Autore (sul Forum e su
EFP): claws_Jo / claws
Titolo: Idee
verdi incolori (e camaleonti tra le nuvole) dormono furiosamente
Fandom o
Originale: One Piece
Razze/Generi: Bengala /
Drammatico, Devon Rex / Fluff
Nome del gatto: Silvestro. La citazione
dietro questo nome
era:
Kaze
no sukima ni
kikoeru
Komoriuta yo...
Yami ni toza sareta kibou
Tera shitekure!
Kaze ni mau suna ninari
Kimi no moto he...
Tsutae tai omoi ha
Hate shinaku...
(Nigedashi tatte tsuitekunda)
(Nagedashi tatte kie nenda)
~Itsumademo... itsumademo...
Ikiru kagiri
Riesco
a sentire
un vuoto nel vento,
come una ninnananna.
La speranza è intrappolata
nell’oscurità,
ti prego, non smettere di brillare…
Diventerò sabbia e volerò col vento,
così potrò raggiungerti.
I desideri che vorrei esprimere non conoscono limiti.
Anche se li abbandoni, non se ne andranno
Anche se scapperai via, loro rimarranno lì,
Sempre… Sempre…
Finché sarò vivo.
Hyadain, Sabin’s Rap
Prompt micioso: Arrampicata /
Crossdressing
Il gatto è nella
storia(se presente): Sì
Introduzione: Luost era un
sopravvissuto. Spesso si
domandò con quale criterio qualcuno venisse tirato fuori dal
buio e qualcun
altro ci venisse spinto dentro e ingurgitato.
NdA
(facoltative): conchauso › nome
inventato per una lingua inventata. Da dove l’ho tirato
fuori? Semplice! La
cittadina si chiama Shells Town, no? Shell
vuol dire conchiglia, e conchiglia in latino si dice concha. Io sono una brutta persona che
ama giocare con le parole ed ecco il risultato.
Shells
Town ›
cittadina in cui Rufy incontra Zoro, all’inizio del manga.
Rika è la bambina
che porta a Zoro del cibo e Ririka è la mamma della piccola
nonché proprietaria
di un bar.
Il
marmocchio che
ferma il tempo a Marineford e il suo amico › sono
rispettivamente Coby e
Helmeppo.
Idee verdi incolori dormono furiosamente
› frase che un linguista, Chomsky,
utilizzò per parlare di nonsense e frasi grammaticalmente
corrette: dopotutto,
anche in inglese, colorless green ideas
sleep furiously è grammaticalmente corretta ma non
ha senso. Anche Luost è
così – secondo Niké. Si lega anche al discorso di
Niké, visto che lavora nel
campo della linguistica. Camaleonte tra
le nuvole è una mia invenzione e per questo
è tra parentesi nel titolo:
credo che per questa formula non ci siano bisogno di spiegazioni,
almeno a fine
lettura. C:
Al di là delle nubi e delle stelle, /
nel
cosmo, la luce e la bontà / siedono e giocano come sorelle /
Noi però
preferimmo l’oscurità / a una vita vissuta nella
pace. / Senti le anime
chiamate dall’aldilà? / Ora tutto tace, tutto tace
› traduzione un po’ molto
libera di un pezzo di What
did you do in the war, dad?, canzone dei Sonata Arctica
(oddio amo i Sonata).
L’originale
è
questa: Far and beyond the stars /
there’s a place where all the love / all the goodness we
could have still
reside / but we chose life away from the light.
Del
gatto Bengala ho mantenuto: il motivo maculato del pelo e gli occhi
grandi, il muso triangolare, la vocalità ampia e lo spirito
del gatto selvatico.
Del Rex ho mantenuto: il pelo ricciolino, i baffi arricciati e le
orecchie
grandi. Non sono molto brava con la genetica, quindi non saprei dire
quali geni
siano recessivi e quali non lo siano: mi appello alla licenza poetica e
al
fatto che i bastardini sono sempre grandi sorprese.
Questa
storia partecipa al contest: Storie
Feline [Multifandom + Originali] indetto da zenzero91 sul
forum di EFP.
Buona lettura! C:
Idee verdi incolori (e camaleonti tra le nuvole) dormono furiosamente
Luost
aveva
partecipato alla battaglia di Marineford. Non voleva parlarne, ma era
comprensibile: chi vorrebbe parlare dei corpi degli amici riversi a
terra,
delle urla che trapassano le orecchie, delle scosse di terremoto, della
furia
degli elementi nella battaglia? Dei giganti, dei mostri, dello tsunami
che
travolse l’isola?
Luost
era un
sopravvissuto. Spesso si domandò con quale criterio qualcuno
venisse tirato
fuori dal buio e qualcun altro ci venisse spinto dentro e ingurgitato.
Dopo
più di
venticinque anni di servizio in Marina, Luost decise di averne avuto
abbastanza. Le navi non facevano più per lui –
stare ai cannoni ancor meno.
Troppo rosso era stato schizzato sulle pareti sottocoperta tra la
polvere da
sparo e i proiettili da caricare, troppe voci riempivano la sua testa:
il
cuore, ammuffito insieme al legno della nave su cui aveva prestato
servizio
negli ultimi tempi, non poteva più reggere quei ritmi
micidiali.
Sarebbe
tornato a
casa, nel mare Orientale. A quarantaquattro anni il futuro in genere
deve avere
già buone fondamenta, eppure Luost le aveva abbandonate dopo
la guerra: provava
un terrore inconsolabile dovuto al fatto che non aveva né
soldi né sogni –
soltanto incubi e stress e sfiducia. Ricordò la ragazzina
piromane, Anice, che
aveva rischiarato le sue giornate quando avevano viaggiato per il
Paradiso
della Rotta Maggiore: lei aveva un sogno e forse, in quel mentre,
l’aveva
perfino esaudito.
Lui
non aveva
obiettivi così alti. Forse era un fallito. Forse un codardo.
Non aveva voglia
nemmeno di ribattere a se stesso. Così, una sera, dopo aver
ricevuto l’ultimo
stipendio, chiuso in una piccola stanza in un albergo di Water Seven,
Luost dai
capelli rossi e il sorriso facile pianse in silenzio.
Un
uomo di
quarantaquattro anni non dovrebbe più farlo?
Una
nave della
Marina gli diede un passaggio oltre la fascia di bonaccia. Una volta
arrivato a
Loguetown, Luost decise di fare ritorno a casa lavorando su dei
mercantili
(proprio come aveva consigliato di fare ad Anice, a ben pensarci!)
lungo le
rotte che gli servivano per tornare a Shells Town, il suo villaggio
natale.
Quante
cose erano
cambiate dalla sua partenza! Le case erano diventate più
alte, il numero di
persone per la strada era aumentato e il rumore della folla, in certi
momenti,
avrebbe potuto assordare un elefante.
La
base della
Marina aveva ancora una certa importanza. Da alcuni rapporti e dalle
lettere di
sua madre Giara, Luost aveva scoperto che da Shells Town era passato
Cappello
di Paglia, Monkey D. Rufy, all’inizio del proprio viaggio.
Tutta la storia di
Roronoa e del capitano Morgan – nonché di suo
figlio e del suo amico, il
marmocchio che aveva fermato il tempo a Marineford – gli era
nota, bene o male.
Sua madre gliene aveva parlato a lungo, nelle lettere che gli erano
arrivate:
Giara aveva sempre avuto la straordinaria capacità di capire
il valore delle
persone soltanto guardandole, e—questo era il motivo per cui
Luost se n’era
presto andato via di casa.
Vero:
doveva
almeno visitare la sua tomba, visto che Giara era stata sepolta nel
cimitero
cittadino. Ma, prima, il proprio dovere di figlio – per
quanto fosse stato un
figlio lontano, irritante e impulsivo – lo avrebbe condotto
alla casa della
loro famiglia, giù verso il faro, appena fuori
città. Suo padre Ferdìn abitava
ancora laggiù.
Giara
era morta
durante il suo servizio sulla Rotta Maggiore: era un dolore mai
perfettamente
guarito, come un soffio al cuore, che rimane sempre aperto anche senza
far
male. Di certo era lo stesso sentimento che Ferdìn doveva
provare ogni giorno –
o almeno Luost così credeva.
Quando
vide Ferdìn,
Luost non si aspettò di trovarlo così in forma
– per quanto potesse essere in
forma un uomo confinato sulla sedia a rotelle. Era perfino andato ad
aprire la
porta con un’energia per Luost impensabile.
«Salve,
papà.»
Ferdìn
aveva le
lacrime agli occhi quando suo figlio gli si avvicinò e si
inginocchiò di fianco
a lui.
«Mi
dispiace di
averti lasciato da solo per così tanto tempo.»
«Vorrei
soltanto
che tu fossi stato qui quando ne avevo bisogno, Luost.
Giara—e tu eri su una
nave della Marina chissà dove.»
Luost
incassò
tutti i dispiaceri e le sofferenze del proprio vecchio padre senza
alzare la
testa: così gli aveva insegnato Ferdìn e
così aveva fatto per ventisei anni in
Marina. Entrambi, dopo aver dissotterrato i brutti ricordi e il male
mai
completamente assorbito, si soffiarono il naso per nascondere il pianto.
Luost
non
trascorreva una notte senza sentirsi un’inutile e ignobile
creatura.
«Buongiorno,
Niké.
Il solito?»
«Grazie.»
«Come
proseguono i
tuoi studi sull’antico conchauso?»
Domandò Ririka, la proprietaria del bar, preparando
un caffè forte.
Niké
sbuffò. «Sto
ancora cercando di capire quale sia la scrittura nel codice di
pergamena che
Travimini ha trovato nella biblioteca. Almeno sono felice di aver
trovato
impiego su quest’isola: nessuno aveva avuto il coraggio di
venir qui e di far
pulizia negli archivi!» Adorava parlare, e
adorava parlare del
proprio lavoro: Niké spesso chiacchierava senza davvero pensare a che
pensiero
stesse uscendo dalla propria bocca. «Senza offesa.»
Si affrettò ad aggiungere,
bevendo il caffè per nascondere l’imbarazzo.
«Nessun’offesa,»
rispose Ririka, «avevamo bisogno di qualcuno che facesse
ordine e l’abbiamo
trovato. È un grosso impegno, il tuo.»
Il
campanello all’ingresso
del bar pigolò e Ririka riconobbe il nuovo arrivato a causa
dei suoi
inconfondibili capelli rossi. «Luost...?»
«Sono
io.
Buongiorno, Ririka. Chi non muore si rivede, eh?»
Niké
non si voltò
a guardare il nuovo arrivato quando Ririka andò incontro a
Luost per
stringergli la mano. «Come stai?»
«Sono
stato
meglio. Mi faresti un caffè?»
Davanti
al miglior
caffè di tutta Shells Town, Luost si sentì a
casa. Quando era di servizio
lì, nella sua cittadina natale, prendeva ogni mattina il
caffè da Ririka –
saltarlo era considerato di pessimo augurio.
«Buona
giornata.»
Salutò Niké, con un cenno a Ririka e Luost. Si
alzò e uscì dal locale di corsa.
«Quanto
tempo sei
stato via? Vent’anni?»
«Ventisei.»
Ririka
sbuffò,
scuotendo la testa. «Troppo tempo. Se penso che Rika
è ormai diventata una
signorina, mi sento sempre più vecchia.»
Luost
non rispose.
Era invecchiato di vent’anni nel giro di poche ore
– quella maledetta guerra
non smetteva mai di tormentarlo, di stringergli le sue dita nere e
rosse sul
collo, di sussurrargli con le voci dei suoi compagni di squadra Perché tu sì e io no?,
e lui era il
salvato, e Utra era il sommerso, e con Utra c’erano Elinni,
Bolva, Macino—
«Sono
cambiate
così tante cose. Prendi Niké: è arrivato un paio
di anni fa con un suo collaboratore
per mettere in ordine l’archivio cittadino e non sono che
all’inizio del
lavoro!»
Negli
occhi chiari
di Luost non c’era spazio per quella figurina appena uscita
dal bar: c’era
ancora la foto che Ferdìn gli aveva regalato –
erano i suoi genitori, in piedi
uno accanto all’altra, davanti al faro fuori
città: tutti e tre ormai vecchi,
tutti e tre stagliati contro le onde.
Se
loro erano
sempre rimasti saldi come fari sugli scogli, Luost si lasciava
trascinare dalla
corrente come se navigasse nelle acque della Reverse Mountain.
Luost,
quella
sera, mentì a Ferdìn. Gli disse che aveva
già comperato una casa vicino al
porto, in città, quindi non avrebbe dovuto dormire nella
casa in cui aveva
sempre vissuto. Luost cercò di convincersi del fatto che era una bugia bianca, ma non ci
riuscì: la realtà era che stava
scappando dagli occhi del proprio padre.
Non
c’era nessuna
casa, solo una stanza vicino al bar di Ririka.
Si
rovesciò sul
letto tirandosi i capelli con le mani. Uno sbaglio dopo
l’altro, un tradimento
e una menzogna, e così via, più giù,
verso il buio dei naufragi, fino a
diventare un unico, grosso, maledetto fallimento. Un’altra
notte insonne, in
cui gli spettri dei suoi compagni gli avrebbero fatto visita, in cui il
viso di
quel ragazzino che spezzò il ritmo della guerra non sarebbe
riuscito a dargli
pace.
Gli
era piaciuto
viaggiare per la Rotta Maggiore a bordo di un vascello della Marina,
incontrando più mercantili che pirati, sparando
più per manutenzione che per un
vero pericolo. Quasi si dimenticò di essere stato una
persona divertente, prima
di Marineford.
Notte
insonne fu.
Si
era assopito solo
al mattino, sul letto ormai sfatto per tutte le volte in cui si era
rigirato
sulla pancia e sui fianchi nel cercare una posizione comoda. Dieci ore
di buio
e Luost aveva capito soltanto che il rubinetto del suo vicino di casa
perdeva.
Trascorse
un’altra
giornata in uno stato tra il sonno e la veglia, in cui gli incubi
trovano un
terreno accogliente per moltiplicarsi. Suo padre non lo
cercò e Luost non aveva
alcuna intenzione di rivedere volti noti – non fino a quando
desiderava sparire
nel buio sotto al cuscino. La seconda notte non gli portò
consigli migliori
della precedente.
Il
bisogno di
uscire all’aria aperta si sentì al mattino del
secondo giorno: allora Luost si
schiarì la voce e suonò al campanello del proprio
vicino di stanza.
«Buongiorno,»
disse all’inquilino, un ragazzo dall’aria
addormentata (ma forse era solo il
sonno), «il vostro rubinetto perde.»
«Mi
scusi. Non me
ne sono accorto. Le ha dato fastidio di notte?»
«No,
no, nessun
fastidio.»
«Vedrò
di
aggiustarlo stamattina. Grazie!» Il ragazzo della porta
accanto sorrise e
salutò agitando una mano, proprio come un bambino.
Luost
fu talmente
sconvolto da quell’atteggiamento infantile che si
rifugiò nella propria
stanzetta come se il suo vecchio tenente avesse gridato la ritirata.
Ogni
tanto Luost
pensava ad Anice. L’ultima volta l’aveva incontrata
a Water Seven e avevano
bevuto una birra assieme – la sua valchiria gli aveva
rivelato che sarebbe
partita per un nuovo viaggio. Perché Anice voleva riprendere
il mare? Luost non
lo ricordava più: forse lei gliel’aveva detto, ma
lui se n’era dimenticato
completamente. Un momento—forse era qualcosa per la voglia di
conoscere i
fenomeni del mondo. Sì, doveva essere una cosa del genere. A
Luost non importò
granché il cosa:
piuttosto quel
giorno l’aveva reso felice sapere che Anice, la ragazzina a
cui aveva insegnato
tutto quello che sapeva su come miscelare le polveri e i reagenti per
le
reazioni da sfruttare nelle battaglie navali, non aveva perso la voglia
di
vivere e conoscere il mondo.
Luost
stesso era
stato sospinto in avanti dal desiderio di vedere le terre oltre
l’orizzonte, ma
quando Marineford era giunta prepotentemente ai suoi
occhi—allora Luost aveva
perso tutte le battaglie della propria vita, dalla prima
all’ultima, da quella
per la serenità a quella della mera sopravvivenza
(perché ormai Luost faticava
anche a sopravvivere ai propri ricordi).
«Le
offro un
caffè.»
Niké,
la figurina
che qualche giorno prima era scappata dal bar di Ririka, si era
mostrata al
fianco di Luost nel suddetto locale a un orario imprecisato del mattino
–
dopotutto, Luost si era rigirato nel letto per ore prima di lavarsi la
faccia e
di scendere al bar per una sottospecie di colazione.
«Perché?»
Chiese
Luost.
«Perché
ha bisogno
di parlare con qualcuno: offrire un caffè è un
buon modo per cominciare un
discorso.» Niké si rivolse a Ririka, che annuì e
preparò la macchina.
«Allora
grazie.»
«Vede
che
funziona, un caffè, per parlare?»
Se
Niké non fosse
stato un uomo e non fosse stato così basso e minuto, sarebbe
stato molto simile
ad Anice – aveva un’energia che filtrava attraverso
le parole e i gesti, una
curiosità e un’acutezza di spirito che si vede
soprattutto nei ragazzini e nelle
ragazzine, nella loro voglia di vivere, nei loro sogni.
Il
sogno di Luost,
in quel periodo, era poter dormire decentemente. Non un gran sogno, ma
da
qualche parte si deve pur ripartire, giusto?
«Lo
vuole con lo
zucchero?» Chiese Niké.
«No.»
«Ce
ne metta un
cucchiaino. Fa bene alle persone acide, un po’ di
dolcezza.» Niké mise sotto il
naso del proprio compare di caffè una zuccheriera piena fino
all’orlo.
Luost
obbedì senza
opporsi, mentre la figurina rompiscatole tirava fuori
un’espressione a metà tra
il perplesso e l’infastidito. «Lei era nella
Marina, giusto?»
«Non
mi sembra di
averlo mai detto.»
«Forse
me l’ha
detto Ririka.» Niké non si arrese. «Ha visto cose
interessanti, nei suoi anni
di servizio?»
«Cosa
intende per
“interessanti”?»
«Persone
che
parlavano lingue che lei non conosce, ma che le sembravano
famigliari.»
Luost
ci pensò su
tra un piccolo sorso di caffè e l’altro.
Benché non fosse per nulla felice di
ripensare ai ventisei anni spesi al servizio del Governo Mondiale,
ricordare le
avventure era certo meglio che ricordare la guerra. I volti degli amici
gli
stringevano il cuore in una tenaglia soffocante, però le
loro risate riempivano
la sua testa di rumore e questo gli serviva per ragionare a mente
lucida.
«Forse
ad
Alabasta...? In un paesino sulla costa settentrionale, credo. Mi aveva
colpito
perché un signore anziano che non parlava la nostra lingua
aveva capito che uno
dei miei compagni aveva mangiato un ragno velenoso scambiandolo per del
cibo.»
Il
viso di Niké si
animò proprio come quello di Anice: sorrise, aprì
appena appena la bocca per
meraviglia, e sbatté le palpebre allegramente. Poi
batté i pugni sul tavolo, un
po’ come Anice, ed esclamò: «Lo
sapevo!»
Luost
finì di bere
il caffè mentre Niké tirava fuori un taccuino dalla giacca e
cominciava a
scrivere chissà cosa in una scrittura fittissima e piena di
riccioli – sembrava
divertirsi sia nello scoprire qualcosa di nuovo, sia nel far scivolare
la penna
sulla carta.
Poi
Niké si
schiarì la voce, recuperando il contegno, e disse:
«Mi piacerebbe parlare con
lei dei viaggi che ha fatto. Avrebbe del tempo da dedicarmi? La voglia,
anche?»
«Ci
penserò.»
Ci
pensò per due
mesi.
«Come
mai ci ha
messo tanto?» Domandò Niké, che fece accomodare
Luost sulla poltrona più comoda
di tutto il soggiorno prima di prendere posto al tavolino basso, dove
aveva
appoggiato il proprio taccuino.
«Avevo
bisogno di
dormirci su.»
«Ha
dormito due
mesi?»
«No:
per due mesi
non ho dormito granché. La scorsa notte è stata
la prima in cui ho dormito più
di due ore.»
Si
guardarono, in
silenzio. Per la prima volta da quando aveva conosciuto Niké, Luost si
chiese
quanto una persona potesse essere androgina –
perché avrebbe potuto scambiare
Niké per una donna, se non fosse stato per l’abbigliamento
maschile, il taglio
corto di capelli e la mancanza di seno. Niké, in compenso, si chiese
quali
mostri Luost avesse affrontato in due mesi.
«Tè?
È al limone.»
«Grazie.»
Niké
sparì in
cucina e tornò due minuti dopo con una teiera e un paio di
enormi tazze da
colazione. Si tolse gli occhiali, si passò una mano tra i
capelli ed esclamò:
«Parli a ruota libera. Se vuole, possiamo darci del tu. Ti
ascolto.»
In
quel momento
una saetta felina tagliò per il soggiorno, spiccando un
salto per finire tra le
braccia di Niké. «Silv—! Devi smettere di farmi gli
agguati!»
«...
Silv?»
«Silvestro.
L’ho
chiamato così perché è un piccolo
selvaggio, ed è il mio gatto. L’ho trovato
dalle parti del porto una delle mie prime sere a Shells Town. Era tutto
nero
per la sporcizia e per l’arrabbiatura, così me lo
sono fatto amico e l’ho
portato a casa. Vero, Silv?»
Luost
ebbe la
netta sensazione di trovarsi davanti a una mamma che tesse le lodi del
proprio
bambino, ma evitò di farlo presente ad alta voce, anche
perché vedere un uomo
adulto che cerca di imitare le fusa del proprio gatto gli
sembrò divertente.
Forse
avrebbe
potuto ricominciare a ridere – come quando c’erano
ancora Utra, Anice,
Macino... come quando i muscoli del suo viso non erano contratti in
smorfie
dolorose che non era riuscito a sbloccare per molto tempo.
Niké
aveva preso
Silvestro da sotto i gomiti e stava facendo il gioco del naso-naso con
il
gatto, proprio come se fosse stato suo figlio. Il micio non sembrava
protestare,
anzi: le fusa erano diventate un felice rumore di sottofondo in
mancanza di
musica o di altre persone. Luost bevve due tazze di tè prima
che Niké decidesse
di prestare attenzione al proprio ospite: in compenso, quando i giochi
terminarono, Silvestro pensò bene di strusciarsi sulle gambe
di Luost per
spargere il proprio odore su quel nuovo venuto dall’aria tesa.
«È
un gatto
buonissimo. Quando l’ho trovato era soltanto spaventato e
affamato. Il
veterinario mi aveva detto che avrebbe potuto perdere la
capacità di correre,
invece adesso va che è una scheggia.» Poi
guardò Luost negli occhi,
squadrandolo con un’occhiata: se Luost avesse potuto fare un
disegno di quello
sguardo, avrebbe disegnato il grafico di un’onda ad altissima
frequenza. «Aveva
solo bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui.»
A
causa di quegli
occhi scuri che lo fissavano, Luost ebbe l’impressione che
Niké stesse parlando
di lui, non di Silvestro – che invece era salito sulla
poltrona e aveva
convinto Luost ad accarezzarlo e a fargli dei grattini sotto il mento.
Luost si
concentrò per essere il più delicato possibile
contro la pancina maculata del
gatto.
«È
un bel gatto.»
Ammise. Come se avesse capito il complimento, Silvestro
sollevò la testolina
triangolare e tirò indietro i baffi arricciati, cercando la
mano di Luost per
una carezza. Il movimento mise in evidenza la sua bellissima gorgiera
ricciolina color crema a strisce scure: sembrava il piumaggio impettito
di un
uccello che vuole conquistare la propria signora. Il collo pelosissimo
faceva
venire una voglia matta di coccolare quel micetto allegro e rumoroso
– e forse
lui lo faceva apposta, visto che adorava le carezze.
Niké
cominciò a
bere la prima tazza di té. «Credo che tu gli stia
simpatico.» Parve riflettere
su qualcosa di lontano nel tempo, poi aggiunse: «Puoi venire
qui quando vuoi,
Silv è solo contento. Ah, ho scoperto che abiti di fianco al
mio assistente, Travimini.
Mi ha detto che hai sentito il rubinetto perdere acqua.»
«Era
due mesi fa.»
«Meglio
tardi che
mai, no?»
Luost
non rispose
– era impegnato a coccolare Silvestro, che
apprezzò molto tutte quelle
attenzioni.
⁂
«Ti
servono a
qualcosa le nostre conversazioni?» Chiese Niké, un giorno.
«Credo
di sì,»
rispose Luost, «quando sono qui—è come
se fossi con un amico. Mi sento al
sicuro.»
«Allora
possiamo
festeggiare, no?» Niké era in piedi e si stava dirigendo in
cucina, forse per
recuperare dei biscotti. Silvestro seguì quella figurina
minuta fino agli
scaffali dove Niké conservava marmellate e altri dolci.
«Luost,
fammi una
cortesia, vieni a prendere i biscotti. Con Silv tra i piedi non posso
salire
sul ripiano per prenderli.»
Luost
si presentò
in cucina, alto sul proprio metro e ottanta. Aveva tirato fuori un
sorriso
piccolo (ma sincero!) quando disse: «Potrei prendere
Silvestro e tu potresti
occuparti dei biscotti, no?»
«Tu
e Silv vi
coalizzate sempre contro di me. Non è giusto.»
Luost
acchiappò
Silvestro e lo tenne tra le proprie braccia, mentre Niké si
arrampicò sul
ripiano accanto ai fornelli, alla ricerca dei dolci gommosi di frutta
che aveva
comperato per le occasioni speciali.
Accadde
tutto in
due secondi netti: Silvestro si contorse tra le braccia di Luost, che
perse la
presa sull’animale; il gatto tirò fuori gli
artigli per spiccare un salto e,
nella foga del momento, non riuscì a centrare il proprio
obiettivo, cioè il
ripiano; invece finì con le unghie sulle gambe di Niké e
risalì sulla sua
schiena, affondando gli artigli nella camicia di Niké – a cui
non inferse
ferite profonde, non fisiche, almeno.
Silvestro
si
arrampicò fin sulla testa di Niké e si rintanò
dentro l’armadietto dei
biscotti: da lassù avrebbe allontanato tutti quegli umani
che attentavano alla
sua povera serenità.
«Silv—!
Luost,
tutto bene?» Chiese Niké, quando ebbe di nuovo i piedi sul
pavimento: sembrava
che i graffi del gatto non avessero avuto gravi ripercussioni sul suo
corpo.
Invece prese il polso di Luost e controllò che le sue
braccia fossero in buone
condizioni. «Vado a prendere del disinfettante.»
Luost
attese, in
silenzio: aveva intravisto qualcosa, sulla schiena di Niké, di cui non
voleva
ancora parlare. C’era un silenzio buono, nella cucina
– uno di quei silenzi in
cui le voci dei fallimenti di Luost (che avevano nomi e cognomi, a
partire da
Giara) non entravano in contatto con il mondo dei vivi. Forse era
merito di
Silvestro, forse di Niké, forse di entrambi.
Gli
avevano fatto
bene—del bene. Quella fascia sulla schiena di Niké avrebbe
potuto creare
problemi irreparabili tra loro, e Luost non voleva perdere quella
specie di
amicizia e rispetto che avevano costruito. Decise di tacere.
Il
fatto è che fu
Niké a riportare alla luce l’argomento, ma lo fece con
naturalezza e a modo proprio.
«Ricordi
che
studio lingue comparate, no?» Chiese Niké, mentre tirava
fuori i cerotti da
applicare sulle braccia dell’amico.
«Sì.»
«In
un dialetto di
Loguetown, sarei un camaleonte tra le
nuvole. Tu verresti chiamato idea
verde incolore che dorme furiosamente.» Niké si
grattò la testa. «Mi chiamo
Niké, ma mi chiamo anche Melia. Mi spiace che tu l’abbia
scoperto così. Giuro
che terrò Silv a stecchetto per un mese, dopo quello che ha
combinato.»
Era
un reggiseno a
fascia color carne, quello che Luost aveva visto quando la camicia era
scivolata sulle braccia di Niké sotto le unghie di Silvestro. La prima
impressione si era rivelata giusta.
Luost
ebbe voglia
di piangere – di nuovo, come mesi prima, chiuso in una
stanzetta d’albergo,
quando tutto il peso del mondo s’era riversato sulle sue
spalle, sul suo cuore
stanco, nei suoi occhi secchi. Non riusciva a capirne il
perché: era forse solo
un impulso, un bisogno di buttar fuori lo stress e la brutta sensazione
di
repulsione nei confronti di Melia.
«Devo—devo
andare.» Disse Luost, balbettando. Si sottrasse alle mani di
Niké, si alzò e
sbatté la porta di casa di corsa, quasi scappando da un
campo di battaglia – dal
campo di battaglia. Era un’altra
Marineford, di nuovo aveva perso un amico (o un’amica? Come
doveva considerare
Niké?), di nuovo s’era voltato per non guardare gli amici
sprofondare sotto la
pellicola di pece che andava spandendosi sul mare come una malattia,
ancora,
giù, finivano giù, come i gabbiani intrappolati
nel catrame—
«Ora
tutto tace,
tutto tace,» aveva canticchiato Niké, guardando Silvestro
ancora dentro
all’armadietto. Il gatto scese morbidamente sul ripiano
vicino ai fornelli e
Niké gli accarezzò la schiena teneramente, perché
accarezzare Silvestro era un
gesto consolatorio.
Luost
era scappato
una seconda volta.
«Mai
mettere
insieme nitro e glicerina, Anice. Queste due assieme fanno partire non
solo il
cannone, ma l’intera nave. E non va bene per nulla.
D’accordo?»
«Sì,
Luost.»
Poi
Anice aveva
inclinato la testa verso sinistra, aveva sbuffato e pensato ad alta
voce: «Lo
sai perché ci hai provato già una volta, oppure
lo sai perché te lo hanno
insegnato?»
Era
un vecchio
ricordo sperduto, rinvenuto in un momento di poca lucidità.
Quanto tempo era
trascorso da quando Anice glielo aveva chiesto? Quanto tempo da quando
aveva
scoperto che Niké non era un uomo, ma una donna che si vestiva da uomo,
si
comportava come tale e—e aveva la mascella da uomo! Quanto
tempo—?
S’era
sentito
tradito da Niké. Pensava di potersi fidare di quella figurina minuta
che beveva
tè e caffè tutto il giorno, che lo ascoltava
attentamente assieme a un
gattaccio orfano che aveva trovato in Niké una sorta di mamma.
Se
Silvestro non
avesse tirato quel brutto tiro a Niké, quando Luost si sarebbe accorto
di
Melia?
Luost
desiderò di essere
in grado di accettare se stesso, in modo tale da riuscire ad accettare
anche
gli altri. In un secondo di maledizione si chiese perché
Utra, e non Luost dai
capelli rossi, fosse morto.
Lo
sapeva perché
altri glielo avevano insegnato. Lui non aveva mai scoperto nulla, aveva
sempre
seguito il protocollo, e ora,
guardatelo!, sono un mostro, sono inutile. Si mise le mani
nei capelli e
urlò.
Quando
la voce se
ne andò, portando con sè gli incubi, Luost si
alzò dal letto e decise di darsi
un pugno in faccia prima di cambiare un pochino la propria vita
– prima di
pensare ai propri compagni non come àncore che lo tenevano
con la testa sott’acqua,
nel buio; ma come fari, le salvezze nel mare.
Ferdìn
aprì la
porta e si trovò davanti il proprio unico figlio, dritto
come un fucile e magro
come un ragazzo lasciato solo troppo presto. Quando Luost si
inginocchiò di
nuovo ai piedi del padre, Ferdìn lo abbracciò
come poté, forse tirandogli un
po’ i capelli rossi, forse ondeggiando a destra e a sinistra
per i singhiozzi.
«Ti
ho mentito,»
disse Luost, piangendo senza ritegno e senza vergogna, «non
è vero niente. Non
mi è dispiaciuto averti lasciato solo: ero felice, per mare.
Ero felice—fino
alla guerra. Quella guerra si è portata via tutto quello che
avevo costruito
per me. Non mi sono comperato una casa giù in
città. Non ho un futuro decente
davanti. Non ho più amici, non ho più
speranze.»
Ferdìn
pianse
perché non esistono parole più terribili di
quelle sincere di un figlio che non
si è sentito amato – perché qualcosa
non ha funzionato nel suo essere padre,
perché Luost era partito troppo presto per
l’accademia, per altri motivi più o
meno rilevanti che si erano accumulati nel corso del tempo fino a
diventare una
discarica insopportabile di sbagli a cui, ormai, era impossibile
rimediare.
Intervenire sul passato non è possibile: sul futuro, magari,
qualcosa può
esser fatto—
Luost,
invece,
pianse per espellere le amarezze e le sofferenze di
quarant’anni di vita.
Scacciò dal proprio cuore il risentimento nei confronti di
Ferdìn e Giara, il
fastidio che Niké gli aveva arrecato; conservò invece i
ricordi dei propri
compagni d’armi, dei luoghi che aveva visitato, le emozioni
provate durante
l’addestramento. Espulse quei dolori che, per quanto avevano
avuto ragione
d’essere, non l’avrebbero portato più
lontano di così.
«Mi
dispiace,
Niké.»
Luost
aveva gli occhi
azzurri arrossati, ma puliti. Niké gli sorrise mestamente.
«Ti perdono se mi
dedicherai un po’ di tempo.»
«Sì.»
Luost
si sedette
sulla poltrona.
«Al
di là delle
nubi e delle stelle, nel cosmo, la luce e la bontà siedono e
giocano come
sorelle,» canticchiò Niké, andando in cucina a
prendere una tazza per Luost.
«Noi però preferimmo
l’oscurità a una vita vissuta nella pace. Senti le
anime
chiamate dall’aldilà?»
Niké
ritrovò Luost
ad asciugarsi gli occhi con un fazzoletto.
«Ora
tutto tace,
tutto tace.»
«È
una canzone?»
Chiese Luost.
«È
il motivo per
cui lasciai la mia famiglia e per cui loro non mi volevano
più. È il mio
lavoro.» Niké si sedette al tavolino e i due si fissarono a
lungo, in silenzio.
Negli
occhi di
Niké c’era un velo di tristezza che Luost voleva strappare a
metà per rivelarne
la vitalità – la sua energia infinita, a
cui Luost avrebbe desiderato
legarsi come si lega una mano a una corda per salvarsi
dall’abisso.
«Come
ti devo
chiamare?»
«Niké.»
«Niké è la parola che il
vecchio esclamò
quando il mio compagno guarì dalla malattia, nel
deserto.»
«Lo
so. L’ho
scelto appositamente perché è
un’esclamazione di gioia. Senti—dalla tua stanza
senti ancora il rubinetto che perde?»
«No.»
«Ieri
ero da
Travimini e perdeva di nuovo. È un progresso, non
credi?»
«Non
per il
rubinetto.»
Niké
rise. La sua
risata accompagnò la discesa in campo di Silvestro che, con
i suoi bellissimi
occhi verdi e le sue orecchie grandi, fece il proprio ingresso in
soggiorno
arricciando la coda proprio come erano arricciate le sue vibrisse.
Valutò la
situazione annusando l’aria, fu accarezzato sulla testolina
maculata da Niké e
poi saltò in braccio a Luost, che venne perdonato per la
fuga di qualche
settimana prima con un paio di carezze sotto il mento.
«Hai
capito cosa
intendo.»
«Certo.»
Una
sensazione di
serenità veniva trasmessa dalle fusa di Silvestro fino alle
mani di Luost e ai
suoi cinque sensi – come se stesse bevendo del buon vino
assieme a un vecchio
amico, con una musica orecchiabile e tanta luce a inondare la stanza.
Avrebbe potuto
abituarsi a provare simili sentimenti di nuovo. Certo, forse quel
momento di
pace durò un minuto soltanto, ma gli fu sufficiente per
capire di essere pronto
a vivere ancora. Il che non significava tornare a una condizione
precedente alla
guerra: era piuttosto una consapevolezza ulteriore, per la quale Luost
si
rallegrò dell’essere ancora vivo e si promise di
non perdere più la speranza.
Luost
guardò a
lungo Niké – il profilo della sua mandibola, a essere
precisi. Le gambe di Niké
erano il cuscino di Silvestro, acciambellato con le zampine a
proteggere gli
occhi dalla luce della lampada.
«Cosa
stai
pensando?»
«Che
hai un viso
androgino.»
«Ma
davvero?»
Sospirando,
Luost
si sistemò meglio contro la spalla di Niké e
grattò la testolina triangolare di
quel nobile selvaggio di Silvestro. «Stavo pensando ai miei
compagni. A mio
padre e mia madre.»
«Hai
fatto pace
con Ferdìn?»
«Più
o meno.»
«Io
non l’ho mai
fatta coi miei. Loro mi hanno abbandonato appena dopo il giorno in cui
li
abbandonai io.»
«Perché
non
andavate d’accordo?»
«Perché
io volevo
studiare le strutture del linguaggio e, nello specifico, le lingue
antiche del
Mare Orientale. Credo fermamente che, un tempo, quelle che oggi sono
isole non
lo fossero. Che ci fosse un unico continente e un solo mare.»
Il
respiro di
Niké, profumato e regolare, sembrava una ninnananna. Su Silvestro aveva
già
avuto effetto, visto come il gatto ronfava con le vibrisse arricciate
schiacciate sotto le zampe; Luost dovette chiudere gli occhi per
abituarsi all’idea
di un pisolino in quella posizione.
«Perché
idea verde
incolore?»
«È
tutta la frase
che serve. Idee verdi incolori dormono
furiosamente è grammaticalmente corretta, ma non
ha senso. Le persone come
te—a metà ma intere, in piedi ma spezzate, non
trovano un senso nella vita. La
forza di persone così sta nel fatto che, quando riusciranno
a trovarlo, saranno
creature straordinarie. Difficile dimenticare una frase come quella,
no? Direi
che svolge bene il proprio lavoro.»
«E
camaleonte tra
le nuvole?»
Le
mani di Niké si
appoggiarono su quelle di Luost e cominciarono a massaggiargli le dita
per
condurlo al torpore. «È chi continua a cambiare
agli occhi del mondo per
raggiungere il proprio sogno. Ho cominciato a essere Niké quando ho
capito che
Melia era un problema. Non per come mi vedevano gli altri, ma per come
mi
sentivo io.»
Alla
spiegazione
mancava qualcosa, ma Luost gliel’avrebbe chiesto a tempo
debito. Con le fusa di
Silvestro in sottofondo, poté dormire un sonno senza incubi.
Non
avrebbe dovuto
perdere così presto la speranza – anche se forse
non l’aveva mai persa tutta,
visto che era riuscito a ricevere e dare un’amicizia un
po’ stramba, ma salda.
Corretta, benché senza logica.
«Ora
tutto tace,
tutto tace.» Canticchiò Niké, prima di seguire
Silvestro e Luost in un sereno
riposo notturno sul divano.
Note Autrice:
(Gatti
ovunque, io son felice. -w-)
Storia che recupera un
paio di cose presenti in Quasi
della
stessa materia di cui sono fatte le stelle (alluminio, zolfo, magnesio),
ma non è necessario leggere anche quella storia per capire
questa, metto il
link solo per chi ne avesse voglia. Certo mi farebbe piacere se vi
piacessero
entrambe, vuol dire che ho fatto un buon lavoro per tutte e due.
Quali
sono i
desideri che Luost esprime? Quello di trovare un equilibrio nella
propria vita,
che è quella di un sopravvissuto (e lui ha visto i propri
amici morire a
Marineford); di non perdere la fiducia e l’amicizia di Niké;
di ritrovare la
forza per vivere. Li perde di vista dopo la guerra, ma loro rimangono
nella sua
testa, nascosti, in attesa di potersi mostrare di nuovo.
Niké,
al
contrario, ha già visto e provato questa fase
difficile che, credo, tutte le
persone sensibili a loro stesse son costrette ad affrontare. Sono
entrambi
degli adulti, forse Niké è un po’ più
grande di Luost, in termini anche di età.
Immagino Niké un po’ come una Erika Linder invecchiata
– soprattutto per il
profilo del viso. Silv, invece, prende il nome dal fatto di essere un
po’
ancora un gatto selvatico (il Bengala è una razza felina che
dimostra ancora
molti tratti caratteristici di felini non domestici).
Spero di non aver offeso nessuno parlando di un reduce di guerra. Sono convinta che le guerre debbano essere relegate ai libri, che non vadano combattute. Qualcuno, molto più saggio di me, chiamato Sun Tzu (il caro, vecchio Sun Tzu!), disse che la miglior battaglia è quella che non viene combattuta. Non posso neanche immaginare che cosa possa pensare una persona che ha attraversato un campo di battaglia: mi posso rifare a quello che ho letto, certo, ma non potrò mai davvero provare quello che prova un veterano. Non voglio provarlo. Voglio conoscerlo, non provarlo.
Si
ringraziano le seguenti canzoni per avermi condotto lungo questa storia:
Soldier Side
(System of a Down), Replica,
What Did You Do In The
War, Dad? (Sonata Arctica), Wrong Side Of Heaven
(Five Finger Death Punch). Probabilmente ce ne sono altre, ma al
momento le ho dimenticate.
Per
questo contest mi sono confrontata con generi con cui non mi sono
spesso esercitata. Ammetto però di trovarmi molto
più a mio agio col drammatico
che col fluff, che compare soltanto a fine storia, qui.
Prima
o poi pubblicherò anche la storia con cui pensavo
inizialmente di
partecipare al contest: non ho potuto proseguire nel mio intento
perché ho superato
di brutto il numero massimo consentito di parole. Ehm.
È
stata una bella sfida e spero che il risultato sia di fattura
pregevole – e che vi abbia commosso come ha commosso me.
Grazie
per aver letto. C:
claws_Jo
Il manga One Piece è di proprietà di Eiichiro Oda.