dei giovani maghi e ha collocato ognuno di loro nella Casa che avrebbe nutrito, raffinato ed elevato quella fiamma. Questo racconto seguirà le vicende di un piccolo gruppo di giovani studenti, ognuno dei quali dovrà fare i conti con le proprie paure, le proprie ambizioni, i propri difetti, i propri ideali. Dovranno applicarsi nei misteri della magia e fare delle scelte importanti tra ciò che è giusto e ciò che è facile, affinchè la propria fiamma arda più luminosa che mai. Perché il buio incombe e aspetta il più capace tra loro per dare una giusta e definitiva risoluzione all'enigma.
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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La parte più fredda degli inverni a Hogwarts iniziava qualche ora dopo l’alba, quando si sperava che il sole donasse un po’ di calore alla terra ghiacciata. Gli studenti fuori dal castello avrebbero avuto forti brividi di freddo nonostante la divisa invernale che era formata da un mantello a più strati, una veste calda e i guanti in pelle di Nero delle Ebridi. Ma dopotutto, nessuno studente avrebbe sfidato l’inizio dell’inverno a quell’ora del mattino.

“Stupide nuove uniformi … non tengono caldo un accidente!” pensava Duncan mentre si muoveva sul terreno roccioso coperto da foglie morte e strati consistenti di neve alti fin sopra le caviglie, rischiando di scivolare a ogni passo e salutando ogni scivolata con un’imprecazione degna di un elfo domestico ubriaco.

Era certo che quella sarebbe stata l’ultima giornata da passare nel suo angolo di pace senza rischiare di soffocare nel proprio respiro congelato. L’alternativa sarebbe stata quella di attendere fino alla primavera, al termine delle piogge che avrebbero fatto straripare le pozzanghere di neve sciolta al sole di fine marzo.

Scivolando sul pendio ghiacciato, fece gli ultimi due metri di discesa come uno sciatore dilettante e agitando le braccia come eliche; però riuscì a evitare di finire a pelle d’orso sul terreno. Ora si trovava a pochi metri dall’abitazione del professore di Cura delle Creature Magiche, Custode e guardiacaccia di Hogwarts. Mentre riprendeva l’equilibrio, notò che la porta della casetta stava aprendosi.

“No, no, no! Sarebbe capacissimo di appiopparmi una punizione se mi vedesse fuori dal castello a quest’ora!”

Trovò riparo dietro al muro di pietra che recintava il campo di zucche e l’abitazione dell’insegnante. Il gelo della pietra filtrava attraverso gli strati di vestiti che avrebbero dovuto tenerlo al caldo, aumentando il freddo mentre si rannicchiava contro il muro tra un grosso ceppo e un enorme cumulo di neve. Da lì poté osservare l’imponente figura del Custode uscire dalla capanna accompagnato dal suo immenso danese nero. In una mano impugnava un curioso ombrello a fiori, nell’altra aveva una pergamena spiegazzata. A giudicare dal fremito della sua cespugliosa barba, sembrava stesse borbottando qualcosa, ma il ragazzino era troppo distante per riuscire a capire. Sicuramente non gli si sarebbe avvicinato per ascoltare meglio. Perlomeno non con quel cane nelle vicinanze. Preferiva mantenere almeno sei metri di distanza da qualsiasi quadrupede canino, sia per paura, sia perché era allergico alla loro saliva.
Vide il Custode marciare verso il fitto della foresta, per poi fermarsi di colpo, come se fosse in procinto di voltarsi e tornare indietro. Duncan notò che portava una balestra agganciata al cinturone del pastrano.

“Se è così incerto, la foresta è pericolosa perfino per lui.” pensò Duncan. “Chissà cosa dovrà fare!”
Evidentemente il guardiacaccia doveva avere degli ottimi motivi in ballo, visto che di punto in bianco cominciò a correre verso l’interno della macchia d’alberi seguito dal suo compagno a quattro zampe.

Duncan aspettò qualche momento, giusto per essere sicuro che il professore non tornasse a causa di altri ripensamenti. Nel frattempo, tirò fuori dallo zaino un Calderotto alle castagne e lo addentò. Mentre masticava, gli parve di sentire un rumore di passi che passava dall’altra parte del muro dove se ne stava nascosto, ma quando si alzò per dare un’occhiata non vide nessuno, tranne qualche impronta sul terreno e un po’ di neve smossa lungo la strada di pietra che portava al castello. Pensò che poteva trattarsi di una volpe o di una qualche misteriosa creatura magica in grado di mimetizzarsi.

“Proprio come quegli alieni cacciatori nei film … meno male che non sono armato …” si disse tenendo lo sguardo fisso sul punto in cui il professore di Cura delle Creature Magiche era sparito.

Dopo aver ingollato un secondo Calderotto al miele, ritenne che fosse passato fin troppo tempo e che poteva rischiare di andare avanti, così proseguì lungo la capanna del guardiacaccia tenendosi vicino al muro che separava il parco dal campo di zucche, nel quale c’era un grosso Ippogrifo intento a dormire accanto a una ciotola piena di ratti morti. La vista del macabro pasto gli ricordò che non aveva portato nulla per Puck.

“Quanto può essere pericoloso un Ippogrifo al quale rubi del cibo?” si domandò coprendosi meglio il volto con la sciarpa.

Entrò nell’orto e avanzò a piccoli passi, ripromettendosi di non urlare qualora la bestia si fosse svegliata. Già si immaginava il rosso vivo di quegli occhi rapaci che si aprivano all’improvviso nel preciso istante in cui lui era in procinto di prendergli il cibo dalla ciotola.

“Ora si sveglia, mi molla una zampata e mi strappa le corde vocali, così non potrò neppure gridare. Poi mi caverà gli occhi con due … anzi no, con una sola beccata. Barcollerò come uno zombie gorgogliando sangue da bocca e collo e poi, inciamperò e cadrò sulla neve … colpendo con la faccia una parte di tagliola che mi trancerà a metà le gengive, i denti e la guancia. E lui mi strapperà in tante piccole beccate la spina dorsale … quando mi troveranno mi seppelliranno sotto il loro stesso vomito perché i miei resti faranno schifo e qualcuno si spezzerà una gamba scivolandoci sopra …”

Per Duncan, quell’immaginazione era ordinaria routine, affinata da decine di pessimi film dell’orrore diretti da frustrati Babbani che non badavano a spese se si trattava di macellare finta carne, colare finto sangue e far esplodere finte interiora. Quando suo padre non lavorava fino a tardi, il sabato sera lo passavano nel salotto a ridere di uno di quei film, condendo la trama con battute e grottesche osservazioni.
E poi, quello era un modo come un altro per mantenere a bada la paura e prepararsi al peggio.

Anche se il suo ego razionale voleva indietreggiare il più lontano possibile da quell’orto e dal suo tremendo guardiano, oramai era giunto così vicino da poter osservare le nuvolette prodotte dal respiro della creatura addormentata. Era davvero difficile non immaginarsi uno scatto improvviso della bestia contro di lui, magari accompagnato da una strimpellata acuta per enfatizzare il colpo di scena. Col cuore pulsante che sembrava intenzionato a spuntargli dal petto per tuffarsi in quella ciotola, Duncan riuscì ad afferrare ben tre cadaveri di ratto e un rimasuglio di ciò che poteva essere una faina o una lepre; poi, incredulo per la fortuna che finora gli aveva sorriso, si allontanò azzardando un passo più rapido per ogni metro che metteva tra lui e l’Ippogrifo. Quando fu abbastanza lontano dal campo, tirò un sospiro di sollievo e proseguì verso l’albero curvo al confine della Foresta Proibita, tenendo davanti a se la mano che reggeva le code dei roditori stecchiti.

Nonostante l’assenza di vento, neve o pioggia, il freddo riusciva a farlo rabbrividire ogni due passi. Ma la sua caparbietà sembrava dargli lo stesso effetto di una bevanda calda: voleva restare solo e tranquillo almeno fino all’ora del torneo, progettando di tornare giusto in tempo per non dare agli altri l’impressione che lui fosse un pessimo perdente.

“Casomai, quel babbeo di Moongard è un viscido vincitore … Sarebbe bello se Scott lo umiliasse a dovere.”

Finalmente era al suo albero: senza neanche una foglia sui rami, la forma ad arco del tronco era simile a una grande mano scheletrica che spuntava dalla terra mentre le foglie che avevano ceduto al peso della pioggia e delle prime nevicate formavano una coperta bruna e scricchiolante sul terreno selvatico.
“Sembra una pozza di sangue rappreso, più che un tappeto di foglie. Uhmmm …”

Dopo aver poggiato lo zaino e il cibo, si sedette alla sua solita postazione: a destra il parco e il castello illuminati dai freddi raggi di sole filtrati attraverso un oceano di nubi lattiginose, a sinistra il bosco e i suoi folti alberi oscuri che fondevano i raggi solari con i rami creando ragnatele di luce nel buio dominante.

Il ragazzino aprì lo zaino e frugò finché non tirò fuori il suo blocchetto per gli appunti, dove trascriveva idee e sogni per poi illustrarli su carta. L’ultima pagina conteneva i particolari di un tremendo sogno che aveva fatto proprio la notte del Banchetto avvelenato. Rileggendolo, notò che aveva trascritto ogni particolare, ma non c’era quasi nulla sulla parte finale del sogno, riassunta in un paio di parole sul modo in cui “appare una strana figura di nebbia”.

Decise di compensare quella debole spiegazione arricchendola con qualcosa inventato al momento, sperando in qualche particolare suggeritogli da Puck, qualora fosse giunto da quelle parti. Dato che non si vedeva, pensò di cominciare col tirar fuori i fogli e l’occorrente per disegnare.
Nel frattempo, il freddo aumentò.
 
***
 
Nella Sala Grande tutti gli studenti aspettavano impazienti la fase finale del torneo di duellanti; l’interesse generale non era rivolto ai campioni di ogni anno, ma al misterioso premio. I pettegoli di Hogwarts avevano fatto circolare le voci più inverosimili: carapaci di Fiammagranchio ingioiellati, uova di drago, la promozione immediata in tutte le materie, migliaia di galeoni o addirittura un viaggio attorno al mondo completamente spesato in cerca di tesori assieme agli Spezzaincantesimi della Gringott. Ogni anno di ogni Casa aveva il proprio diffusore di dicerie ma Clarence Mindstrel, mosso da spirito di generosità, sembrava volesse diffonderle in tutto il castello senza distinzione di Casa o anno. Per il momento, il suo pubblico al tavolo dei Tassorosso si riduceva agli amici del suo anno e a Kevin Nannyworth.
  • Oh! E si mormora anche della possibilità di avere biglietti gratuiti per tutte le partite della propria squadra di Quidditch! Per tre anni! In tribuna d’onore con i presidenti della squadra! Pensate …
  • Questa la conosciamo da ieri sera. – commentò Matilde che stava sfogliando la rivista “Vespaio Vittorioso”, dedicata alla sua squadra del cuore. – Dinne un’altra.
  • Ok! Questa viene dal bagno dei Prefetti: i vincitori tireranno a sorte tra di loro per poter passare un san valentino con la vice-Custode Elettra …
  • E le vincitrici con Mastro Greg. Andiamo Clarence! Questa qui è chiaramente una st … Scott?
Matilde si era interrotta vedendo l’amico in preda a un attacco di tosse più violento del solito. Scott fu costretto a coprirsi il volto per non sputare il succo di zucca che stava bevendo.
  • Ehi, tutto bene campione? – gli chiese guardando le macchie sul tovagliolo che non somigliavano affatto a succo di zucca o porridge.
  • Sopravvivrò. – gracchiò l’altro dopo essersi pulito la bocca col tovagliolo e averlo intascato. – Ma vorrei tanto sapere come riesce Duncan a starsene là fuori con questo tempo. Fa un freddo polare e potrebbe piovere o nevicare da un momento all’altro.
  • Durerà finché durerà – fece Kevin imitando Duncan. – Purtroppo per lui, durerà poco. Inizierà a nevicare tra circa diciannove minuti.
  •  E tu come lo sai? Hai usato una sfera di cristallo? – chiese Matilde con scetticismo mentre tornava alla sua rivista di Quidditch.
  • L’ha detto poco fa Andrew Barons, del sesto anno. Ai G.U.F.O. dell’anno scorso ha preso una E in Divinazione e una O in Astronomia. Tra mezz’ora avremo un Mattock da scongelare. 
  • In quanto Responsabile, non dovresti fare qualcosa del tipo cercarlo e portarlo dentro?
  • Matilde, un po’ di neve non ha mai ammazzato nessuno. – minimizzò Kevin. – Questa nevicata sarà sufficiente per farlo tornare al caldo. Fidatevi, non gli succederà niente d’irreparabile.
 
***

Man mano che la neve cadeva, le imprecazioni di Duncan crescevano, evolvendosi da quelle ridicole stile elfo domestico brillo, passando poi a quelle che proferirebbe un Lepricano quasi educato per poi arrivare a quelle che solo un goblin nell’angolo di un pessimo pub di Notturn Alley avrebbe potuto borbottare tra un boccale di Whisky Incendiario e l’altro.

Dopo aver rinunciato all’idea di utilizzare il mantello come una tenda sui rami dell’albero, Duncan si arrese a quella neve e provò ad affrettare i tempi. Aveva fatto in tempo a disegnare con le penne a sfera una bozza dell’albero ricurvo simile a una mano in putrefazione, poi era stato costretto ad accantonare l’idea di base per l’illustrazione del suo sogno ed era passato a qualcosa di più semplice, dato che l’inchiostro e quasi metà degli acrilici erano quasi congelati, proprio come il suo fondoschiena.

“Meno male che le penne a sfera funzionano ancora. Altrimenti l’uscita sarebbe stata uno schifo totale!”

L’idea che quella nevicata non sarebbe stata un problema era svanita nel momento in cui le sue spalle erano diventate molto fredde e troppo pesanti, così aveva provato a buttarsi sulla caricatura, piuttosto che su una vera e propria illustrazione. Il soggetto era talmente banale che perfino il più indulgente dei critici lo avrebbe esortato ad affatturarsi le mani: un fiocco di neve enorme e dettagliato dominava tutto il foglio, mentre tra gli aghi e i prismi tracciati con la massima delicatezza, aveva replicato le fasi più entusiasmanti del torneo di duellanti, in un caleidoscopico intreccio di immagini in bianco e nero che sarebbero sembrate vive e sovrapposte qualora il foglio da disegno fosse stato messo su un tavolo e fatto roteare a velocità crescente.

Non era il suo lavoro più originale e non era neanche un risultato che valeva il freddo e il tempo perso. Un po’ dispiaciuto per non aver incontrato Puck, Duncan firmò e datò i disegni, poi li ripose assieme alle penne nello zaino, si mise lo zaino in spalla e avvolse le spalle sotto il mantello. Lasciò i roditori oramai simili a ghiaccioli accanto all’albero e, con la speranza di un tempo migliore per il weekend successivo, si incamminò verso il castello.
  • Ehi! Imbrattacarte!
Duncan si sentì riscaldare come se un gavettone di brodo bollente l’avesse colpito in pieno petto.
  • Brutto muso! Ma dov’eri? – rispose voltandosi verso la Foresta.
Puck era lì, a una decina di metri oltre l’albero curvo, a fissarlo negli occhi mentre faceva avanti e indietro tra gli alberi. Duncan intuì che qualcosa lo rendeva nervoso, impaziente.
  • Ho la pappa buona per te! – provò a dirgli per incoraggiarlo ad avvicinarsi. – Anche se è più simile a un mucchio di ghiaccioli gusto ratto. – aggiunse sottovoce.
  • Dopo! Seguimi! Forza!
Quelle tre parole, ringhiate senza preamboli, lo stupirono parecchio. Entrare nella Foresta Proibita? Da solo? O meglio, assieme a un Jarvey che era più umorale di lui? Lo trovava simpatico, certo, ma se avesse potuto scegliere una creatura magica sulla quale fare affidamento, avrebbe preferito un Kneazle o perfino uno gnomo. Però non credeva affatto che Puck volesse condurlo in mezzo a un pericolo. Magari voleva fargli vedere qualcosa di interessante. Quello, o farlo perdere tra gli alberi.

“Manca ancora qualche ora all’appuntamento!” pensò Duncan guardando il suo orologio. “Male che vada, potrei vedere qualche Centauro e magari mi regala anche qualche freccia. Incartandola con le mie chia …”
  • Imbrattacarte! Muoviti! Forza! – ringhiò Puck agitando la coda.
  • Va bene! Ora entro!
Con un sospiro e la speranza di uscirne vivo, Duncan entrò nella Foresta.
 
***
 
  • E lui avrebbe fatto cosa?!
  • Lo ha seguito. È rimasto su a pensarci per un po’, poi è entrato senza neanche voltarsi indietro.
Con rabbia crescente, si affacciò alla finestra e fissò intensamente la Foresta Proibita, come se riuscisse a scorgerlo in mezzo agli alberi e a fulminarlo con lo sguardo. Non aveva molto tempo a disposizione, ormai.
  • Non può ficcanasare proprio ora, accidenti a lui! Trovalo. Fa in modo che torni indietro. E se dovesse capire qualcosa, fa in modo che non torni mai più.
La frase fu terminata con una freddezza tale da spegnere tutte le torce di quel corridoio.
 
***
 
  • Sarà anche proibita, ma tolta la pessima fama non sembra così terribile come la dipingono, Puck.
Il Jarvey non rispose. Da almeno una decina di minuti, si era limitato a farsi seguire attraverso la vegetazione fitta da un Duncan sempre più stanco e infreddolito. In certi punti la neve formava enormi cumuli a causa dei rami soprastanti che avevano ceduto al suo peso, facendola cadere tutta in una volta.
  • Puoi almeno dirmi cosa vuoi mostrarmi? – chiese più per interrompere quel silenzio che per soddisfare la sua curiosità.
Come le precedenti sei volte, Puck non glielo disse. E questo lo fece irritare ancora di più.
  • Ti avverto – provò a minacciare. – ora ti seguo ancora per qualche minuto, poi torno al castello. Qui rischio più di una semplice punizione.
  • Basta cianciare qui! Pericolo di morte!
“Pericolo di morte? Non vorrà mica farmi vedere quei ragni giganti di cui mi ha parlato?” pensò Duncan valutando l’idea di voltarsi e scappare.
  • Non conviene tornare da solo! Molto peggio! – ringhiò Puck come se gli avesse letto nel pensiero.
Duncan continuò a seguirlo in silenzio. Non voleva certo morire. Tuttavia si ripromise che in futuro non avrebbe rischiato così stupidamente l’osso del collo senza prima sapere di cosa si trattava.

Per quasi cento metri, il ragazzino continuò ad arrancare tra neve e radici che rischiavano di farlo cadere; dopo una ripida discesa giunsero in un avvallamento ampio quanto il dormitorio, circondato da un muro di alberi che si curvavano verso il centro, come fossero entrati in una gotica cappella arborea, dove la luce non filtrava tra le vetrate ma tra i rami scuri. Sembrava un punto tranquillo; tuttavia, Duncan si bloccò e iniziò a frugare nello zaino in cerca della bacchetta. Aveva visto troppi film per ignorare il significato delle macchie rosse sul cumulo di neve e fogliame.
  • Puck. Quel sangue … di chi è? – chiese Duncan temendo da un momento all’altro un colpo tra capo e collo. La bacchetta tremava
  • Mezzo brocco! Lì! – fece il Jarvey puntando col muso verso il grosso mucchio di fogliame e neve sporca di sangue.
Guardandolo meglio, a Duncan mancò il respiro: quella che sembrava una montagnola di neve era la metà inferiore di un cavallo dal pelo color alabastro. Il corpo proseguiva con un pallido torso umano pieno di ferite e sangue. Duncan non aveva il coraggio di guardarlo in faccia. Non riusciva neppure a muoversi.
  • Puck! È un Centauro … morto. Perché mi hai portato qui? – chiese rivolto al Jarvey con un filo di voce tremante. La bacchetta minacciava di scappargli dalle dita. – Cosa lo ha ucciso?
  • Mezzo brocco mezzo vivo! Ancora un po’! – sbottò Puck avvicinandosi al Centauro, che in effetti raspava il terreno con uno zoccolo e questo sembrava costargli uno sforzo enorme.
“Sono nella Foresta Proibita accanto a un Centauro che ha uno zoccolo nella fossa e tre su ghiaccio sottile. Ma che bel fine settimana!” pensò Duncan mentre si scervellava nel pensare a qualcosa d’intelligente per uscire da quella situazione.
  • Oh … ehm … ci sono! Il Custode! Lui saprà cosa fare, no? Potremmo cercarlo e dirglielo.
  • Bene! Lo cerco! Stai qui! Aiutalo!
Duncan non ebbe neanche il tempo di obiettare. Puck era già sparito nel folto innevato della vegetazione. Lasciandolo solo e col rischio di assistere a qualcosa di peggiore della morte di un Centauro.
  • Va bene. Cos’è che posso fare, cos’è che posso fare … – iniziò a chiedersi andando avanti e indietro per quella radura. Avrebbe potuto mettersi le cuffie per sciogliere la tensione, ma preferiva rimanere sul chi vive, giusto per accorgersi di chi l’avrebbe accoppato.
Confuso e incerto, pensò che avrebbe dovuto almeno togliersi il mantello e provare a metterlo addosso al ferito, ma non osava avvicinarsi. Non riusciva neanche a guardarlo. L’idea di avvicinarsi a un Ippogrifo sveglio era più allettante. E se quel che aveva colpito il Centauro avesse colpito anche lui? E se fossero arrivati altri Centauri e l’avessero incolpato? In quel caso quanto potere aveva la Preside su di loro?

Si immaginò processato e condannato da un tribunale di Centauri e immaginò decine di modi di morire: infarcito di frecce fino ad assomigliare a uno Knarl, oppure calpestato con gli zoccoli fino a diventare una massa informe sul terreno, oppure legato mani e piedi a dei Centauri e tirato in quattro direzioni diverse. Nell’ultimo caso, forse avrebbe smesso di essere l’alunno più basso del suo anno.
  • Sete.
Duncan trasalì come colpito da un fulmine. Il Centauro aveva parlato!
  • Ho … sete … sete. – mormorava con voce fioca, simile a un ruscello morente.
Mentre frugava nel proprio zaino, il ragazzino si sentiva come una marionetta sostenuta e manovrata dai fili di una volontà distante secoli dal suo corpo e dalla sua mente. Se fosse stato appena più lucido, probabilmente sarebbe rimasto immobile in quella radura per il resto dei suoi giorni. E invece, movendosi a scatti come un automa, tirò fuori un thermos pieno di the, lo aprì e si avvicinò al Centauro.

Inginocchiatosi accanto al volto imberbe ed esangue, gli portò alla bocca la mano tremante che reggeva il thermos e lo aiutò a bere. Il piccolo Tassorosso era tanto spaventato che sarebbe bastato il tocco di una foglia sulla testa per fargli crollare i nervi e spingerlo a dare di matto, fuggire senza una meta precisa, gridare e attirare l’attenzione di ogni forma di vita nascosta tra quegli alberi.

“Mai più nella foresta. Se ne esco vivo, non ci rimetterò mai più piede, cascasse il mondo!” pensava con lo sguardo perso nel vuoto e al contempo fisso su un punto del terreno dove c’erano un arco e una faretra.

Quando il Centauro cessò di bere, Duncan riuscì a trovare le forze per sfilarsi il mantello e poggiarglielo sulle sue spalle eburnee, poi si allontanò di qualche passo e si sedette accanto a un albero, aggrappato alla speranza che Puck sarebbe tornato al più presto. Provò a mangiare qualche Ape Frizzola, ma a metà sacchetto gli parve di avere un alveare nello stomaco, perciò aprì un sacchetto di Calderotti al liquore e iniziò a mangiare nervosamente. Aveva lo sguardo nella direzione in cui Puck era sparito e pregava mentalmente affinché tornasse assieme al professore di Cura delle Creature Magiche. Era disposto a perdere qualche punto pur di uscire da quella spaventosa situazione. Un rumore simile a un colpo di fucile di fucile lo fece sobbalzare e gli cadde di mano l’ultimo Calderotto. Era quasi certo che quel rumore provenisse da un punto poco lontano da lui, al di sopra di quel ripido avvallamento dove chiunque sarebbe potuto saltargli addosso. Ma perché aveva deciso di seguire Puck?
 
***
 
Dopo essersi sistemata la cravatta, Jennifer posò lo sguardo su Sophie che stava ancora a letto.
  • Te l’ho già detto, Jenna. Non mi interessa.
  • Ma perché non vuoi venire a vedere? – le domandò sedendosi sul suo letto e iniziando a scuoterla insistentemente. – Ieri non hai corso alcun rischio.
  • Non ho proprio voglia di alzarmi, stamani. – fece Sophie dandole piccoli calcetti da sotto le coperte decorate da piccoli serpenti d’argento. – Preferisco pisolare fino all’ora di pranzo. La Direttrice ha detto che dopo il torneo potrò uscire per il resto della giornata. Così mi direte quali sono stati i vincitori e cosa diavolo hanno vinto.
  • E non vuoi dare il tuo sostegno a Scott, Bridget e Clarence? Potremmo chiedere a Shubby di …
  • Shht! – la zittì Sophie indicando alle spalle dell’amica.
Dietro di lei c’era Allyson Hargrove, cupa come sempre e intenta a pettinarsi davanti a uno specchio posto tra due enormi vetrate con vista su uno splendido giardino di alghe nel fondo del Lago. Sophie fece cenno a Jennifer di avvicinarsi a lei.
  • Spiegami di nuovo com’è riuscita a lasciarsi battere da Mattock. Poteva strillargli addosso come una banshee infuriata. L’avrebbe fatto morire di paura.
Come sempre, non si preoccupò di abbassare troppo la voce, ma sembrava che Allyson non avesse sentito nulla, così Jennifer le rispiegò sussurrando il duello della sera precedente.
  • Ha cercato di buttarlo giù con getti d’acqua, poi ha congelato le pozzanghere per farlo cadere …
  • Un Flipendo dritto in faccia le rovinava l’immagine, vero? – mormorò Sophie alzando le coperte smeraldine fino sopra al naso. Nonostante gli opprimenti colori, erano davvero calde e morbide.
  • Per te è facile, signorina campionessa. – sbuffò Jennifer. – Ma avresti dovuto vederlo: saltava come un grillo e a un certo punto le ha sparato una Tarantallegra e a quel punto è riuscito a vincere.
  • E si sarà anche esaltato al massimo. Ah … se ci fossi stata io! – si lamentò l’amica da sotto la coltre di coperte e lenzuola. – Non avrebbe visto cosa lo colpiva neanche se avesse usato un Omniocolo col rallentatore! E senza usare trucchetti come Moongard! E Mindstrel è stato bravo come dicono?
  • Il Grifondoro che ha duellato con lui ha dovuto tenere i fazzoletti al naso per tutta la durata della cena. – sorrise Jennifer. – Gli altri tre duelli li ha vinti per un soffio, ma non aveva niente da invidiare a Gladstone, in quanto a velocità. Parlando di velocità, dovrò sbrigarmi se vorrò prendere un posto in prima fila. Allora? Sei proprio sicura di voler restare qui con … lei?
Aveva sussurrato l’ultima parte di quella domanda, spostando lo sguardo in direzione di Allyson che non aveva ancora finito di pettinarsi.
  • Vai tranquilla. Se Mattock l’ha battuta, sarebbe più pericoloso trovarmi da sola con una Puffola Pigmea. – constatò Sophie riemergendo dalle coperte.
  • Allora ci vediamo a pranzo! Non vegetare là sotto! – la salutò Jennifer dandole una cuscinata prima di alzarsi e andare ad assistere gli amici al torneo.
Dopo un po’, anche Allyson si alzò per uscire. Passò qualche secondo, durante il quale Sophie si assicurò di essere assolutamente sola nel dormitorio, poi scattò giù dal letto e si vestì mettendoci meno di dieci secondi. Dopotutto, aveva già indosso l’uniforme; le bastò indossare i guanti in pelle di drago, infilare le scarpe e tirare fuori dall’armadio il mantello per le uscite invernali. Quando fu pronta, sfilò la bacchetta da sotto il cuscino e si mise in un angolo della stanza.
  • Shubby.
In uno scoppio d’aria, il gracile elfo domestico fu davanti a lei.
  • Eccomi qui, signorina Sophie. – trillò con voce simile a un campanellino.
  • Allora? – domandò la ragazzina con tono impaziente. – L’hai trovato?
 
***
 
Duncan aveva trovato il modo per ingannare il tempo, anche se non proprio corretto: per non pensare al freddo e alla paura di trovarsi nello stesso luogo di un potenziale pericolo, il ragazzino aveva iniziato a frugare nella faretra del Centauro ferito. Tastò la punta di un paio di frecce e provò a metterne una dentro al suo zaino, ma avrebbe dovuto spezzarla per farla entrare. Poi notò una freccia dall’asta più corta delle altre. Poco precisa per un buon tiro con l’arco, ma perfetta per entrare nello zaino. Ora aveva un bel souvenir da mostrare a Scott e agli altri quella sera al Circolo.

“Sempre se uscirò vivo da questa foresta, accidenti a Puck!” pensò giocherellando con le corde di riserva dell’arco. “E questo cos’è?”

Nella faretra c’era una piccola tasca interna, semi aperta e con dentro alcune punte di frecce e una pietra nera con una spaccatura nel centro.

“Punte di riserva e una pietra per affilarle, immagino. Includiamole come pagamento per il freddo che sto passando, tanto ne troverà altre come questa.” si disse con fare sprezzante, tornando per un attimo ai vecchi modi da Tasso Turbolento.

Mentre riponeva la pietra e due punte nello zaino, tastò l’asta della freccia che aveva preso poco prima.

“È così spessa, che sem …”
  • Tornerà …
Duncan trasalì per la seconda volta, in quella mattinata decisamente avversa.

“Se n’è accorto … e ora?”

Chiedendosi quanto potesse essere pericoloso un Centauro ferito e delirante, Duncan cercò nello zaino le cose che aveva trafugato per poterle rimettere nella faretra, ma poi vide che l’altro aveva ricominciato a parlare e si ritrovò ad ascoltarlo.
  • Marte nel cielo urla furioso … l’ultima guerra vuol vendicare. Il ricco Plutone … ne abbraccia la causa … il fuoco oscuro che dorme nella terra … tra pietra e magia. L’ultimo … indovinello può svegliarlo, una fenice può domarlo … solo un animo nero può spegnerlo. Nel profondo della terra … tra pietra e magia.
Duncan ascoltava quelle parole con aria confusa. Stava delirando o era l’ennesimo discorso astratto tipico di quella razza per dirgli che il giorno dopo avrebbe grandinato?

Quando il niveo Centauro girò il capo nella sua direzione, gli occhi simili a lucenti chicchi di melograno fissarono quelli di Duncan, facendolo sentire proprio come in un film dell’orrore.
  • Giovane mago. – mormorò con voce calma. – La mia faretra …
Forse voleva controllare qualcosa che in quel momento poteva trovarsi nella sacca di Duncan. E lui era certo che non sarebbe riuscito a rimettere nulla a posto mentre il proprietario lo stava fissando, perciò obbedì e cercò mentalmente delle buone e sincere scuse per giustificarsi, ma non gli venne nulla di convincente.

Quando si fu avvicinato con la faretra tra le mani, il Centauro serrò i denti nello sforzo di flettere il busto, puntellandosi sul braccio tremante. I muscoli guizzavano sulla pelle pallida e del sangue uscì dalle ferite. In pugno stringeva un pezzo di legno nodoso lungo due palmi. Duncan cercò di porgergli la faretra, ma l’altro fece cenno di no con la testa.
  • Devi seppellirla, subito. Non c’è … molto tempo. La sta cercando. Seppelliscila subito, lì. – mormorò indicando col ramo nodoso un punto di terriccio accanto a un vecchio albero.
Il piccolo Tassorosso si sentiva sempre più terrorizzato. Chi o cosa stava cercando quella sacca? Come avrebbe fatto a scavare una fossa abbastanza profonda? E se l’avesse infilata sotto la neve? Guardò il Centauro con smarrimento.
  • Io … devo scavare accanto alle radici? Oppure c’è …
Duncan s’interruppe con un grido di paura quando sentì un botto alle proprie spalle. Qualcosa gli cadde sulla schiena. Poco dopo, si voltò nella direzione in cui c’era stata l’esplosione e vide terriccio sparso sui cespugli e sulla neve. Accanto all’albero indicatogli dal Centauro ora c’era una buca.
  • Lì dentro, buttala lì dentro. – sospirò il Centauro con trepidazione.
Senza fiatare, Duncan si alzò e buttò velocemente la sacca nella fossa. Mentre cercava di riempirla, vide che la terra attorno ai bordi si mosse e in un momento fu come se la fossa non fosse mai esistita, coperta nuovamente da terra e neve. Alzando lo sguardo, vide il Centauro col braccio disteso nella sua direzione e il ramo nodoso puntato verso il punto in cui c’era la fossa. Era certo di avergli visto compiere un movimento col braccio armato di ramo.
  • Quella è … una bacchetta? – chiese Duncan incredulo e sconcertato. I Centauri usavano la magia?
  • Devi andartene via, ora. Può arrivare. Da un momento all’altro. Non deve trovare la faretra. Non deve trovare te. – scandì il Centauro reprimendo il dolore. – Vai via. Torna al castello. Scappa!
Duncan avrebbe voluto chiedergli chi stava arrivando. Avrebbe voluto accertarsi che il Centauro sopravvivesse. Avrebbe voluto rimanere lì e aiutarlo ad allontanarsi. Invece colse al volo quell’ordine e corse nella direzione in cui si era sparito Puck.
 
***
 
Si sentì molto meglio quando vide la sacca sparire sotto il cumulo di terra. Quel piccolo puledro era tanto spaventato che probabilmente sarebbe riuscito a mettersi al sicuro. Magari si sarebbe imbattuto nel guardiacaccia o nel suo forte fratello e in quel caso nessun pericolo avrebbe più potuto raggiungerlo.
Un soffio di vento gelido sollevò il fogliame, gli alberi ulularono e una sensazione di solitudine si impossessò di lui. Seguita dalla paura. Qualcuno era molto vicino.

“Non morirò implorando! E non lascerò che il volere cosmico infligga altre ferite su questa terra!” pensò mentre la tipica ferocia della sua razza si impossessava del suo pacifico cuore.

Lo sentiva avvicinarsi. Strinse la bacchetta. Almeno uno di loro non avrebbe lasciato vivo quella radura coperta da freddo e oscurità.
  • Nonostante i doni che il cielo ti ha dato, non sei mai stato molto intelligente, Astilio. – sentenziò una voce mesta alle sue spalle.
 
***
 
In preda al panico, Duncan correva a perdifiato tra gli alberi. Aveva lasciato aperto il suo zaino ed era quasi certo che alcuni acrilici fossero caduti per terra quando era quasi inciampato tra le radici che sporgevano dalla fredda terra innevata; nonostante tenesse molto ai suoi colori, preferiva certamente conservare vita e salute mentale il più a lungo possibile.

Pensieri rancorosi erano rivolti a Puck tra un’imprecazione e l’altra, ma non osava urlare. Non in quella spaventosa foresta. Tanto era a corto di fiato. E non sapeva neppure se era vicino all’uscita oppure no.

Un paio di volte credette di udire rumori di foglie calpestate da passi non suoi, nitriti rabbiosi e grida disumane; nulla che lasciasse presagire qualcosa di buono per lui. Non gli interessava scoprire cosa accadeva in quel posto. Non voleva neppure capire se quella cacofonia di rabbia e paura era reale o un semplice frutto creato dalla suggestione. Non era la sua avventura. Voleva solo raggiungere il castello, rifugiarsi nella sua Sala Comune e mettersi sotto le coperte del suo letto, con la speranza di essere al sicuro da qualunque cosa aleggiasse in quella foresta. Ciò che vide lo fece raggelare ancora di più: poco per volta, sembrava che i pochi raggi di sole che attraversavano gli alberi stessero diventando più fiochi, meno luminosi, fin quasi a svanire del tutto. Dopo pochi metri, si ritrovò quasi come se fosse calata una notte priva della luce di luna e stelle. Il vento cessò di ululare. I rumori della foresta si smorzarono. Non nevicava più.

Duncan aveva iniziato a camminare lentamente, non per paura di incagliare i piedi tra le radici, ma per il timore di fiondarsi in un buio ancora più profondo. All’improvviso si fermò come se qualcuno l’avesse afferrato per la collottola. L’istinto lo esortò a nascondersi dietro alcuni alberi, tra l’alta vegetazione. Si rannicchiò contro il tronco di uno di essi e aspettò che il peggio lo cogliesse. Tutto era silenzio.

Fissava una foglia morta sul terreno col timore di condividere il suo destino. Avrebbe voluto chiudere gli occhi ma credeva che se l’avesse fatto, quando li avrebbe riaperti avrebbe visto il suo corpo riverso accanto a quella foglia e avrebbe vagato in eterno tra quegli alberi come uno spettro tormentato. Ma in quel freddo e placido mare di paura, c’era un lucido pensiero che emergeva come un minuscolo scoglio caldo e luminoso, quasi come un ricordo. La crescente oppressione, il buio quasi innaturale, il freddo mordente, il silenzio repentino e il timore di chiudere o di aprire gli occhi. Nulla di tutto ciò gli era nuovo.

“La mattina delle armature … in quel corridoio!” pensò stupefatto per aver dimenticato un evento del genere. “E poi …”

In quell’istante, ciò che era certo di aver dimenticato tornò nella sua mente. Ricordò la sbirciatina che dette all’aula dove si teneva la lezione eterna di un professore fantasma e questo gli fece ricordare l’incontro col Frate Grasso, gli iniziali rimproveri e la sua approvazione per il buon lavoro che aveva svolto nel lucidare le armature. Si ricordò perfino delle figurine che aveva trovato nelle Cioccorane che si era mangiato! Tutti fatti precedenti al momento in cui, mentre tornava al dormitorio, si era ritrovato in un corridoio le cui torce si erano spente all’improvviso, lasciandolo al buio e con l’inspiegabile timore di fare una brutta fine.

Quel tremendo momento cessò all'improvviso e Duncan ricordò di aver minimizzato l'accaduto mentre si dirigeva verso l’ufficio del Custode Greg per restituire gli arnesi di pulizia. E ricordò di aver visto il Custode nell’ufficio. In ginocchio.

Di fronte a quello. E al suo volto. Ecco un ottimo motivo per il quale il suo cervello aveva rifiutato di fargli tornare in mente quella mattinata. Il solo pensiero di quel volto lo fece sentire come in una bara.

Preso da quei sinistri ricordi, non notò immediatamente il cambiamento nell’aria. Ora sentiva di nuovo il fruscio del vento tra le fronde, i naturali rumori del bosco, un lontano scalpiccio di zoccoli e il consueto freddo che chiunque proverebbe se si raggomitolasse in mezzo alla neve.
Tuttavia, il timore lo teneva ancora all’erta. Collegò ciò che aveva visto nell’ufficio al qualcuno o al qualcosa che probabilmente aveva ferito il Centauro e che intendeva prendere la faretra e che poteva trovarlo.

“Un motivo sufficiente per non restare qui … forza stupido Mattock, muoviti. Alzati!” si disse cercando di incoraggiarsi a fare di tutto per uscire da quel dedalo di alberi e oscurità.

In un baleno fu di nuovo in grado di camminare. E di correre.
 
***
 
Mancavano solo tre duelli alla fine del torneo e, nonostante fossero studenti del primo anno, le sedie della sala erano occupate da un nutrito numero di sostenitori di tutte le Case.

C’erano le riserve e i giocatori di Quidditch dei Grifondoro, soddisfatti per le tre vittorie ottenute dal loro capitano Dennis Canon e dai Battitori Algie Wallace e Nicholas Hangermoor. I Corvonero erano appena una dozzina e più della metà di loro neppure conosceva Bridget Bowen, unica vittoriosa della loro Casa. Anche i Serpeverde godevano di un’unica vittoria: un’energica ragazza del quinto anno che sedeva in disparte, scrutata dal Caposcuola Horehound, unico spettatore della sua Casa. Il suo sguardo di disapprovazione però sembrava sortire l’effetto contrario, dato che la ragazza ostentava uno sdegnoso distacco.
  • Jennifer, come mai il vostro Caposcuola non sembra molto contento? Se Moongard perde, lei potrebbe essere la vostra unica campionessa. Voleva forse tutti i Serpeverde sul podio?
  • Ti ricordi come si chiama quella campionessa, vero Mayfield? – si intromise Lester Napier.
  • Il padre di Andra è ad Azkaban. Era uno di loro. – aggiunse Jennifer enfatizzando il loro in modo tale che perfino un Troll potesse capire.
  • Ah … quindi i Serpeverde si sono ridotti a emarginare i loro stessi compagni invece dei Nati Babbani? – chiese Matilde scuotendo la testa con disapprovazione. – Solo perché suo padre era … quel che era, questo non la rende … quel che era suo padre, no?
  • Non conosco personalmente Andra – spiegò Lester. – ma secondo le chiacchiere di dormitorio lei è la tipica Serpeverde orgogliosa del sangue puro e delle opere fatte contro i Nati Babbani e i loro protettori. E sembra anche che sia fiera dell’opera di suo padre e … di quelli come lui.
  • Io ho sentito dire che il professore di Cura delle Creature Magiche ce l’ha con lei per via di suo padre. E durante le lezioni non le permette di avvicinarsi agli animali perché dice che potrebbe ferirli o peggio, proprio come faceva suo padre. – s’intromise Trevis.
  • Un professore non dovrebbe comportarsi così! – protestò Matilde.
  • Oh, è sempre stato un tipo parziale! Per lui tutti i Serpeverde sono marci e cattivi, i Corvonero arroganti cervelloni, i Tassorosso anonimi mollaccioni e i Grifondoro il meglio del meglio.
  • Attento Trevis, stai iniziando a parlare come Mattock! – lo derise Jennifer. – A proposito, non è ancora tornato, vero?
Matilde scosse la testa. In pratica, Duncan era l’unico assente della sua Casa. In quel momento, nonostante si trattasse di duelli da principianti del primo anno, tutti i Tassorosso sostenevano Scott e Clarence proprio come avevano sostenuto e acclamato Horatio Balm del settimo anno. Entrambi attendevano sul palco assieme agli altri due contendenti, nella speranza che il Sortilegio Sorteggiante non li mettesse l’uno contro l’altro proprio nella semifinale. Clarence Mindstrel era visibilmente teso, mentre Scott ostentava un’aria tranquilla. Matilde intuì che stava cercando Duncan tra la folla.
  • Probabile che sia ancora impegnato a fare quel che fa durante le sue passeggiate nella Foresta.
  • Sophie lo aveva seguito, qualche mese fa. – ricordò Jennifer. – A te ha detto nulla di quel che faceva?
  • No. E a te?
Jennifer scosse la testa. Nel frattempo, la professoressa Woolgrim aveva dato il via al duello tra Clarence e Rebecca Guildrose.

Quest’ultima marciò lungo la pedana in maniera elegante e, resasi conto che il suo fascino non avrebbe incantato Clarence, cominciò la tattica della pioggia di scintille sparata da ogni lato.

Da parte sua, Clarence doveva avere acquisito una buona dose di sicurezza, perché non perse tempo e cominciò ad avanzare tra le scintille, tenendo il capo basso come un mulo testardo che prosegue contro un temporale. Puntava alla direzione dalla quale la pioggia di scintille era più forte e alzò la bacchetta strillando rapidamente un Flipendo seguito dalla maledizione delle caccole; entrambi pronunciati come un unico scioglilingua, sparati in due direzioni differenti. Quando le scintille cessarono, sostituite da violenti starnuti, il lato dei Corvonero levò un coro di delusione e scontento. Ancora una volta, Clarence aveva “smoccolato” l’avversaria. Mentre fumo e scintille si dissolsero, rivelando Rebecca che aveva tirato fuori un fazzoletto dalla tasca.
In quel momento, Clarence abbassò la guardia e tutti si resero conto del grave errore che aveva fatto. Rebecca gli puntò contro la bacchetta.
  • Locomotor Mortis!
I Corvonero si erano alzati in piedi per esultare mentre le gambe di Clarence si unirono come se un laccio le avesse legate insieme. Rebecca fece per sparargli un’altra fattura, ma un violento starnuto le impedì di pronunciarla. Questo bastò a Clarence che tese il braccio armato di bacchetta, mormorando qualcosa che nessuno era riuscito a udire eccetto Rebecca, dato che assunse un’espressione spaventata. Dalla bacchetta partì un tremendo scoppio e un fascio di luce verde la colpì in pieno petto, facendola cadere a terra. Quando si rialzò, era livida in volto. Provò a sparare un attacco con la bacchetta ma, in preda alla maledizione delle caccole, starnutì violentemente. Nel farlo, una lumaca le uscì dalla bocca. E l’intero castello fu scosso dalle sue grida e dalle risate di tutti i presenti.

Impiegarono quasi venti minuti per placare gli studenti nella sala e per riuscire ad afferrare Rebecca Guildrose che correva lungo la pedana in preda all’isteria, singhiozzando, starnutendo e vomitando lumache. Con un colpo di bacchetta, la Woolgrim fece Evanescere le lumache e la bava dalla pedana.
  • Portatela in infermeria … e chiamate Mastro Goyle per pulire. Ehm, allora! Il penultimo duello è tra Orpheus Moongard e Scott Williamson. Non preoccupatevi, il palco è asciutto ora! – esclamò la professoressa di Storia della Magia. – Coraggio, proseguiamo!
 
***
 
Duncan proseguiva la sua fuga, sicuro del fatto che prima o poi sarebbe sbucato da qualche parte, fuori da quella tremenda foresta.

“Se ne esco, scriverò a mio padre e gli chiederò se posso cambiare scuola. Sono sicuro che queste cose non succedono in Francia! E neanche a …”

Gridò quando dai cespugli qualcosa di grosso e peloso gli balzò davanti, finendogli quasi addosso.
  • Puck! Maledetto ratto ingrassato! – strillò Duncan con una voce acuta quasi quanto quella di Sophie. – Dov’eri mentre quel Centauro dava di matto? E quando è calato quel buio e …?
  • Rosso! Troppo rosso! – gridò Puck ad alta voce.
Un momento più tardi, Duncan notò il pelo arruffato e un taglio orizzontale accanto alla bocca.
  • Puck, ma che ti è successo?
  • No e no! Non più qui! Troppo rosso! Pulcione inutile! Grosso è rosso! Via di qui!
Il Jarvey stava inoltrandosi nel fitto del bosco, ma Duncan si mise in mezzo.
  • No! Tu mi dici come esco da qui, prima! – esclamò cercando di non apparire intimorito per l’aspetto ringhiante e furibondo di Puck.
  • Vai dietro! Trovi Pulcione! Ti porta fuori! Grosso è rosso! Scappa subito!
  • Aspetta Puck! Fammi capire! Con Pulcione non vorrai mica dire … ehi!
Duncan si abbassò coprendosi la testa dopo aver visto il Jarvey in procinto di saltargli addosso; invece si era limitato a balzargli di lato. Già non si vedeva più, probabile che fosse fuggito di corsa, nella direzione opposta dalla quale era fuggito Duncan.

Il ragazzino pensò che a quel punto fosse meglio proseguire con cautela nella direzione dalla quale era spuntato il Jarvey, aspettandosi di trovare il Pulcione.
Dopo una decina di metri, lo trovò. Era l’enorme cane del guardiacaccia. Muoveva la coda e stava sdraiato per terra con lo sguardo rivolto verso un enorme cumulo di cespugli, cacciando brevi ululati lamentosi a intervalli regolari.

“E va bene. Forse se glielo chiedo gentilmente mantenendomi a distanza, mi porterà fuori di qui. Ma perché se ne sta lì?”

Il ragazzino mosse un paio di passi, temendo che il bestione gli saltasse addosso se l’avesse sentito muoversi di soppiatto. Alzò lo sguardo e quel che vide gli illuminò totalmente la giornata.

Di fronte a lui, a meno di un centinaio di metri, la foresta si diradava permettendogli di vedere una parte del Lago e il lato orientale del castello. Era salvo.
Tirò un sospiro di sollievo e pensò di tirare dritto, provando ad aggirare il cagnone che probabilmente stava aspettando il suo padrone. Dando uno sguardo all’orologio, notò che con un po’ di fortuna sarebbe arrivato in tempo al castello per vedere gli ultimi incontri.

“Spero che Scott sia tra i finalisti. Non voglio perdermelo. Ma prima di tutto, non voglio perdere una gamba per colpa di questo cane da caccia all’orso.”

Mentre gli passava accanto, il suo sguardo fu vinto dalla curiosità e si posò su quel punto in cui il danese stava disperandosi. Stupefatto, intravide una scena quasi identica a quella che aveva assistito nell’avvallamento. Ma con molto più sangue. E il corpo doveva essere davvero quello di un orso.

“Ci sono anche gli orsi da queste parti? Tra ragni giganti e Centauri sbroccati finiranno quasi ogni giorno come questo qui … ma quelle sono tasche? E ha gli stivali?! Ma … ma …”

Fu proprio come nell’avvallamento, quando aveva scambiato un Centauro per un cumulo di neve. Quello riverso in una pozza di sangue, immobile e vanamente chiamato dai guaiti disperati del cane, non era affatto un orso. Quel cane non avrebbe pianto per un orso morto.

Fu come ricevere un pugno nello stomaco. Le gambe erano diventate molli e legnose allo stesso tempo e sentì l’impulso di vomitare. Restando a occhi chiusi, il ragazzino passò accanto al cane e dopo una ventina di metri corse a perdifiato lungo la sponda del Lago, senza far caso alla Piovra Gigante o a qualsiasi cosa fosse emersa dalle acque fredde e immobili. Freddo e immobile. Era freddo e non respirava più. Non era semplicemente ferito come quel Centauro. Da lontano notò l’ingresso del castello. Si sentiva la gola secca e il bisogno sempre più forte di sedersi da qualche parte. Rimpianse di non avere con se neppure un sorso d’acqua. Ed era certo che avrebbe dovuto aspettare un bel po’ prima di poter bere o anche solo sdraiarsi su qualcosa di caldo e morbido. Prima aveva qualcosa di molto più importante da fare. E almeno in quell’occasione, doveva trovare dentro di se un buon motivo per il quale il Cappello Parlante voleva inizialmente affidarlo alla Casa di Godric Grifondoro, nella quale non c’era posto per i cuori vigliacchi.

In caso contrario, quella situazione sarebbe peggiorata, specialmente per lui.
 
***
 
A meno di un’ora dal pranzo, nella sala del torneo erano rimasti soltanto i vincitori e pochi compagni delle loro Case. Per la precisione, il pubblico era formato da tre amici di Canon, la sorella di Hangermoor, tutti i Tassorosso che avevano potuto rimandare la preparazione per il M.A.G.O. del settimo anno, un Prefetto di Corvonero e il Caposcuola Horehound che continuava a fissare con disapprovazione l’unica vittoriosa tra i Serpeverde.

Scott si sentiva al settimo cielo per i risultati ottenuti. E nessuno avrebbe potuto dire che era arrivato fin lì grazie a suo zio o a chiunque altro. Lo scontro con Orpheus Moongard era stato molto difficile rispetto a quello tra Clarence e Rebecca Guildrose. Prima di cominciare, Moongard era stato redarguito dal Caposcuola Horehound e costretto a sfilarsi i guanti che replicavano il Sortilegio Scudo. Purtroppo, fin dall’inizio del duello, Scott si era reso conto che quei guanti non erano l’unica difensa che il ragazzo portava indosso. Per i primi minuti dello scontro, aveva schivato i colpi penosamente prevedibili del suo avversario. Di tanto in tanto, provava a colpirlo con fatture e Flipendo per capire quale altro vestito potesse attivare il Sortilegio Scudo. Nel frattempo, sentiva suo zio e la professoressa Woolgrim discutere tra loro.

Col rischio di farsi disarmare o battere, aveva compreso che la sciarpa di Moongard era il secondo capo d’abbigliamento sleale. Perciò gli aveva gettato una pioggia di scintille dorate particolarmente potente, seguita da un Incantesimo Fumogeno e ulteriori scintille sparate lateralmente. Gli si era avvicinato dal lato opposto ed era riuscito a sfilargli la sciarpa di dosso. Un momento più tardi, un Flipendo aveva messo fine allo scontro.

Ora Scott era sulla pedana assieme a Clarence e stava guardando il Caposcuola Horehound rimproverare Moongard, mentre Williamson discuteva con la Woolgrim per aver permesso l’uso di altre cose al di fuori della bacchetta durante il duello.
  • Un po’ mi spiace per lui. – bisbigliò a Clarence. – Horehound lo farà mettere in castigo, forse.
  • Stamani lo avevano avvisato: non doveva ripresentarsi con i guanti-scudo. E lui indossava un paio diverso, sperando di passare inosservato. E ci ha fregati indossando anche una sciarpa-scudo. Chissà chi sarebbe potuto salire sul podio contro di te se l’avessero scoperto da subito!
  • Prima di salire sulla pedana contro Moongard, ho visto Horehound discutere con la vincitrice dei Serpeverde. Hai sentito cosa si dicevano, per caso?
  • Hanno discusso sull’eccessiva foga che lei ha dimostrato nei duelli, come se puntasse a fare davvero del male agli avversari. Lei invece gli ha detto che se lui e la loro Direttrice intendono rovinare ancora di più la sua Casa, lei non sarebbe strisciata assieme a loro in un buco come una biscia senza denti. Lei è una di quei pochi Serpeverde che nei weekend vanno in giro senza divisa, Scott. Sono coraggiosi e secondo me fanno bene a non accettare queste limitazioni da parte dei professori.
  • Jennifer ha detto che lei è l’unica nella scuola con un parente Mangiamorte. – ricordò Scott.
  • Magari vorrebbe che nessuno glielo ricordasse.
  • Però fa di tutto per farlo ricordare agli altri, no?
Prima che Clarence potesse rispondere, Scott notò che Duncan era entrato in sala, col manto coperto di neve e l’aria stanca. In quello stesso momento, Williamson prese la parola.
  • E ora, siamo alla finale per stabilire il vincitore del primo anno. Clarence Mindstrel e Scott Williamson! Cominciate!
  • Ci siamo Scott! Abbiamo garantito alla nostra Casa un secondo posto tra i vincitori! – esclamò Clarence allegramente mentre agitava la bacchetta per l’adrenalina.
  • Considerala una semplice sfida tra amici – rispose l’altro facendo un inchino. – Divertiamoci, dai!
Mentre iniziarono entrambi con una pioggia di scintille gialle e brune per celebrare i colori della loro Casa, notarono che la maggior parte del pubblico stava voltandosi verso l’uscita. Sentirono delle grida preoccupate e un rumoroso vociare da parte del professor Williamson e del professor Borg. Di comune accordo, si fermarono quando nel pubblico non era rimasto più nessuno a guardarli, tranne Matilde che faceva loro cenno di scendere. Tutti convergevano nel punto in cui un attimo prima c’era Duncan.
  • Ma cos’è successo? – domandò Clarence. – Hanno preparato un pranzo così buono che …
  • Ragazzi, D-Duncan è tornato ora dalla Foresta P-Proibita! – esclamò Matilde col labbro tremante e gli occhi spalancati per la paura. – Dice c-che … ha detto di a-a-avere … ha visto …
Scott udì decine di voci mormorare ed esclamare ciò che Matilde stava cercando di dirgli. Il professor Rubeus Hagrid era morto.
 
   
 
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