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Autore: _Sam12    28/02/2016    1 recensioni
Non sapeva dire cosa l'avesse colpita di lei, forse una parola o il modo in cui piegava di lato la testa quando sorrideva. Rimase tra i suoi pensieri tornando quando meno se lo aspettava.
Si incontrarono per caso ad una gita, e si ritrovarono per caso anche in seguito, come a chiedersi cos'è a questo punto che può avere davvero senso.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO 10



POV VALERIA


La voce dell'insegnante rimbombava lenta e monocorde contro le pareti gialle dell'aula.

Valeria pensava che tutto l'odio nei confronti della scuola si concentrasse anno dopo anno nel colore di quei muri.

Un giallo troppo forte che catturava qualsiasi allegria attorno per non scolorire lui stesso: in breve un parassita.

Giorgio le bisbigliò qualcosa all'orecchio e lei alzò gli occhi al cielo, poi Valeria disegnò un fantasma obeso sul banco.

“Sei tu.” scrisse accanto.

Giorgio annuì sospirando e disegnò una corda attorno al collo dell'omino condannandolo al patibolo.

“Una nuova vittima della matematica.” scrisse allora lì di fianco.

A questo punto la prof lanciò loro un'occhiataccia e sia Valeria che Giorgio si zittirono.

L'insegnante continuò allora la lezione sugli algoritmi e le loro proprietà.

“Mi sembra abbastanza chiaro fino ad adesso...qualcuno non ha capito?” chiese scrutando i suoi alunni.

Né Valeria né Giorgio risposero, ma stavano entrambi guardando storditi la lavagna, increduli di quante scritte quel rettangolo nero potesse contenere.

“Algoritmi?” bisbigliò il ragazzo all'amica, poi scrisse sul banco What do you mean?

Valeria soffocò una risata nascondendosi dietro la testa del ragazzo di fronte a lei.

La campanella suonò e tutti si alzarono per fare lo zaino e uscire.

I due amici furono all'aria aperta in pochi minuti.

“Andiamo dai gemelli domani?” chiese Giorgio.

“Fred e George?” chiese Valeria.

“Smettila di chiamarli così!” rise lui “Sono Marco e Carlo.”

“Sì, potremmo andare da loro.” annuì lei.

La scuola era cominciata da appena una settimana e il caldo di settembre dava ancora quell'illusione di vacanza e la voglia di festeggiare.

“Ci sentiamo più tardi allora.” la salutò Giorgio.

Valeria si avviò alla fermata dell'autobus e si sedette sul marciapiede ad aspettare.

Dal bar accanto proveniva un profumo di patatine fritte che però si mescolava in modo nauseante con quello acre dell'asfalto.

Valeria abitava in quella città almeno da un anno ormai: sua madre si era trasferita per lavoro e ormai la ragazza poteva dire di essersi abituata alla miriade di persone che erano ovunque in qualunque momento.

In realtà le piaceva uscire e confondersi tra la folla, scomparire in quel mare di persone, come se i suoi pensieri si confondessero con quelli degli altri e non fossero più suoi.

L'autobus si fermò a pochi metri da lei, così la ragazza si alzò e lo raggiunse.

In una decina di minuti scese davanti al palazzo dove abitava: un condominio di sei appartamenti dalla facciata rosata e dei balconcini di ferro battuto allineati ad ogni piano.

Salì i gradini contandoli, ma perdendo il conto dopo il numero trentadue e arrivò alla sua porta con il fiatone.

Girò la chiave nella toppa ed entrò: l'appartamento era piccolo, essenziale, ma accogliente.

Eppure era sempre vuoto.

La ragazza poggiò a terra lo zaino sentendo il vuoto sulle piastrelle vibrare, si sentì quasi in colpa schiacciando il vuoto nella pentola per metterci l'acqua, poi accese la televisione per avere la parvenza di non essere sola.

Aspettando che l'acqua bollisse uscì sul balcone, appoggiò i gomiti sulla ringhiera e tirò fuori una sigaretta per accenderla, ma si fermò e la rimise nel pacchetto.

Tornò indietro, chiuse le ante della portafinestra e spense l'acqua che aveva messo a bollire; non vi buttò la pasta, ma mise via tutto.

Aprì il frigo, prese uno yogurt ai frutti di bosco, pelò qualche carota ed andò ad accoccolarsi davanti alla tv.

Senza accorgersene si addormentò e si svegliò che erano ormai le quattro.

Non aveva voglia di fare i compiti, era sabato, li avrebbe rimandati fino alla domenica sera, come suo solito.

Andò in camera per togliere i libri dallo zaino ed ordinarli nei giusti scomparti, poi si sedette alla scrivania e tamburellò le dita sul banco di legno bianco, come indecisa.

Infine si alzò, si avvicinò ad una tastiera accanto alla finestra e con un dito schiacciò un tasto.

Chiuse per un attimo gli occhi con una smorfia, poi si sedette e cominciò a suonare.

Spesso pensava che quella fosse l'unica cosa che lei fosse in grado di fare nella vita; non aveva particolari abilità, non eccelleva in niente, ma sapeva pur sempre suonare.

Aveva cominciato tanti anni fa come per lanciare una sfida a se stessa, come se, vedendo quanto fosse brava, suo padre sarebbe tornato a casa.

Ero veramente così ingenua? Si era poi chieste più volte.

La musica allora cancellava tutto, si ricominciava da capo, e mentre le sue dita scorrevano sui tasti, lei capiva di non essere triste, anzi, di amare se stessa, la sua famiglia e il vuoto di quella casa.

Cosa le impediva di essere felice?



POV EMMA


Fu nei giorni e nei mesi seguenti che cominciai a fare i conti con me stessa.

Lei riappariva nella mia mente quando meno me lo aspettavo, come un fantasma la ritrovavo in ogni cosa, persino nei sogni.

Allora mi svegliavo sudata con il cuore che batteva forte e una sensazione di panico che non riuscivo a spiegarmi.

Un giorno mia madre entrò nella mia camera e mi chiese: “Ma Maria è fidanzata?”

“Sì, mamma...con Giovanni.”

“Non ha degli amici da presentarti questo Giovanni?”

“Non lo so mamma, magari la prossima volta che esco con loro glie lo chiedo.”

Allora era uscita abbastanza soddisfatta, ma poi la settimana seguente era già pronta di nuovo a propormi questo o quel ragazzo chiedendosi come fosse possibile che la sua cara bambina non trovasse nessuno.

Ogni volta che parlava di qualcosa vicino all'argomento “ragazzi”, venivo presa dall'ansia di non essere in grado di recitare, dal disagio per quello che le stavo nascondendo, e conseguentemente ero presa da un'ansia incontrollabile.

C'erano sere in cui, quando spegnevo la luce, mi salivano le lacrime agli occhi e allora mi conficcavo le unghie nei palmi delle mani per scacciare quella sensazione di inadeguatezza e ansia che mi stringeva il petto.

Non volevo essere me stessa con tutte le mie forze.

Cercavo di guardarmi intorno per valutare i vari ragazzi e convincermi che erano loro a piacermi.

Ma se mai uno di loro ci provava con me, mi sembrava improvvisamente tutto così forzato che non riuscivo più a capire se ciò che volevo era stare con loro o essere come loro; così li allontanavo con due parole e mille sensi di colpa.

La parola “lesbica” cominciò a procurarmi un tale senso di ansia che facevo fatica a pronunciarla e se lo facevo mi veniva spontaneo abbassare la voce come se fosse una bomba e potesse scoppiare.

Il tempo passò in fretta e il fantasma di Valeria sfumò via lasciandomi però una buona dose di crisi d'identità da affrontare.

Piano, piano una parte di me cominciò a comportarsi e pensare come supponevo avrebbe fatto lei, un po' come se così potessi esserle vicina o capirla.

Quando me ne resi conto, fui troppo pigra per tornare indietro, lasciai che tutto corresse via come del resto avevo sempre fatto, incapace di prendere in mano la mia vita.

In realtà non conoscevo affatto Valeria, neppure il suo cognome o dove abitasse.

Mi maledissi più volte per non averle chiesto neanche il numero di telefono, avevo solo quello di Giorgio e fui più volte tentata di chiamarlo.

Ma poi ne sarebbe valsa la pena?

A parte il cognome, c'erano davvero tantissime cose di lei che non conoscevo, era davvero la stessa persona della gita, o di solito si comportava diversamente?

E poi volevo davvero chiamare una ragazza e chiederle di vederci? Come l'avrei giustificato?

Ma poi no, io non volevo veder nessuna ragazza, questa era solo una stupida fissazione.

  
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