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Autore: Blablia87    25/02/2016    7 recensioni
[Omega!verse]
[Alpha!Sherlock][Omega!John]
Pezzi di una filastrocca come briciole di pane lasciate da un passato pronto a riscuotere la sua vendetta.
Genere: Angst, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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John unì le mani a coppa sotto il rubinetto, e attese che l’acqua divenisse sufficientemente fredda. Quando vide formarsi sul metallo cromato una piccola patina gelata, raccolse quanta più acqua possibile e si portò le mani al volto. Ripeté l’operazione più volte, fino a quando non si sentì meglio. Ad occhi chiusi, i capelli intorno al viso completamente bagnati, allungò una mano in cerca dell’asciugamano, e tentò di sistemarsi nel modo migliore possibile.
Quando ebbe finito di asciugarsi, si aggrappò con entrambe le mani al lavandino e fissò la sua immagine, riflessa nello specchio sopra di esso.
Il volto che vide rispondere al suo sguardo era teso, tirato, ma riusciva ancora a scorgere qualcosa di familiare nei suoi occhi.
Non è successo niente. Pensò per l’ennesima volta, studiando con attenzione quale reazione spontanea facesse nascere sul suo viso quel pensiero. È stato un attimo di stanchezza. Un secondo di poca lucidità.
 
          Aveva pensato (senza trovare una spiegazione valida) al suo comportamento nella caffetteria durante tutto il percorso verso il Bart’s, compiuto volutamente a piedi mangiando distrattamente e controvoglia un po’ della torta che si era fatto incartare, prima di buttarla, quasi intera, in un cestino. Il suo stomaco, contratto, non era riuscito a far entrare più di quella misera porzione, ed un mal di testa lancinante non lo aveva abbandonato per tutta la durata della camminata.
Era partito dal collo, come se una parte della sua muscolatura avesse improvvisamente smesso di funzionare - diventando rigida e tesa - ed era esploso nella sua completezza dopo circa una ventina di minuti.
Era stato come sentire qualcosa di denso farsi strada lungo le vene, e per qualche secondo aveva fatto fatica persino a respirare e deglutire. Da che aveva memoria, non aveva mai provato un malessere tanto forte.
Arrivato all’altezza del Bart’s si era bloccato improvvisamente, mentre un pensiero gli attraversava la mente come una lama. Lo Snubber. Potevano essere quelli i primi sintomi dell’inattivazione degli inibitori? La possibilità lo aveva pietrificato. Mancava quasi un mese al Calore successivo, quindi non avrebbe corso un pericolo “immediato” di grave entità, almeno dal punto di vista meramente riproduttivo, ma se gli inibitori stavano davvero smettendo di funzionare, la sua scia sarebbe stata evidente anche alla persona meno attenta.
Le soluzioni, in quel caso, erano poche. Anzi, si riducevano ad una sola: la fuga.
Assumere altro Snubber prima della fine della copertura semestrale era impensabile: non erano progettati per essere assunti con più frequenza, e se davvero avevano smesso di svolgere il proprio lavoro, non aveva alcun senso assumerne altri. Se invece quanto successo era dovuto a qualche altro fattore, ingerire una pasticca prima della data prevista avrebbe aperto le porte ad uno scenario molto pericoloso: una serie di effetti collaterali di varia entità, che andavano dalle “semplici” convulsioni al coma irreversibile.
Totalmente assorto nei propri pensieri, non si era accorto della presenza alle sue spalle finché non si era sentito poggiare delicatamente una mano su una spalla.
Lo spavento era stato tale che il suo primo istinto era stato quello di voltarsi repentinamente ed assumere la posizione di guardia, pronto all’eventualità di doversi difendere da un attacco. Aveva alzato le mani a protezione del collo, e distribuito il peso sulle gambe in modo adeguato, indietreggiando.
“Ehi!” Aveva esclamato Mike, facendo a sua volta un passo indietro, alzando le braccia in segno di resa. “Sono disarmato, giuro!” Aveva aggiunto con un sorriso, osservando John rilassare il corpo e abbassare i pugni.
“Cavolo, ho rischiato seriamente un cazzotto, eh?” Aveva chiesto il coroner, grattandosi la testa con un movimento involontario atto a scaricare la tensione.
“Dio.” Aveva esalato John, buttando fuori l’aria che aveva trattenuto fino a quel momento e scuotendo la testa. “Mi hai fatto morire di paura!”
“Per essere un militare in congedo, ti spaventi facilmente.” Lo aveva canzonato Mike, sorridendogli. “Che diavolo ci fai già qui? Ti immaginavo intento ad addentare qualche panino in uno dei quei locali aperti tutta la notte!” Aveva aggiunto poi, mentre entrambi si dirigevano verso l’ingresso dell’obitorio, adesso affiancati.
“Era una caffetteria, in realtà.” Aveva risposto John, sovrappensiero.
 “Uh, romantico!” Aveva commentato Mike, ricevendo in cambio un’occhiata truce.
“E dai, John! Sto scherzando! È solo che ti vedo diverso da quando vivi con lui, e-”
“Specifica diverso.” Lo aveva interrotto John, fermandosi, la voce lievemente velata di preoccupazione.
“Beh, diverso. Più…sicuro, sai. Cose così. Ti vedo anche meno chiuso in te stesso. E va bene, amico, davvero. Te lo meriti… “ Si era fermato qualche secondo, cercando le parole. “Qualunque cosa sia, ecco.”
“Tutto qui?” Aveva domandato John, ed il coroner aveva assunto un’aria interrogativa.
“Nel senso… non vedi altri cambiamenti in me? Più… essenziali.” Aveva specificato quindi.
“Non mi pare. Cosa dovrei vedere?”
“Niente. Sto… sto assumendo degli integratori per intensificare un po’ la mia scia, sai…” Aveva mentito John, pronto a captare ogni reazione, anche appena percettibile, sul volto dell’altro.
“Cosa?” Mike era scoppiato in una breve risata. “Ma sei impazzito? Lo sanno tutti che quelle stronzate non funzionano. Ti farai venire un tumore o qualcosa di simile!” Aveva risposto, scuotendo la testa.
“Insomma non noti nessun cambiamento in me. Neanche minimo?” Aveva nuovamente domandato John, facendoglisi più vicino.
“Con tutto l’affetto, John, la tua scia è come al solito: al limite dell’assenza. Cioè, non fraintendere…sono certo che se affondassi il naso nell’incavo del tuo collo la percepirei, ma ho evitato di farlo in tutti questi anni e ho intenzione di continuare su la strada intrapresa. Spero mi perdonerai.” Aveva risposto l’altro, ridendo nuovamente.
John non era riuscito a trattenere un sorriso di sollievo. “Per l’amor del cielo, ho un brivido solo al pensiero!”
“Insomma assumi integratori, sembri più sicuro di te e più sereno, ma niente di tutto questo dipende dalla tua nuova abitazione e dal tuo nuovo coinquilino, giusto?” Aveva chiesto il coroner in tono malizioso, una volta smesso di ridere.
“È un Alpha, Mike. Gli Alpha non hanno storie con i Beta.” Aveva risposto John, riprendendo a camminare.
“Questo non è del tutto vero. Può succedere che un Alpha scelga un Beta come compagno. E comunque qui stavamo parlando di te, non di lui.” Aveva specificato Mike.
“Stavamo parlando del niente.” Era stata la risposta di John, fermandosi davanti alla porta del bagno.
“Va’ avanti. Mi do una rinfrescata e ti raggiungo.” Aveva aggiunto poi, appoggiando la mano sulla maniglia.
“Ok. Fa’ con calma. Non ci hanno ancora portato il corpo.” Mike gli aveva fatto l’occhiolino e si era allontanato in direzione dell’obitorio, sventolando una mano in segno di saluto.
Appena entrato in bagno, John aveva abbandonato l’espressione distesa assunta fino ad un attimo prima. Era scomparsa dal suo volto, come una maschera caduta a terra. Si era diretto al lavandino, e aveva aperto il rubinetto.
“Non è successo niente.” Aveva sussurrato, unendo le mani a coppa e mettendole sotto il getto, aspettando che l’acqua diventasse sufficientemente fredda. “Assolutamente niente.”
 
        John si guardò un’ultima volta allo specchio. Non si sentiva ancora del tutto sereno, ma decise comunque che fosse giunto il momento di tornare alle proprie mansioni, cercando di ignorare quanto successo. Si sistemò i capelli con un rapido gesto della mano, ed uscì dal bagno.
 
***
 
Sherlock aveva provato a contattare telefonicamente John per tutta la durata del suo viaggio in taxi verso il Bart’s.
Una parte della sua mente continuava a ripetergli che fosse del tutto normale non ricevere risposta: se il medico si era davvero recato a lavoro, non avrebbe potuto avvicinarsi al cellulare per tutto il tempo dell’analisi autoptica del corpo.
Ma qualcosa, all’altezza del petto, seguitava a tirare e scavare, come a volergli aprire una voragine tra costole e polmoni.
Non c’era niente, assolutamente niente di razionale in quel bisogno denso, palpabile, di saperlo lontano da altri Alpha. Era puro impulso, svincolato da ogni logica.
Ciò nonostante non aveva alcuna intenzione di ignorarlo, in alcun modo. Non avrebbe potuto. Premeva contro lo sterno e riempiva ogni suo respiro,  era quasi impellente. Non era possibile fingere semplicemente che non ci fosse.
“Basterà un attimo, il tempo di capire che sta bene, e tutta questa assurdità potrà finire.” Pensò non appena arrivato a destinazione, scendendo dal taxi senza curarsi di avere indietro il resto - piuttosto sostanzioso - che gli spettava.
Si guardò intorno in cerca di indicazioni per la sala mortuaria, e non appena trovò la scritta “Obitorio” su uno dei cartelli posti di fianco all’entrata, iniziò a seguire la piccola riga nera che partiva dalla targa, giungendo fino alla porta a vetri.
Aspettò che questa si aprisse ed iniziò a camminare lungo il corridoio, illuminato dalla luce innaturale e fredda dei neon.
Poggiò delicatamente una mano sulla striscia di vernice scura, sfiorandola mentre camminava.
Continuò a procedere in avanti lungo la corsia, fin quando non si trovò di fronte ad una scalinata piuttosto ampia, che iniziò a scendere aumentando il passo.
L’odore di disinfettante, una volta terminata la discesa, era così forte da azzerare ogni sua capacità olfattiva, tanto che dovette fermarsi qualche secondo per cercare di recuperare un minimo di odorato. Il sentore di sterilità era assordante, ai suoi sensi, e Sherlock si stupì di quanto fosse debilitante perdere improvvisamente una parte così importante di sé. Era come essere divenuti ciechi, di una cecità bianca e luminosa.
Probabilmente quello era uno dei motivi per i quali John aveva scelto quel lavoro. Avvolto da una bolla di vuoto sensoriale, poteva sentirsi protetto molto più che in qualsiasi altro posto.
Sherlock scosse la testa e riprese a camminare, mantenendo indice e medio della mano destra sulla riga nera segna percorso.
Dopo qualche secondo, in fondo al corridoio, comparve una porta con vetri satinati e telaio di metallo lucido. Una targhetta gialla, in alto, segnalava il suo essere arrivato a destinazione:
“Obitorio – Accesso vietato ai non autorizzati”, recava scritto a lettere nere e lucide.
Percorse gli ultimi passi in modo veloce, sentendo il cuore iniziare ad accelerare i battiti. Era il momento della verità: se John non fosse stato a lavoro, avrebbe dovuto per prima cosa telefonato a Mycroft per chiedergli aiuto (prospettiva che lo infastidiva notevolmente) e poi si sarebbe dovuto impegnare in prima persona a cercarlo, fino a quando non l’avesse trovato. Il pensiero lo disturbava, in modo intimo e profondo, ma era sceso a patti - durante il viaggio in taxi - col fatto che quella sarebbe stata l’unica cosa da fare, in quel caso. Andava contro ad ogni sua idea, era assolutamente una reazione da “Alpha Legato” (e quindi esagerata e fuori luogo, ai suoi occhi), ma sapeva che non avrebbe potuto far diversamente. Si conosceva bene, così come conosceva (e sapeva riconoscere, come ignorare, all’occorrenza) le proprie debolezze: non sarebbe mai riuscito a tornare a casa senza prima aver saputo dove fosse John, e senza essersi accertato personalmente che stesse bene.
Con un sospiro profondo, si preparò a spingere il maniglione della porta.
“E sia.” Sussurrò, appoggiandosi con forza contro la barra di plastica dura. Inaspettatamente, non accadde nulla. Il maniglione non si abbassò, e la porta rimase chiusa.
“Maledizione.” Sibilò, scoprendo i denti. Fece un passo indietro, iniziando a guardarsi intorno in cerca di un campanello, o un pulsante.
Niente. Il muro intorno all’ingresso era completamente liscio, e riluceva sotto la luce fredda.
Doveva esserci un modo. Come faceva la polizia a consegnare un corpo, se non aveva modo di annunciarsi?
“Sherlock…?” Una voce di donna, incerta, lo chiamò dal corridoio, alle sue spalle. “Che ci fai… voglio dire, perché sei qui…?”
L’uomo si girò verso la ragazza dai capelli castani e la carnagione pallida che si stava avvicinando con passo titubante, due grosse tazze di caffè da asporto strette tra le mani.
“Molly.” Il detective le rivolse un rapido sorriso, vuoto di allegria e leggermente teso. “È un piacere incontrarti.” Aggiunse, sforzandosi di risultare cortese.
“Che succede…?” Domandò lei, la voce ridotta ad un sussurro carico d’imbarazzo, tenendo gli occhi bassi. “Se è per i farmaci che sei qui-“
“No, niente affatto.” La interruppe Sherlock. “Sono qui per far visita… ad un amico. Ma non riesco ad entrare.” Le spiegò, lanciando un’occhiata eloquente alla porta d’ingresso dell’obitorio.
“Un… Un amico?” Ripeté lei, alzando su di lui un rapido sguardo incredulo, prima di tornare nuovamente a guardare a terra.
“Sì.” Confermò Sherlock, sorridendole di nuovo, questa volta con più convinzione. “John Watson. Lo conosci?” Domandò.
La donna sembrò ancor più sorpresa, ma fece cenno di sì con la testa.
“Certo che lo conosco… sto portando il caffè a lui e al dottor Stamford... la loro macchinetta si è rotta…” Rispose, alzando appena i due contenitori fumanti, come a dar conferma alle proprie parole.
“Eccellente!” Esclamò Sherlock, ancor prima di rendersene conto. Se Molly Hooper stava loro portando da bere questo significava, per prima cosa, che John era davvero arrivato al Bart’s. Secondo poi, presupponeva una certa normalità nella sua conduzione di vita lavorativa, pensiero che riuscì finalmente a placare il senso d’ansia che Sherlock si era portato tenacemente aggrappato al petto fino ad un attimo prima.
“Vuoi… vuoi che gli dica che sei qui…?” Domandò la donna, bloccandosi una delle tazze tra petto e braccio ed iniziando a cercare con la mano ora libera la chiave della porta nella tasca del camice.
“No, non importa. Avevo solo bisogno di assicurarmi che stesse… bene, ecco. L’ultima volta che l’ho visto mi era sembrato un po’… debole. Ho pensato non si sentisse molto bene.”
Cercò di giustificarsi Sherlock, alzando le spalle come a dire “niente di importante”.
Molly lo guardò nuovamente con stupore.
“È la prima volta che ti sento dire di essere… Preoccupato per qualcuno.” Commentò poi, con voce flebile, avvicinandosi alla porta e inserendo la chiave nella toppa.
“Non sono preoc-“ Incominciò Sherlock, schermendosi.
“Se vuoi puoi andare nel emiciclo. Tanto hanno finito, con il corpo. Da lì si vede tutta la sala mortuaria, puoi sederti e aspettare che gli dica che sei qui.” Lo interruppe Molly, facendo girare la chiave e dando una leggera spinta alla porta, che si aprì senza opporre resistenza.
Qualcosa, in una parte della mente di Sherlock, gli suggeriva di andarsene, chiedendo a Molly di non dire niente a John della sua presenza al Bart’s. Era la cosa più logica da fare, date le premesse: il medico stava bene, e non c’era alcun bisogno di continuare ad alimentare il proprio istinto di protezione verso un uomo al quale avrebbe dovuto chiedere si andarsene dalla loro abitazione entro poche ore. Invece, senza aggiungere altro, annuì impercettibilmente in direzione della donna, e la seguì nel corridoio oltre la porta a vetri.
Fecero qualche passo e si fermarono di fronte ad una porta di legno scuro, senza targhe.
Molly fece timidamente cenno con la testa a Sherlock di entrare.
“Porto i caffè e dico a John che ci sei…” Disse, la voce ridotta ad un sussurro.
Sherlock annuì.
“Grazie Molly. Davvero.” Le disse, regalandole un rapido sorriso, questa volta senza sforzo.
“Figurati…” balbettò lei, arrossendo violentemente. “Mi piace rendermi utile. Lo sai…” Terminò, rincominciando a camminare. Sherlock percepì distintamente la sua scia farsi dolce, per divenire amara poco dopo. Era chiaro che a quella donna piacesse, e molto. Non c’era bisogno di ricorrere agli ormoni, per capirlo. Gli passava da anni un medicinale per Omega senza nessun tipo di prescrizione, nella sola speranza di riuscire a vederlo anche solo qualche minuto la volta successiva. Mai, prima di allora, il detective si era sentito in qualche modo colpevole di usare l’attrazione della donna nei suoi confronti come scorciatoia per ottenere quello che gli serviva. Ma in quel momento, guardandola allontanarsi, provò per lei una forma di dispiacere. Era una Beta Minus timida, schiva, remissiva fino all’eccesso. Non avrebbe mai trovato un Alpha disposto a prenderla con sé, e a sua volta non sarebbe mai stata capace di prendersi cura di un Omega, anche del più docile.
Era impacciata, ma non stupida (come molti, scioccamente, la ritenevano), Molly Hooper. Aveva un’intelligenza emotiva molto ben sviluppata, Sherlock aveva potuto rendersene conto in più di un’occasione, durante i loro rapidi incontri.
Fu proprio sull’onda di quella consapevolezza che il detective aprì la porta dell'emiciclo, domandandosi se il suo strano ed inaspettato attaccamento nei confronti di John Watson potesse essere risultare palese alla donna, e quindi anche ad un qualunque sguardo esterno.
Molly non era comunque un buon metro di giudizio a riguardo: troppo attenta agli altri per non notare ogni sfumatura, troppo interessata a Sherlock per non trovare strano il suo essere lì in cerca di un “amico che sembrava non stare molto bene”.
L’uomo fece un respiro profondo ed entrò nella sala.
Alla sua destra una fila di panche in lagno scuro correva lungo l’intera lunghezza della stanza, dalla forma semicircolare. A sinistra si apriva una enorme vetrata, che consentiva di avere una visuale parziale ma molto ampia della sala mortuaria posta al piano inferiore.
Sherlock si avvicinò al vetro, poggiandoci entrambe la mani, e lanciò un’occhiata attenta alla stanza sotto di lui.
Al centro si trovava il tavolo per le autopsie, adesso occupato dal cadavere di Kensington, accuratamente coperto con un lenzuolo bianco.
All’altezza della testa la copertura assumeva una forma rientrante, rendendo chiara la mancanza di quella parte del corpo, e quindi l’identità della vittima.
Sherlock osservò le pieghe dei tessuto con interesse, cercando di immaginare che aspetto dovesse avere ora il cadavere, accuratamente pulito e ricomposto, per quanto possibile.
Un'ombra si mosse al fianco del tavolo, ed il detective si trovò a seguire con lo sguardo Mike Stamford avviarsi con passo lento verso la vetrata che divideva quella stanza da quella attigua.
Attraverso l’apertura di vetro tra i due ambienti, Sherlock riuscì a mettere a fuoco John, intento a digitare velocemente qualcosa sul computer, con aria assorta.
Suo malgrado, sentì lo stomaco contorcersi in un misto di tensione e piacere. Il primo pensiero che gli attraversò la mente fu che il medico stava bene, fortunatamente.
Poi, in un secondo momento, iniziò a rifletter su quanto interessante fosse poter osservare qualcuno da una posizione simile, con la consapevolezza di non essere visti. Ancora più particolare era poter vedere John nel suo ambiente, intento a fare il proprio lavoro.
Quell’Omega che adesso stava facendo cenno al suo collega di entrare, era in un luogo ed in una posizione che non gli competevano in alcun modo, stando alle regole della società. Eppure era lì, con un sorriso sul viso, protratto in avanti verso un amico che gli stava raccontando qualcosa aiutandosi con ampi gesti delle mani.
Una specie di miracolo della volontà, un tributo alla forza d’animo.
Sherlock si avvicinò al vetro il più possibile, cercando di capire cosa si stessero dicendo. Vide Mike far segno di no con la testa, e John scoppiare a ridere, lasciandosi andare contro la sedia.
Per un attimo una fitta gli attraversò lo sterno, e l’istinto primario fu quello di andare da loro e far allontanare Stamford il più possibile da John. Era palese che fossero gli ormoni risvegliati dalla presenza del medico e dalla loro costante vicinanza a parlare, lo capiva perfettamente, adesso, ma questo non gli impedì di provare una forma di possessività tale che si trovò a scoprire i denti prima ancora di rendersene conto.
John e Mike si voltarono all’unisono verso l’interno della sala mortuaria, e Sherlock fece un passo indietro, convinto che, in qualche modo, lo avessero potuto sentir ringhiare. Era impensabile, ad una tale distanza, ma ciò nonostante si trovò lontano dal vetro, con il cuore in gola. Dopo qualche secondo, appena riuscito a calmare i pensieri ed il respiro, si avvicinò di nuovo, cautamente, vedendo Mike dirigersi verso la porta dell’obitorio seguito da John, che si richiuse alle spalle quella della stanzetta dalla quale erano appena usciti.
Molly. Doveva aver bussato per annunciare la sua presenza, ecco perché si erano girati verso la sala mortuaria.
Stamford fece segno alla ragazza di entrare, e lei lo superò gettando un veloce sguardo in alto, verso Sherlock.
Il detective vide John sorridere gentilmente alla donna, avvicinandosi per prendere il suo caffè, e osservò il suo volto cambiare espressione mentre Molly gli diceva qualcosa, tenendo basso lo sguardo. Il medico corrugò la fronte, assumendo un aria incredula, e accennò un sorriso incerto verso di lei, voltandosi poi verso Mike, che aveva già alzato la testa verso l'emiciclo e stava accennando un saluto in direzione del detective.
Sherlock mosse appena la mano in risposta, continuando a tenere gli occhi fissi su John, che alla fine si voltò anch’egli verso di lui.
Il medico mantenne uno sguardo interrogativo per qualche secondo, poi si aprì in un veloce sorriso, che gli rilassò il volto. Insieme ai lineamenti di John, Sherlock sentì sciogliersi la morsa di tensione che gli aveva chiuso lo stomaco poco prima, e ricambiò il sorriso con uno dei suoi: spigoloso e rapido, ma sincero.
John disse qualcosa a Molly, poi a Mike, che annuì con aria allegra. Infine si diresse alla porta ed uscì dalla stanza, mentre i due si dirigevano con passo lento, affiancati, verso l’uscita posta dall’altro lato rispetto a quella dalla quale poco prima era entrata la donna ed ora era uscito il medico. Molly, prima di seguire Mike oltre la porta, lanciò un ultimo sguardo in alto, cercando gli occhi di Sherlock, ma non li trovò: l’uomo si era già rivolto all’interno, verso l’ingresso dalla stanza, in attesa che John lo raggiungesse.
 
Angolo dell’autrice:
Per prima cosa, e come sempre, grazie a tutte/i. Siete sempre di più a leggere, ad aggiungere alle seguite e alle preferite, a commentare, ed io non posso che esserne felice.
 
Detto questo, veniamo al capitolo, dove c’è di tutto e di più. XD
 
Per prima cosa John. Che abbiamo scoperto non aver capito di aver prodotto una scia, nella caffetteria, ma che sente che qualcosa non va, e che la cosa deve legarsi necessariamente a quell’aspetto (palese in questo senso la domanda che pone a Mike, pur camuffando la sua paura ed anzi, fingendo che sia l’esatto contrario di quella reale). E poi c’è Sherlock, che fa talmente tante cose pur non facendone quasi nessuna, che ho dovuto rileggere il capitolo per riuscire a ritrovarle tutte (ma a voi succede di dimenticare quello che avete scritto? Io delle volte mi ritrovo proprio a dire: “ma davvero ho scritto questa cosa?” XD Vabbè).
Intanto sa che tutto ciò che lo sta muovendo, in questo momento, è istinto puro, e non razionalità. Ciò nonostante non può evitare di farlo. Resta lucido, in alcuni momenti si rende anche conto che è davvero tutto “oltre”, ma è anche un uomo che, a mio avviso, ha una forte comprensione e conoscenza di sé (sentimenti a parte, quelli ha scelto volutamente di perderli, dopo la prima esperienza fallimentare), tanto da riconoscersi anche quella che lui vede come una debolezza, ma che ai nostri occhi dovrebbe essere un pregio: sa di non essere in grado di tornare a casa senza sapere cosa ne sia stato di John. Non potrebbe farlo, e in parte la scelta di continuare a cercarlo è anche egoistica: “fino a quando non lo avrò trovato, non potrò dedicarmi ad altro. Lo so. Ormoni o meno, questo è. Quindi lo faccio.”
Poi c’è la questione Soma, che è appena accennata, ma c’è. Sherlock ha quasi finito il Soma, tanto che nel capitolo dedicato a questo aspetto, si ripropone di passare da Molly. Ma quando ha la possibilità di prenderlo, ci rinuncia subito: il punto focale si è spostato (e lo vedremo meglio alla fine del prossimo capitolo), e non se n’è neanche accorto. (Che pazienza che ci vuole. XD) In teoria il Soma potrebbe fargli dimenticare John e l’ansia che prova. Ma lui non prende in considerazione questo aspetto.
C’è poi tutta la parte nell’emiciclo. I pensieri su John, e la gelosia. Per assurdo Sherlock si riconosce in modo chiaro di essere preda degli ormoni nell’unico momento in cui non è possibile che questi siano la causa di quel che prova: John è lontano (anche avesse una scia, che poi non ha), ed è chiaro che stia bene, che non sia in pericolo. La sua “ansia” da protezione dovrebbe essersi esaurita, come infatti è. Ma la gelosia, invece… XD E qui abbiamo un’altra dimostrazione del fatto che Sherlock si conosce molto bene, ma fa fatica ad orientarsi quando si entra in quella zona. XD
 
Ok, ho scritto un capito nel capitolo, e mi dispiace. Ma questo in particolare è stato complicato da tirar giù (non so neanche bene perché), e mi sentivo di aggiungere queste cose (anche se so che è superfluo! In teoria, se scritto decentemente, dovrebbero saltar fuori dal testo, queste cose. XD)
 
Un saluto a tutte,
alla prossima!
(Che potrebbe slittare a domenica, o persino a martedì prossimo, dipende dal lavoro. Mi scuso già da ora per l’eventuale ritardo!)
 
B.
   
 
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