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Autore: Rei_    26/02/2016    8 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Non c’era alcuna traccia di serenità nelle gocce di pioggia che, rapidamente, schizzavano sull’asfalto.
Era da un po’ di tempo che non pioveva lì a Roma. Riccardo guardava la pioggia dalla finestra seduto alla sua scrivania, con le gambe distese che ciondolavano nel vuoto. Stava spesso in quella posizione, da lì poteva vedere il mondo fuori dalle grandi finestre, molto più interessante del mondo “dentro”.
Molti anni fa, quando ancora era un giovane liceale, si ritrovava spesso a guardare la pioggia. Era l’unica fonte di distrazione dalla quotidiana fatica di apprendere una nozione dopo l’altra, dentro quella cameretta che troppo spesso gli stava stretta. A volte, nel segreto di quelle quattro pareti, si ritrovava a sorridere pensando che i ragazzi che affollavano il parco sotto casa sua, divertendosi mentre lui studiava, erano costretti per un giorno anche loro a fissare sconsolati la pioggia dalla finestra.
Ma questo prima che tutto accadesse. Prima che la pioggia potesse acquisire un altro significato, molto meno rassicurante.
«Sta piovendo» fece candidamente notare a Marcello Pasqui, quando lo sentì entrare dalla porta del suo ufficio.
«Già» sospirò lui, ignorando volutamente ogni tipo di allusione che quell’affermazione comportava, «ci sono i giornalisti giù. Che facciamo?»
Riccardo spinse la sedia con la scarpa, facendola sbilanciare abbastanza per farla cadere con un tonfo leggero.
«Non lo so. Non riesco a pensare con questa pioggia».
Pasqui sospirò, dirigendosi verso la bottiglia di vino sulla mensola.
«Immagino che dovrò pensarci io allora».
Nell’istante immediatamente successivo, la quiete del terzo piano del palazzo fu interrotta da dei passi affrettati nel corridoio e dal rumore della porta che si apriva di scatto.
«Bastardo!»
Marchesi si ritrovò afferrato per la giacca, ancor prima di poter ragionare sull’autore del gesto. Fortunatamente, Pasqui si era già precipitato a fermare l’assalitore, frapponendosi tra i due.
«Lo so che sei stato tu! Sei tu il vigliacco ricattatore qui dentro!» Marchesi studiò il viso infuriato di Nicolò Andreani. Non era per niente intimorito da lui. Aveva imparato, durante la sua vita, che c’erano due tipi di uomini pericolosi: quelli in giacca e cravatta e i rissosi da bar. Tuttavia, un rissoso da bar con addosso una giacca e una cravatta non comportava alcun potenziale rischio.
«Marcello, per favore» gli sorrise Riccardo, calmo «offri un bicchiere di vino al capogruppo».
Nicolò continuò a tenere stretti i pugni, squadrandolo con odio e confusione, mentre riceveva in mano un bicchiere.
«Che diavolo significa?» gridò, trattenendosi dal ridurre in frantumi il vetro.
«Significa siediti e parliamo con calma. Non mi piace la gente che urla, specialmente prima di mezzogiorno» ribatté placidamente Riccardo.
«Non sono qui per giocare. Hai capito?» urlò l’altro.
«Neanche io, infatti ho cose più serie da fare che nascondere buste di coca ai miei deputati» sorrise lui.
«Vuoi farmi credere che non centri niente?» gridò di nuovo il capogruppo del Fronte, agitando il bicchiere nella mano e rovesciandone il contenuto, «e chi altro può essere stato, sentiamo?» Riccardo Marchesi afferrò un bicchiere pulito e si versò altro vino dalla bottiglia. Schioccò le labbra dopo aver bevuto, gustandosi quella pausa d’attesa carica di elettricità.
«Non lo so, forse tu. D’altra parte, sei l’unico qui che ha sempre odiato il nostro giovane deputato».
Nicolò fece per saltargli addosso, ma di nuovo gli fu impedito da Marcello Pasqui.
«O forse lui stesso. Hai mai pensato a questa ipotesi?» aggiunse il segretario.
«Non le fa queste stronzate lui!» urlò di nuovo Andreani, ma senza la stessa convinzione di prima.
«Bene» Riccardo sorrise soddisfatto, scendendo dalla sua posizione sopraelevata sulla scrivania, «allora, dato che le nostre posizioni sono chiarite, penso che non avrai problemi ad andare in sala stampa insieme a Marcello per difendere Martino».
Pasqui lo guardò interrogativo, ma dissimulò subito lo sguardo. Quella mossa non l’avevano prevista, ma improvvisare, per lui, non era mai stato un gran problema.
Nicolò, invece, non riuscì a nascondere la propria sorpresa.
«Insieme?»
 
 
*
 
 
Fare finta di niente.
Era quello il segreto, era quello l’unico modo per uscire vivi da quella giornata e da tutte le altre che sarebbero seguite.
Non poteva essere così difficile. In tanti ci riuscivano. I giornalisti li inseguivano e loro scappavano, flemmatici, indifferenti, come se quelle domande pungenti non li infastidissero in alcun modo.
Era arrivato alla Camera dei deputati ancora con l’impressione di essere dentro un qualche tipo di sogno strano. Ogni tanto aveva provato a ragionare su cosa dire e come rispondere a chi gli avesse chiesto che ci faceva quella busta di cocaina nella sua tasca, ma più ci pensava, più tutto gli sembrava irrealistico.
Mostrare la propria sicurezza di sé era una delle regole d’oro per chi entrava in politica, così gli aveva insegnato Arturo. Ma come poteva essere sicuro di una cosa di cui non sapeva niente?
Quella mattina non aveva fatto in tempo a scendere dal taxi, che il giovane si ritrovò al centro di un circolo di microfoni, telecamere e facce concitate.
Già, le loro facce. Era quella la parte peggiore. Quelle facce che sembravano come animate da una scarica, gioiose per avere sottomano un nuovo caso con cui riempire le prime pagine.
E il caso era lui. Era quel giovane deputato che per diversi motivi era già riuscito a far parlare di sé, e che ora si trovava coinvolto in un caso ambiguo, da solo, facile preda delle loro domande.
«Fa uso di cocaina?»
«Dove l’ha presa?»
«Da chi?»
«C’è un giro di droga in Parlamento?»
«I suoi colleghi lo sanno?»
«La spingono a dimettersi?»
Forse la cosa migliore, in quel momento, sarebbe stata tacere. Invece lui rispose. Perché quelle parole non gli erano scivolate addosso.
Perché quella busta non era sua. Il mondo intero avrebbe dovuto capire che lui non c’entrava niente.
«Non ne so niente…»
Aveva mormorato. Si era lasciato intimorire. Non era sembrato sicuro, e se ne era accorto subito dopo aver pronunciato quelle quattro parole. Le ripetè un’altra volta, poi un’altra ancora, le stesse quattro parole per ogni domanda come un mantra.
Cercò di muoversi, ma non ci riuscì. Ad ogni suo passo, i microfoni, le telecamere e le facce lo seguivano. Era chiuso dentro una gabbia, un’altra volta.
Non riuscì a mantenere il viso composto. Forse avrebbe pianto.
Immaginò di vedersi piangere in TV, quella sera, all’apertura di un qualche tg, sotto gli occhi di tutti i suoi colleghi e di migliaia e migliaia di telespettatori.
No.
Perché doveva succedergli questo?
Morse forte le labbra, cercando di rilassare il viso. Chissà che faccia stava avendo in quel momento. Chissà come sarebbe comparso in foto. Il panico iniziò a salirgli. Come si faceva a mandarli via? Un tempo era stato capace di farlo, ma questa volta sembrava un’impresa irrealizzabile.
«Non ne so niente, per favore» scandì, cercando di sembrare deciso «devo andare, per favore. Mi aspettano. Non ne so niente…»
«Ehi, scusate!»
Un uomo biondo era entrato nella sua gabbia. Lo sguardo severo, benché non gli appartenesse per niente, aveva un che di rassicurante.
«Ci lasciate lavorare? Sapete, per fare il meglio per il nostro Paese ci serve concentrazione, e voi state stressando il mio collega».
Le parole risuonarono come macigni, e nessun giornalista osò più chiedere nulla. Qualcuno riprese la scena con il cellulare e poi se ne andò, cercando un altro obiettivo da intervistare.
Michele si permise di respirare, abbandonandosi alla parete, con le mani ancora tremanti per la rabbia e per l’ansia.
«Grazie Tom».
Thomas gli si piazzò davanti. Aveva la stessa espressione seria di prima, ma un po’ più impietosita.
«Non è tua quella busta, non è così?»
Michele annuì, cercando di mostrarsi il più sicuro possibile. Era insopportabile il fatto che anche Thomas avesse sospettato di lui.
«Allora devi andare dai questori della Camera e dirgli quello che sai. Buona fortuna».
Michele si staccò dall’appoggio stabile del muro, tornando sulle proprie gambe. Annuì appena all’amico, iniziando a camminare rassegnato verso il proprio destino.
La stampa non gli avrebbe creduto. Certo, non avevano prove, ma questa cosa lo avrebbe marchiato a vita. Non importava quanto fosse vera o falsa una notizia, se c’era di mezzo uno scandalo e qualche politico il fango era assicurato. Ormai lo sapeva.
«Devi solo dire la verità, Michi» gli gridò dietro Thomas. «vedrai che si sistemerà tutto».
Michele si morse un labbro. Sapeva quanto quelle parole fossero niente più di una speranza irrealizzabile.
«Certo» mormorò, con scarsa convinzione.
Si avviò verso le scale, diretto al terzo piano di Palazzo Montecitorio.
Da solo, un’altra volta.
 
 
Cutro. Il suo paese.
La stazione. La chiesa. Quel parco lontano dove andava da bambino. La piazza, le case, il sole, il caldo, il paesaggio immobile.
Era questo lo sfondo mentre Michele trascinava la valigia lungo la via. Passare occasionalmente dal paese durante i suoi weekend da universitario non era la stessa cosa che tornare per davvero. Ora riusciva a sentire chiaramente quanto non fosse più abituato a tutto ciò che mancava a Cutro e che invece aveva trovato a Palermo.
Le case, la gente, i posti dove andare, le panchine dove ci si poteva sedere e i bar doveva poteva stare per ore a leggere. Niente di tutto questo c’era in quel paese. Non c’era quell’aria, quella di quando c’è qualcosa che sta sempre per accadere e che ti invita ad assistere, a stare attento e a tenere gli occhi aperti per non perdertelo.
No, Cutro era vuota. Era una piccola città fatta di assenze.
Sarebbe dovuto arrivare a casa, prima di tutto, per sistemare la valigia nella sua vecchia stanza. Poi sarebbe andato alla sede del suo partito, dove lo aspettavano tutti per riabbracciarlo.
Mentre si stava per incamminare, il telefono squillò. Sarà stata la centesima volta, quel giorno. Tutti a chiedergli dov’era e come stava andando il viaggio. Diverse volte aveva avuto voglia di non rispondere e darsi per disperso.
«Pronto?»
«Ciao Michele!»
Il suo cuore per poco non si fermò. Era Arturo Costa!
Per tutti gli anni in cui aveva frequentato l’università, avevano continuato a vedersi occasionalmente. Si scambiavano letture, discutevano di politica e partecipavano insieme alle manifestazioni contro la mafia. Tuttavia, ora che Michele era tornato nella sua città natale, le loro vite avrebbero sicuramente preso strade diverse.
«Ehi! Sono appena arrivato a Cutro».
«Bene, bene… Immagino che vorrai riposare, allora. Sarò veloce, volevo parlarti delle prossime elezioni».
«Che è successo?»
«Niente è successo!» rise Arturo, «ma qualcosa potrebbe succedere!»
«Cioè?»
Ci fu una pausa di silenzio. Michele trattenne il fiato.
«Ho intenzione di candidarmi alle elezioni».
Il giovane per poco non sobbalzò. Arturo Costa candidato, dopo tutti quegli anni fuori dalla politica istituzionale?
«Ma… è fantastico! Saranno tutti contenti nel partito!»
Si ricordava benissimo che al congresso aveva visto Arturo essere amato e rispettato da tutti. Certo, aveva preso una posizione molto netta riguardo alla nuova segreteria di Marchesi, ma era pur sempre uno dei massimi esponenti della lotta alla mafia e dell’ex PCI.
«Dici? Beh, questo non lo so, ma di sicuro non possono impedirmelo!»
Rise leggermente. Michele sorrise.
«A questo proposito, dovrei chiederti un favore».
«Qualsiasi cosa».
«Dovresti candidarti con me in lista».
Michele lasciò andare improvvisamente la valigia, che cadde sull’asfalto con un tonfo sordo.
«Io…?»
«Sì, tu».
«Ma… non posso. Non sarei capace, non so come… e poi perché?»
«Perché?» Arturo restò in silenzio per un po’, «ricordo che la prima volta che ci siamo conosciuti mi dicesti che mai avresti voluto intraprendere la carriera da parlamentare».
«Appunto!» confermò Michele, leggermente innervosito, «non voglio!»
«Proprio per questo dovresti farlo!» ribadì Arturo, «ascoltami bene, il Parlamento è pieno di arrivisti. Persone che sono lì solo per soddisfare il proprio ego o per vivere nel lusso. Pensi che loro siano interessati al bene comune?»
Michele non rispose. La risposta a quella domanda era ovvia. Ma questo cosa c’entrava con lui? Non era nessuno per potersi candidare.
«Ti prego di pensarci, almeno un po’».
«Arturo…»
«No, non rispondermi ora. Pensa a quello che ti ho detto e poi mi risponderai».
La telefonata si interruppe. Michele restò con il cellulare in mano, sconvolto, alle prese con una scelta che si prospettava essere tutt’altro che semplice.
 
 
*
 
 
La sala stampa era piena zeppa di giornalisti.
Nicolò non ne aveva mai visti così tanti insieme in una volta sola. Erano peggio degli avvoltoi: quando c’era qualcosa di marcio di cui nutrirsi si radunavano subito in massa. Solo che questa volta quel “marcio” riguardava Michele.
La sua entrata, preceduta da quella di Pasqui, fu accolta dai flash simultanei delle macchine fotografiche. Nicolò abbassò gli occhi, abbagliato. Pasqui invece camminò dritto fino al suo posto davanti alle telecamere, impassibile. Quell’uomo emanava un’aura autoritaria, dalla punta delle scarpe fino all’ultimo capello. Forse era la sua smisurata altezza, forse quello sguardo che appariva sempre freddo, scocciato e indifferente.
D’altra parte, Nicolò era lì per una giusta causa. Fare una dichiarazione insieme avrebbe dato maggiore forza alle loro parole, e dimostrato che anche due forze politiche contrastanti possono prendere una posizione unitaria per una giusta causa.
«Siamo qui solo per una dichiarazione» esordì subito il capogruppo di Sinistra Democratica, «niente domande, per favore».
Tutti i giornalisti restarono in silenzio con i microfoni puntati.
«Siamo stati informati in mattinata del ritrovamento nella giacca di un mio deputato, Michele Martino, di quella che sembra essere una sostanza stupefacente illegale».
“Cocaina” pensò subito Nicolò “perché deve fare giri di parole inutili?”
«Esprimo a nome mio e del gruppo che rappresento il completo sostegno e la vicinanza a Martino, del quale ho fiducia e stima, augurandomi che possa al più presto chiarire la sua posizione di estraneità al fatto».
A quel punto Pasqui girò lo sguardo verso Nicolò, per invitarlo a continuare. Il capogruppo del Fronte si schiarì la gola, fissando uno ad uno negli occhi ciascun giornalista misurando bene, per una volta, le parole che stava per pronunciare.
«Bene. Anche io esprimo a nome mio e del mio gruppo la totale fiducia all’Onorevole Martino. Quello che è avvenuto non è
nient’altro che un increscioso fattaccio, mirato proprio a screditare il mio collega».
Pasqui lo stava guardando di sottecchi. Forse si stava spingendo un po’ oltre, ma preferiva dire ciò che pensava.
«Sono sicuro che l’onorevole Martino non ha nulla a che fare con questa storia. Ha la mia totale fiducia».
I due capigruppo ringraziarono i giornalisti e uscirono dalla stanza.
«Spero proprio che il tuo segretario non c’entri niente con questa storia, o giuro che me la pagherà cara» gli disse poi Nicolò, una volta rimasti soli.
Pasqui sogghignò con aria di superiorità.
«Sei fuori strada. Per quanto ne so potrebbe anche essere stato il tuo amico. Che, per inciso, ho difeso solo perché me l’ha chiesto il segretario».
Nicolò si morse un labbro. Lo avrebbe volentieri spintonato, se non fosse che poi sarebbe stato lui a finire al tappeto.
 
 
*
 
 
Michele uscì dalla stanza con i polmoni completamente privi d’aria. Era stato un vero e proprio interrogatorio. Un solo tavolo, lui da una parte e cinque persone dall’altra, con ciascuno che lo guardava come se già si fosse dichiarato colpevole. Lui che provava a spiegare la sua versione dei fatti, venendo interrotto a metà di ogni frase con altre domande. Era stato sincero, ma nessuno di loro gli aveva creduto, lo aveva capito dai loro sguardi.
Non avevano prove per prendere provvedimenti contro di lui, ma ormai il danno era fatto. La macchina mediatica aveva iniziato a colpire e non c’era più modo di fermarla. Lo aveva imparato guardando i politici delle varie legislature: un danno d’immagine era un marchio a vita, per quanto fallace potesse essere.
Non appena scese le scale, si ritrovò di nuovo una discreta folla di giornalisti ad aspettarlo. Tenne lo sguardo basso, cercando di camminare velocemente per non essere fermato, ma questo non impedì loro di bloccargli la strada, circondandolo di microfoni.
«Onorevole! Cosa le hanno detto? Che provvedimenti ci saranno?» Michele si guardò intorno, in cerca di un qualsiasi appiglio.
«Non sono tenuto a rispondere» mormorò, cosciente che quella non- risposta avrebbe solo peggiorato le cose.
«Perché non può rispondere?»
«Cosa c’è dietro?»
Sentì il flash di parecchie macchine fotografiche e socchiuse gli occhi. Si stava rovinando da solo, con le sue stesse mani.
Come facevano gli altri a risolvere quel tipo di situazione? Perché nessuno gli aveva mai detto cosa doveva fare in certi casi?
Si morse un labbro, cercando di non guardare nessuna delle telecamere.
«Non ci sarà nessun provvedimento. Io non ho fatto niente». Com’era ovvio, i giornalisti continuarono a fargli domande a raffica. Domande che esigevano una risposta, perché quella sua intervista sarebbe sicuramente finita su tutti i telegiornali.
«Devo andare, per favore…»
Cercò di mostrarsi deciso mentre rompeva il muro di persone e si fiondava nel bagno più vicino, chiudendosi la porta alle spalle tra gli scatti dei fotografi. Aveva fatto un danno.
Un enorme danno.
Chiunque, vedendolo in quell’intervista avrebbe potuto pensare che stava nascondendo la verità, e neanche con troppa abilità. Per quanto fosse sincero, non era stato per niente convincente.
L’ansia peggiorò quando si vide allo specchio. Aveva una faccia terribilmente spaventata e impaurita, con le pupille dilatate e le labbra senza la minima traccia di rossore. A pezzi.
Non c’era più via d’uscita, ormai. Non poteva tornare indietro da quel pasticcio. Non poteva neanche pensare di chiudere gli occhi e risvegliarsi due settimane dopo, quando quel ciclone si sarebbe placato e lo avrebbero, forse, lasciato in pace.
No. Avrebbe dovuto vivere il giorno dopo e quello dopo ancora, sopportare i giornalisti, gli sguardi dei colleghi e, nel peggiore dei casi, anche la possibile rabbia dei cittadini.
Non poteva fare nulla.
Chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime gli solcassero il viso, vergognandosi fino in fondo di quella sua immagine debole che appariva allo specchio.
Strinse la mano a pugno, mettendoci più forza possibile. Per una volta, voleva farsi del male. Desiderava punire quella persona che era stata così stupida da mettersi nei guai, permettendo che qualcuno gli mettesse della cocaina in tasca.
Sbatté forte il pugno contro il muro. Lo rifece di nuovo, più forte e più forte ancora, fino a che non vide gli schizzi di sangue sulla parete bianca. Continuò, di nuovo e di nuovo ancora, mordendosi le labbra per il dolore, finché la porta del bagno scattò.
«Eccoti! Ma dov’eri finito?»
Andreani era proprio lì, e fissava sconcertato le sue nocche sanguinanti. Lui abbassò lo sguardo, vergognandosi per ciò che stava facendo. Nascose le lacrime con la mano, ma nell’atto di pulirsi si lasciò una scia di sangue sulla faccia.
Nicolò lo prese per un braccio e aprì un rubinetto dell’acqua, accompagnandogli le mani sotto il getto. L’acqua si tinse di rosso e Michele gemette per il bruciore.
«Sei un idiota» sospirò Nicolò, senza però troppa severità.
«Non ce la faccio» mormorò piano Michele, «non li sopporto più». Nicolò gli appoggiò entrambe le mani sulle spalle, dolcemente.
«Ascoltami bene» sussurrò Nicolò, quasi come se avesse paura di alzare la voce, anche se nessuno poteva sentirli, «ho appena fatto una dichiarazione insieme a Pasqui in cui ti diamo la piena fiducia. Non devi affrontare tutto da solo».
Michele si staccò dall’abbraccio, ripulendosi il viso. Si nutrì di tutto il coraggio che quei decisi occhi verdi gli stavano trasmettendo. Assorbì il calore del contatto con le mani dell’altro, che a differenza delle sue non tremavano, non esitavano. Perché Nicolò era certo di ciò che stava facendo, e quindi anche lui avrebbe dovuto esserlo.
 
 
*
 
 
«Che ti salta in mente, eh?»
Chiarelli lo assalì non appena ebbe varcato la soglia dell’ufficio. Nicolò lo ignorò, fingendo interesse per tutte le carte che la sua segretaria gli aveva lasciato sulla scrivania.
«Non puoi fare dichiarazioni a nome di tutto il gruppo se prima non si è discusso! L’hai almeno letto il nostro statuto, o sei talmente arrogante di pensare di poter fare il cazzo che ti pare?» urlò.
Nico alzò appena gli occhi, squadrandolo con disgusto.
Si trattava di difendere una persona da false accuse. Non aveva fatto proprio niente di sbagliato.
«Se sei contrario a ciò che ho detto vai in sala stampa e dì un po’ quello che ti pare. Poi non lamentarti se sui giornali uscirà fuori che siamo divisi al nostro interno».
Chiarelli diventò rosso fino alle orecchie. Rovesciò il suo portapenne con un gran fracasso, ma Nicolò non batté ciglio.
«Tu non sei affatto un dirigente, sei solo un coglione. E quando dimostreranno che quella busta di cocaina era effettivamente sua sarai tu a spiegarlo ai giornalisti, chiaro?»
Nicolò si alzò in piedi. Oltrepassò la scrivania, arrivando a pochi centimetri dal suo vice, con gli occhi che lampeggiavano di odio.
«Che cazzo stai dicendo, eh?»
Chiarelli non indietreggiò, ma faticò a reggere lo sguardo.
«Sto dicendo solo ciò che penso. Sono qui dentro da più tempo di te, e so che nessuno sarebbe così coglione da mettere una busta di coca nella tasca di un altro, con il rischio di farsi beccare».
«Michele non le fa queste cose. Hai capito, testa di cazzo che non sei altro?»
Era in qualche modo calmo mentre avanzava, con gli occhi fissi in quelli del suo vice. Chiarelli fu costretto ad indietreggiare per evitare il contatto fisico, evidentemente infastidito da quell’atteggiamento.
«Se ti scaldi tanto è solo perché sai che ho ragione!»
Nicolò finse di non dare peso a quelle parole, ma in realtà passo diversi momenti a pensarci. Il discorso di Chiarelli, da un certo punto di vista, filava. Certo, Marchesi avrebbe potuto trovare mille modi per infilare quella busta di coca senza farsi vedere. Però, si trattava comunque di un rischio non indifferente. Comunque fosse, l’unica cosa certa era che la coca non poteva essere di Michele.
«Ti conviene stare zitto» sibilò Nicolò.
 
 
*
 
 
«Ehi, riccone! Ma che ci fai qui?»
Riccardo Marchesi si guardò in giro, piuttosto nervoso. Di solito non andava a fare certi incontri in luoghi così affollati, ma quella notte non aveva avuto scelta.
«Senti, me ne servirebbe ancora…» disse piano ad un uomo con due piercing al naso, il pizzetto e una maglietta due taglie più grande.
«Ma sei passato la settimana scorsa! Che fine ha fatto tutta quella roba?»
Marchesi sbuffò, infastidito dal doversi giustificare anche con il suo spacciatore.
«È solo un brutto periodo. Ce l’hai o no?»
«Certo che ce l’ho, riccone» rise lui, «ma se mi chiamassi prima magari eviterei di restare a secco».
«Sì, con il rischio di essere intercettato. Sei un vero genio, Bobo, dovresti entrare anche tu in politica» commentò, ricevendo in mano velocemente una busta bianca piuttosto consistente.
«Ehi frate, cazzo ne so che mi finisci duecento di coca in una settimana?»
Marchesi gli fece segno perché si zittisse, tirando fuori le banconote.
«Anni fa giravi con molta più roba, carissimo» sorrise.
«Sì, prima che mi beccassero!» rimbeccò lui.
«Lo sai che ci sarà sempre qualcuno che ti farà uscire» gli ricordò Riccardo.
«Sicuro, perché la roba che ho io non la trovi da nessun altro!»
Il segretario di Sinistra Democratica gli affibbiò una pacca sulla spalla prima di girare i tacchi. Si era trattenuto anche fin troppo in quel posto.
«Ehi, riccone!» gli urlò dietro lo spacciatore, «guarda che prima di un mese non ti voglio rivedere, capito? Lo dico per te, vacci piano con quella roba!»
Marchesi gli alzò il dito medio. Non gli serviva di certo una paternale. C’era già troppa gente che pretendeva di fargliela, non considerando che da quando aveva diciott’anni aveva sempre scelto da solo che strada prendere.
Se non l’avesse conosciuto quella notte di tanti anni fa, dentro quel bar di periferia, forse la sua vita sarebbe stata diversa. Forse non sarebbe nemmeno mai entrato in Parlamento. E forse, ora, non avrebbe una busta di coca in tasca.
Però, tornare indietro non era più possibile.
E così Marchesi si avviò verso l’auto blu che lo aspettava, con un’inquietudine che per qualche motivo non riusciva a scrollarsi di dosso, allontanandosi nel buio di un desolato quartiere di periferia.
   
 
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