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Autore: claws    29/02/2016    1 recensioni
Luost era un sopravvissuto. Spesso si domandò con quale criterio qualcuno venisse tirato fuori dal buio e qualcun altro ci venisse spinto dentro e ingurgitato.
[Original Characters everywhere][≈5000 parole]
[Prima classificata al contest "Storie Feline [Multifandom + Originali]" indetto da zenzero91]
Genere: Drammatico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore (sul Forum e su EFP): claws_Jo / claws

Titolo: Idee verdi incolori (e camaleonti tra le nuvole) dormono furiosamente

Fandom o Originale: One Piece

Razze/Generi: Bengala / Drammatico, Devon Rex / Fluff

Nome del gatto: Silvestro. La citazione dietro questo nome era:

Kaze no sukima ni kikoeru
Komoriuta yo...
Yami ni toza sareta kibou
Tera shitekure!
Kaze ni mau suna ninari
Kimi no moto he...
Tsutae tai omoi ha
Hate shinaku...
(Nigedashi tatte tsuitekunda)
(Nagedashi tatte kie nenda)
~Itsumademo... itsumademo...
Ikiru kagiri

Riesco a sentire un vuoto nel vento,
come una ninnananna.
La speranza è intrappolata nell’oscurità,
ti prego, non smettere di brillare…
Diventerò sabbia e volerò col vento, così potrò raggiungerti.
I desideri che vorrei esprimere non conoscono limiti.
Anche se li abbandoni, non se ne andranno
Anche se scapperai via, loro rimarranno lì,
Sempre… Sempre…
Finché sarò vivo.
Hyadain, Sabin’s Rap

Prompt micioso: Arrampicata / Crossdressing

Il gatto è nella storia(se presente): Sì

Introduzione: Luost era un sopravvissuto. Spesso si domandò con quale criterio qualcuno venisse tirato fuori dal buio e qualcun altro ci venisse spinto dentro e ingurgitato.

NdA (facoltative): conchauso › nome inventato per una lingua inventata. Da dove l’ho tirato fuori? Semplice! La cittadina si chiama Shells Town, no? Shell vuol dire conchiglia, e conchiglia in latino si dice concha. Io sono una brutta persona che ama giocare con le parole ed ecco il risultato.

Shells Town › cittadina in cui Rufy incontra Zoro, all’inizio del manga. Rika è la bambina che porta a Zoro del cibo e Ririka è la mamma della piccola nonché proprietaria di un bar.

Il marmocchio che ferma il tempo a Marineford e il suo amico › sono rispettivamente Coby e Helmeppo.

Idee verdi incolori dormono furiosamente › frase che un linguista, Chomsky, utilizzò per parlare di nonsense e frasi grammaticalmente corrette: dopotutto, anche in inglese, colorless green ideas sleep furiously è grammaticalmente corretta ma non ha senso. Anche Luost è così – secondo Niké. Si lega anche al discorso di Niké, visto che lavora nel campo della linguistica. Camaleonte tra le nuvole è una mia invenzione e per questo è tra parentesi nel titolo: credo che per questa formula non ci siano bisogno di spiegazioni, almeno a fine lettura. C:

Al di là delle nubi e delle stelle, / nel cosmo, la luce e la bontà / siedono e giocano come sorelle / Noi però preferimmo l’oscurità / a una vita vissuta nella pace. / Senti le anime chiamate dall’aldilà? / Ora tutto tace, tutto tace › traduzione un po’ molto libera di un pezzo di What did you do in the war, dad?, canzone dei Sonata Arctica (oddio amo i Sonata).

L’originale è questa: Far and beyond the stars / there’s a place where all the love / all the goodness we could have still reside / but we chose life away from the light.

Del gatto Bengala ho mantenuto: il motivo maculato del pelo e gli occhi grandi, il muso triangolare, la vocalità ampia e lo spirito del gatto selvatico. Del Rex ho mantenuto: il pelo ricciolino, i baffi arricciati e le orecchie grandi. Non sono molto brava con la genetica, quindi non saprei dire quali geni siano recessivi e quali non lo siano: mi appello alla licenza poetica e al fatto che i bastardini sono sempre grandi sorprese.

Questa storia partecipa al contest: Storie Feline [Multifandom + Originali] indetto da zenzero91 sul forum di EFP.

Buona lettura! C:






Idee verdi incolori (e camaleonti tra le nuvole) dormono furiosamente



http://www.freeforumzone.com/d/11219240/Storie-Feline-Multifandom-Originali-/discussione.aspx




 

Luost aveva partecipato alla battaglia di Marineford. Non voleva parlarne, ma era comprensibile: chi vorrebbe parlare dei corpi degli amici riversi a terra, delle urla che trapassano le orecchie, delle scosse di terremoto, della furia degli elementi nella battaglia? Dei giganti, dei mostri, dello tsunami che travolse l’isola?

Luost era un sopravvissuto. Spesso si domandò con quale criterio qualcuno venisse tirato fuori dal buio e qualcun altro ci venisse spinto dentro e ingurgitato.

Dopo più di venticinque anni di servizio in Marina, Luost decise di averne avuto abbastanza. Le navi non facevano più per lui – stare ai cannoni ancor meno. Troppo rosso era stato schizzato sulle pareti sottocoperta tra la polvere da sparo e i proiettili da caricare, troppe voci riempivano la sua testa: il cuore, ammuffito insieme al legno della nave su cui aveva prestato servizio negli ultimi tempi, non poteva più reggere quei ritmi micidiali.

Sarebbe tornato a casa, nel mare Orientale. A quarantaquattro anni il futuro in genere deve avere già buone fondamenta, eppure Luost le aveva abbandonate dopo la guerra: provava un terrore inconsolabile dovuto al fatto che non aveva né soldi né sogni – soltanto incubi e stress e sfiducia. Ricordò la ragazzina piromane, Anice, che aveva rischiarato le sue giornate quando avevano viaggiato per il Paradiso della Rotta Maggiore: lei aveva un sogno e forse, in quel mentre, l’aveva perfino esaudito.

Lui non aveva obiettivi così alti. Forse era un fallito. Forse un codardo. Non aveva voglia nemmeno di ribattere a se stesso. Così, una sera, dopo aver ricevuto l’ultimo stipendio, chiuso in una piccola stanza in un albergo di Water Seven, Luost dai capelli rossi e il sorriso facile pianse in silenzio.

Un uomo di quarantaquattro anni non dovrebbe più farlo?

 

Una nave della Marina gli diede un passaggio oltre la fascia di bonaccia. Una volta arrivato a Loguetown, Luost decise di fare ritorno a casa lavorando su dei mercantili (proprio come aveva consigliato di fare ad Anice, a ben pensarci!) lungo le rotte che gli servivano per tornare a Shells Town, il suo villaggio natale.

Quante cose erano cambiate dalla sua partenza! Le case erano diventate più alte, il numero di persone per la strada era aumentato e il rumore della folla, in certi momenti, avrebbe potuto assordare un elefante.

La base della Marina aveva ancora una certa importanza. Da alcuni rapporti e dalle lettere di sua madre Giara, Luost aveva scoperto che da Shells Town era passato Cappello di Paglia, Monkey D. Rufy, all’inizio del proprio viaggio. Tutta la storia di Roronoa e del capitano Morgan – nonché di suo figlio e del suo amico, il marmocchio che aveva fermato il tempo a Marineford – gli era nota, bene o male. Sua madre gliene aveva parlato a lungo, nelle lettere che gli erano arrivate: Giara aveva sempre avuto la straordinaria capacità di capire il valore delle persone soltanto guardandole, e—questo era il motivo per cui Luost se n’era presto andato via di casa.

Vero: doveva almeno visitare la sua tomba, visto che Giara era stata sepolta nel cimitero cittadino. Ma, prima, il proprio dovere di figlio – per quanto fosse stato un figlio lontano, irritante e impulsivo – lo avrebbe condotto alla casa della loro famiglia, giù verso il faro, appena fuori città. Suo padre Ferdìn abitava ancora laggiù.

Giara era morta durante il suo servizio sulla Rotta Maggiore: era un dolore mai perfettamente guarito, come un soffio al cuore, che rimane sempre aperto anche senza far male. Di certo era lo stesso sentimento che Ferdìn doveva provare ogni giorno – o almeno Luost così credeva.

Quando vide Ferdìn, Luost non si aspettò di trovarlo così in forma – per quanto potesse essere in forma un uomo confinato sulla sedia a rotelle. Era perfino andato ad aprire la porta con un’energia per Luost impensabile.

«Salve, papà.»

Ferdìn aveva le lacrime agli occhi quando suo figlio gli si avvicinò e si inginocchiò di fianco a lui.

«Mi dispiace di averti lasciato da solo per così tanto tempo.»

«Vorrei soltanto che tu fossi stato qui quando ne avevo bisogno, Luost. Giara—e tu eri su una nave della Marina chissà dove.»

Luost incassò tutti i dispiaceri e le sofferenze del proprio vecchio padre senza alzare la testa: così gli aveva insegnato Ferdìn e così aveva fatto per ventisei anni in Marina. Entrambi, dopo aver dissotterrato i brutti ricordi e il male mai completamente assorbito, si soffiarono il naso per nascondere il pianto.

 

Luost non trascorreva una notte senza sentirsi un’inutile e ignobile creatura.

 

«Buongiorno, Niké. Il solito?»

«Grazie.»

«Come proseguono i tuoi studi sull’antico conchauso?» Domandò Ririka, la proprietaria del bar, preparando un caffè forte.

Niké sbuffò. «Sto ancora cercando di capire quale sia la scrittura nel codice di pergamena che Travimini ha trovato nella biblioteca. Almeno sono felice di aver trovato impiego su quest’isola: nessuno aveva avuto il coraggio di venir qui e di far pulizia negli archivi!» Adorava parlare, e adorava parlare del proprio lavoro: Niké spesso chiacchierava senza davvero pensare a che pensiero stesse uscendo dalla propria bocca. «Senza offesa.» Si affrettò ad aggiungere, bevendo il caffè per nascondere l’imbarazzo.

«Nessun’offesa,» rispose Ririka, «avevamo bisogno di qualcuno che facesse ordine e l’abbiamo trovato. È un grosso impegno, il tuo.»

Il campanello all’ingresso del bar pigolò e Ririka riconobbe il nuovo arrivato a causa dei suoi inconfondibili capelli rossi. «Luost...?»

«Sono io. Buongiorno, Ririka. Chi non muore si rivede, eh?»

Niké non si voltò a guardare il nuovo arrivato quando Ririka andò incontro a Luost per stringergli la mano. «Come stai?»

«Sono stato meglio. Mi faresti un caffè?»

Davanti al miglior caffè di tutta Shells Town, Luost si sentì a casa. Quando era di servizio lì, nella sua cittadina natale, prendeva ogni mattina il caffè da Ririka – saltarlo era considerato di pessimo augurio.

«Buona giornata.» Salutò Niké, con un cenno a Ririka e Luost. Si alzò e uscì dal locale di corsa.

«Quanto tempo sei stato via? Vent’anni?»

«Ventisei.»

Ririka sbuffò, scuotendo la testa. «Troppo tempo. Se penso che Rika è ormai diventata una signorina, mi sento sempre più vecchia.»

Luost non rispose. Era invecchiato di vent’anni nel giro di poche ore – quella maledetta guerra non smetteva mai di tormentarlo, di stringergli le sue dita nere e rosse sul collo, di sussurrargli con le voci dei suoi compagni di squadra Perché tu sì e io no?, e lui era il salvato, e Utra era il sommerso, e con Utra c’erano Elinni, Bolva, Macino—

«Sono cambiate così tante cose. Prendi Niké: è arrivato un paio di anni fa con un suo collaboratore per mettere in ordine l’archivio cittadino e non sono che all’inizio del lavoro!»

Negli occhi chiari di Luost non c’era spazio per quella figurina appena uscita dal bar: c’era ancora la foto che Ferdìn gli aveva regalato – erano i suoi genitori, in piedi uno accanto all’altra, davanti al faro fuori città: tutti e tre ormai vecchi, tutti e tre stagliati contro le onde.

Se loro erano sempre rimasti saldi come fari sugli scogli, Luost si lasciava trascinare dalla corrente come se navigasse nelle acque della Reverse Mountain.

 

Luost, quella sera, mentì a Ferdìn. Gli disse che aveva già comperato una casa vicino al porto, in città, quindi non avrebbe dovuto dormire nella casa in cui aveva sempre vissuto. Luost cercò di convincersi del fatto che era una bugia bianca, ma non ci riuscì: la realtà era che stava scappando dagli occhi del proprio padre.

Non c’era nessuna casa, solo una stanza vicino al bar di Ririka.

Si rovesciò sul letto tirandosi i capelli con le mani. Uno sbaglio dopo l’altro, un tradimento e una menzogna, e così via, più giù, verso il buio dei naufragi, fino a diventare un unico, grosso, maledetto fallimento. Un’altra notte insonne, in cui gli spettri dei suoi compagni gli avrebbero fatto visita, in cui il viso di quel ragazzino che spezzò il ritmo della guerra non sarebbe riuscito a dargli pace.

Gli era piaciuto viaggiare per la Rotta Maggiore a bordo di un vascello della Marina, incontrando più mercantili che pirati, sparando più per manutenzione che per un vero pericolo. Quasi si dimenticò di essere stato una persona divertente, prima di Marineford.

 

Notte insonne fu.

 

Si era assopito solo al mattino, sul letto ormai sfatto per tutte le volte in cui si era rigirato sulla pancia e sui fianchi nel cercare una posizione comoda. Dieci ore di buio e Luost aveva capito soltanto che il rubinetto del suo vicino di casa perdeva.

Trascorse un’altra giornata in uno stato tra il sonno e la veglia, in cui gli incubi trovano un terreno accogliente per moltiplicarsi. Suo padre non lo cercò e Luost non aveva alcuna intenzione di rivedere volti noti – non fino a quando desiderava sparire nel buio sotto al cuscino. La seconda notte non gli portò consigli migliori della precedente.

Il bisogno di uscire all’aria aperta si sentì al mattino del secondo giorno: allora Luost si schiarì la voce e suonò al campanello del proprio vicino di stanza.

«Buongiorno,» disse all’inquilino, un ragazzo dall’aria addormentata (ma forse era solo il sonno), «il vostro rubinetto perde.»

«Mi scusi. Non me ne sono accorto. Le ha dato fastidio di notte?»

«No, no, nessun fastidio.»

«Vedrò di aggiustarlo stamattina. Grazie!» Il ragazzo della porta accanto sorrise e salutò agitando una mano, proprio come un bambino.

Luost fu talmente sconvolto da quell’atteggiamento infantile che si rifugiò nella propria stanzetta come se il suo vecchio tenente avesse gridato la ritirata.

 

Ogni tanto Luost pensava ad Anice. L’ultima volta l’aveva incontrata a Water Seven e avevano bevuto una birra assieme – la sua valchiria gli aveva rivelato che sarebbe partita per un nuovo viaggio. Perché Anice voleva riprendere il mare? Luost non lo ricordava più: forse lei gliel’aveva detto, ma lui se n’era dimenticato completamente. Un momento—forse era qualcosa per la voglia di conoscere i fenomeni del mondo. Sì, doveva essere una cosa del genere. A Luost non importò granché il cosa: piuttosto quel giorno l’aveva reso felice sapere che Anice, la ragazzina a cui aveva insegnato tutto quello che sapeva su come miscelare le polveri e i reagenti per le reazioni da sfruttare nelle battaglie navali, non aveva perso la voglia di vivere e conoscere il mondo.

Luost stesso era stato sospinto in avanti dal desiderio di vedere le terre oltre l’orizzonte, ma quando Marineford era giunta prepotentemente ai suoi occhi—allora Luost aveva perso tutte le battaglie della propria vita, dalla prima all’ultima, da quella per la serenità a quella della mera sopravvivenza (perché ormai Luost faticava anche a sopravvivere ai propri ricordi).

 

«Le offro un caffè.»

Niké, la figurina che qualche giorno prima era scappata dal bar di Ririka, si era mostrata al fianco di Luost nel suddetto locale a un orario imprecisato del mattino – dopotutto, Luost si era rigirato nel letto per ore prima di lavarsi la faccia e di scendere al bar per una sottospecie di colazione.

«Perché?» Chiese Luost.

«Perché ha bisogno di parlare con qualcuno: offrire un caffè è un buon modo per cominciare un discorso.» Niké si rivolse a Ririka, che annuì e preparò la macchina.

«Allora grazie.»

«Vede che funziona, un caffè, per parlare?»

Se Niké non fosse stato un uomo e non fosse stato così basso e minuto, sarebbe stato molto simile ad Anice – aveva un’energia che filtrava attraverso le parole e i gesti, una curiosità e un’acutezza di spirito che si vede soprattutto nei ragazzini e nelle ragazzine, nella loro voglia di vivere, nei loro sogni.

Il sogno di Luost, in quel periodo, era poter dormire decentemente. Non un gran sogno, ma da qualche parte si deve pur ripartire, giusto?

«Lo vuole con lo zucchero?» Chiese Niké.

«No.»

«Ce ne metta un cucchiaino. Fa bene alle persone acide, un po’ di dolcezza.» Niké mise sotto il naso del proprio compare di caffè una zuccheriera piena fino all’orlo.

Luost obbedì senza opporsi, mentre la figurina rompiscatole tirava fuori un’espressione a metà tra il perplesso e l’infastidito. «Lei era nella Marina, giusto?»

«Non mi sembra di averlo mai detto.»

«Forse me l’ha detto Ririka.» Niké non si arrese. «Ha visto cose interessanti, nei suoi anni di servizio?»

«Cosa intende per “interessanti”?»

«Persone che parlavano lingue che lei non conosce, ma che le sembravano famigliari.»

Luost ci pensò su tra un piccolo sorso di caffè e l’altro. Benché non fosse per nulla felice di ripensare ai ventisei anni spesi al servizio del Governo Mondiale, ricordare le avventure era certo meglio che ricordare la guerra. I volti degli amici gli stringevano il cuore in una tenaglia soffocante, però le loro risate riempivano la sua testa di rumore e questo gli serviva per ragionare a mente lucida.

«Forse ad Alabasta...? In un paesino sulla costa settentrionale, credo. Mi aveva colpito perché un signore anziano che non parlava la nostra lingua aveva capito che uno dei miei compagni aveva mangiato un ragno velenoso scambiandolo per del cibo.»

Il viso di Niké si animò proprio come quello di Anice: sorrise, aprì appena appena la bocca per meraviglia, e sbatté le palpebre allegramente. Poi batté i pugni sul tavolo, un po’ come Anice, ed esclamò: «Lo sapevo!»

Luost finì di bere il caffè mentre Niké tirava fuori un taccuino dalla giacca e cominciava a scrivere chissà cosa in una scrittura fittissima e piena di riccioli – sembrava divertirsi sia nello scoprire qualcosa di nuovo, sia nel far scivolare la penna sulla carta.

Poi Niké si schiarì la voce, recuperando il contegno, e disse: «Mi piacerebbe parlare con lei dei viaggi che ha fatto. Avrebbe del tempo da dedicarmi? La voglia, anche?»

«Ci penserò.»

 

Ci pensò per due mesi.

 

«Come mai ci ha messo tanto?» Domandò Niké, che fece accomodare Luost sulla poltrona più comoda di tutto il soggiorno prima di prendere posto al tavolino basso, dove aveva appoggiato il proprio taccuino.

«Avevo bisogno di dormirci su.»

«Ha dormito due mesi?»

«No: per due mesi non ho dormito granché. La scorsa notte è stata la prima in cui ho dormito più di due ore.»

Si guardarono, in silenzio. Per la prima volta da quando aveva conosciuto Niké, Luost si chiese quanto una persona potesse essere androgina – perché avrebbe potuto scambiare Niké per una donna, se non fosse stato per l’abbigliamento maschile, il taglio corto di capelli e la mancanza di seno. Niké, in compenso, si chiese quali mostri Luost avesse affrontato in due mesi.

«Tè? È al limone.»

«Grazie.»

Niké sparì in cucina e tornò due minuti dopo con una teiera e un paio di enormi tazze da colazione. Si tolse gli occhiali, si passò una mano tra i capelli ed esclamò: «Parli a ruota libera. Se vuole, possiamo darci del tu. Ti ascolto.»

In quel momento una saetta felina tagliò per il soggiorno, spiccando un salto per finire tra le braccia di Niké. «Silv—! Devi smettere di farmi gli agguati!»

«... Silv?»

«Silvestro. L’ho chiamato così perché è un piccolo selvaggio, ed è il mio gatto. L’ho trovato dalle parti del porto una delle mie prime sere a Shells Town. Era tutto nero per la sporcizia e per l’arrabbiatura, così me lo sono fatto amico e l’ho portato a casa. Vero, Silv?»

Luost ebbe la netta sensazione di trovarsi davanti a una mamma che tesse le lodi del proprio bambino, ma evitò di farlo presente ad alta voce, anche perché vedere un uomo adulto che cerca di imitare le fusa del proprio gatto gli sembrò divertente.

Forse avrebbe potuto ricominciare a ridere – come quando c’erano ancora Utra, Anice, Macino... come quando i muscoli del suo viso non erano contratti in smorfie dolorose che non era riuscito a sbloccare per molto tempo.

Niké aveva preso Silvestro da sotto i gomiti e stava facendo il gioco del naso-naso con il gatto, proprio come se fosse stato suo figlio. Il micio non sembrava protestare, anzi: le fusa erano diventate un felice rumore di sottofondo in mancanza di musica o di altre persone. Luost bevve due tazze di tè prima che Niké decidesse di prestare attenzione al proprio ospite: in compenso, quando i giochi terminarono, Silvestro pensò bene di strusciarsi sulle gambe di Luost per spargere il proprio odore su quel nuovo venuto dall’aria tesa.

«È un gatto buonissimo. Quando l’ho trovato era soltanto spaventato e affamato. Il veterinario mi aveva detto che avrebbe potuto perdere la capacità di correre, invece adesso va che è una scheggia.» Poi guardò Luost negli occhi, squadrandolo con un’occhiata: se Luost avesse potuto fare un disegno di quello sguardo, avrebbe disegnato il grafico di un’onda ad altissima frequenza. «Aveva solo bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui.»

A causa di quegli occhi scuri che lo fissavano, Luost ebbe l’impressione che Niké stesse parlando di lui, non di Silvestro – che invece era salito sulla poltrona e aveva convinto Luost ad accarezzarlo e a fargli dei grattini sotto il mento. Luost si concentrò per essere il più delicato possibile contro la pancina maculata del gatto.

«È un bel gatto.» Ammise. Come se avesse capito il complimento, Silvestro sollevò la testolina triangolare e tirò indietro i baffi arricciati, cercando la mano di Luost per una carezza. Il movimento mise in evidenza la sua bellissima gorgiera ricciolina color crema a strisce scure: sembrava il piumaggio impettito di un uccello che vuole conquistare la propria signora. Il collo pelosissimo faceva venire una voglia matta di coccolare quel micetto allegro e rumoroso – e forse lui lo faceva apposta, visto che adorava le carezze.

Niké cominciò a bere la prima tazza di té. «Credo che tu gli stia simpatico.» Parve riflettere su qualcosa di lontano nel tempo, poi aggiunse: «Puoi venire qui quando vuoi, Silv è solo contento. Ah, ho scoperto che abiti di fianco al mio assistente, Travimini. Mi ha detto che hai sentito il rubinetto perdere acqua.»

«Era due mesi fa.»

«Meglio tardi che mai, no?»

Luost non rispose – era impegnato a coccolare Silvestro, che apprezzò molto tutte quelle attenzioni.

 

 

«Ti servono a qualcosa le nostre conversazioni?» Chiese Niké, un giorno.

«Credo di sì,» rispose Luost, «quando sono qui—è come se fossi con un amico. Mi sento al sicuro.»

«Allora possiamo festeggiare, no?» Niké era in piedi e si stava dirigendo in cucina, forse per recuperare dei biscotti. Silvestro seguì quella figurina minuta fino agli scaffali dove Niké conservava marmellate e altri dolci.

«Luost, fammi una cortesia, vieni a prendere i biscotti. Con Silv tra i piedi non posso salire sul ripiano per prenderli.»

Luost si presentò in cucina, alto sul proprio metro e ottanta. Aveva tirato fuori un sorriso piccolo (ma sincero!) quando disse: «Potrei prendere Silvestro e tu potresti occuparti dei biscotti, no?»

«Tu e Silv vi coalizzate sempre contro di me. Non è giusto.»

Luost acchiappò Silvestro e lo tenne tra le proprie braccia, mentre Niké si arrampicò sul ripiano accanto ai fornelli, alla ricerca dei dolci gommosi di frutta che aveva comperato per le occasioni speciali.

Accadde tutto in due secondi netti: Silvestro si contorse tra le braccia di Luost, che perse la presa sull’animale; il gatto tirò fuori gli artigli per spiccare un salto e, nella foga del momento, non riuscì a centrare il proprio obiettivo, cioè il ripiano; invece finì con le unghie sulle gambe di Niké e risalì sulla sua schiena, affondando gli artigli nella camicia di Niké – a cui non inferse ferite profonde, non fisiche, almeno.

Silvestro si arrampicò fin sulla testa di Niké e si rintanò dentro l’armadietto dei biscotti: da lassù avrebbe allontanato tutti quegli umani che attentavano alla sua povera serenità.

«Silv—! Luost, tutto bene?» Chiese Niké, quando ebbe di nuovo i piedi sul pavimento: sembrava che i graffi del gatto non avessero avuto gravi ripercussioni sul suo corpo. Invece prese il polso di Luost e controllò che le sue braccia fossero in buone condizioni. «Vado a prendere del disinfettante.»

Luost attese, in silenzio: aveva intravisto qualcosa, sulla schiena di Niké, di cui non voleva ancora parlare. C’era un silenzio buono, nella cucina – uno di quei silenzi in cui le voci dei fallimenti di Luost (che avevano nomi e cognomi, a partire da Giara) non entravano in contatto con il mondo dei vivi. Forse era merito di Silvestro, forse di Niké, forse di entrambi.

Gli avevano fatto bene—del bene. Quella fascia sulla schiena di Niké avrebbe potuto creare problemi irreparabili tra loro, e Luost non voleva perdere quella specie di amicizia e rispetto che avevano costruito. Decise di tacere.

Il fatto è che fu Niké a riportare alla luce l’argomento, ma lo fece con naturalezza e a modo proprio.

«Ricordi che studio lingue comparate, no?» Chiese Niké, mentre tirava fuori i cerotti da applicare sulle braccia dell’amico.

«Sì.»

«In un dialetto di Loguetown, sarei un camaleonte tra le nuvole. Tu verresti chiamato idea verde incolore che dorme furiosamente.» Niké si grattò la testa. «Mi chiamo Niké, ma mi chiamo anche Melia. Mi spiace che tu l’abbia scoperto così. Giuro che terrò Silv a stecchetto per un mese, dopo quello che ha combinato.»

Era un reggiseno a fascia color carne, quello che Luost aveva visto quando la camicia era scivolata sulle braccia di Niké sotto le unghie di Silvestro. La prima impressione si era rivelata giusta.

Luost ebbe voglia di piangere – di nuovo, come mesi prima, chiuso in una stanzetta d’albergo, quando tutto il peso del mondo s’era riversato sulle sue spalle, sul suo cuore stanco, nei suoi occhi secchi. Non riusciva a capirne il perché: era forse solo un impulso, un bisogno di buttar fuori lo stress e la brutta sensazione di repulsione nei confronti di Melia.

«Devo—devo andare.» Disse Luost, balbettando. Si sottrasse alle mani di Niké, si alzò e sbatté la porta di casa di corsa, quasi scappando da un campo di battaglia – dal campo di battaglia. Era un’altra Marineford, di nuovo aveva perso un amico (o un’amica? Come doveva considerare Niké?), di nuovo s’era voltato per non guardare gli amici sprofondare sotto la pellicola di pece che andava spandendosi sul mare come una malattia, ancora, giù, finivano giù, come i gabbiani intrappolati nel catrame—

«Ora tutto tace, tutto tace,» aveva canticchiato Niké, guardando Silvestro ancora dentro all’armadietto. Il gatto scese morbidamente sul ripiano vicino ai fornelli e Niké gli accarezzò la schiena teneramente, perché accarezzare Silvestro era un gesto consolatorio.

Luost era scappato una seconda volta.

 

«Mai mettere insieme nitro e glicerina, Anice. Queste due assieme fanno partire non solo il cannone, ma l’intera nave. E non va bene per nulla. D’accordo?»

«Sì, Luost.»

Poi Anice aveva inclinato la testa verso sinistra, aveva sbuffato e pensato ad alta voce: «Lo sai perché ci hai provato già una volta, oppure lo sai perché te lo hanno insegnato?»

 

Era un vecchio ricordo sperduto, rinvenuto in un momento di poca lucidità. Quanto tempo era trascorso da quando Anice glielo aveva chiesto? Quanto tempo da quando aveva scoperto che Niké non era un uomo, ma una donna che si vestiva da uomo, si comportava come tale e—e aveva la mascella da uomo! Quanto tempo—?

S’era sentito tradito da Niké. Pensava di potersi fidare di quella figurina minuta che beveva tè e caffè tutto il giorno, che lo ascoltava attentamente assieme a un gattaccio orfano che aveva trovato in Niké una sorta di mamma.

Se Silvestro non avesse tirato quel brutto tiro a Niké, quando Luost si sarebbe accorto di Melia?

Luost desiderò di essere in grado di accettare se stesso, in modo tale da riuscire ad accettare anche gli altri. In un secondo di maledizione si chiese perché Utra, e non Luost dai capelli rossi, fosse morto.

 

Lo sapeva perché altri glielo avevano insegnato. Lui non aveva mai scoperto nulla, aveva sempre seguito il protocollo, e ora, guardatelo!, sono un mostro, sono inutile. Si mise le mani nei capelli e urlò.

Quando la voce se ne andò, portando con sè gli incubi, Luost si alzò dal letto e decise di darsi un pugno in faccia prima di cambiare un pochino la propria vita – prima di pensare ai propri compagni non come àncore che lo tenevano con la testa sott’acqua, nel buio; ma come fari, le salvezze nel mare.

 

Ferdìn aprì la porta e si trovò davanti il proprio unico figlio, dritto come un fucile e magro come un ragazzo lasciato solo troppo presto. Quando Luost si inginocchiò di nuovo ai piedi del padre, Ferdìn lo abbracciò come poté, forse tirandogli un po’ i capelli rossi, forse ondeggiando a destra e a sinistra per i singhiozzi.

«Ti ho mentito,» disse Luost, piangendo senza ritegno e senza vergogna, «non è vero niente. Non mi è dispiaciuto averti lasciato solo: ero felice, per mare. Ero felice—fino alla guerra. Quella guerra si è portata via tutto quello che avevo costruito per me. Non mi sono comperato una casa giù in città. Non ho un futuro decente davanti. Non ho più amici, non ho più speranze.»

Ferdìn pianse perché non esistono parole più terribili di quelle sincere di un figlio che non si è sentito amato – perché qualcosa non ha funzionato nel suo essere padre, perché Luost era partito troppo presto per l’accademia, per altri motivi più o meno rilevanti che si erano accumulati nel corso del tempo fino a diventare una discarica insopportabile di sbagli a cui, ormai, era impossibile rimediare. Intervenire sul passato non è possibile: sul futuro, magari, qualcosa può esser fatto—

Luost, invece, pianse per espellere le amarezze e le sofferenze di quarant’anni di vita. Scacciò dal proprio cuore il risentimento nei confronti di Ferdìn e Giara, il fastidio che Niké gli aveva arrecato; conservò invece i ricordi dei propri compagni d’armi, dei luoghi che aveva visitato, le emozioni provate durante l’addestramento. Espulse quei dolori che, per quanto avevano avuto ragione d’essere, non l’avrebbero portato più lontano di così.

 

«Mi dispiace, Niké.»

Luost aveva gli occhi azzurri arrossati, ma puliti. Niké gli sorrise mestamente. «Ti perdono se mi dedicherai un po’ di tempo.»

«Sì.»

Luost si sedette sulla poltrona.

«Al di là delle nubi e delle stelle, nel cosmo, la luce e la bontà siedono e giocano come sorelle,» canticchiò Niké, andando in cucina a prendere una tazza per Luost. «Noi però preferimmo l’oscurità a una vita vissuta nella pace. Senti le anime chiamate dall’aldilà?»

Niké ritrovò Luost ad asciugarsi gli occhi con un fazzoletto.

«Ora tutto tace, tutto tace.»

«È una canzone?» Chiese Luost.

«È il motivo per cui lasciai la mia famiglia e per cui loro non mi volevano più. È il mio lavoro.» Niké si sedette al tavolino e i due si fissarono a lungo, in silenzio.

Negli occhi di Niké c’era un velo di tristezza che Luost voleva strappare a metà per rivelarne la vitalità – la sua energia infinita, a cui Luost avrebbe desiderato legarsi come si lega una mano a una corda per salvarsi dall’abisso.

«Come ti devo chiamare?»

«Niké.»

«Niké è la parola che il vecchio esclamò quando il mio compagno guarì dalla malattia, nel deserto.»

«Lo so. L’ho scelto appositamente perché è un’esclamazione di gioia. Senti—dalla tua stanza senti ancora il rubinetto che perde?»

«No.»

«Ieri ero da Travimini e perdeva di nuovo. È un progresso, non credi?»

«Non per il rubinetto.»

Niké rise. La sua risata accompagnò la discesa in campo di Silvestro che, con i suoi bellissimi occhi verdi e le sue orecchie grandi, fece il proprio ingresso in soggiorno arricciando la coda proprio come erano arricciate le sue vibrisse. Valutò la situazione annusando l’aria, fu accarezzato sulla testolina maculata da Niké e poi saltò in braccio a Luost, che venne perdonato per la fuga di qualche settimana prima con un paio di carezze sotto il mento.

«Hai capito cosa intendo.»

«Certo.»

Una sensazione di serenità veniva trasmessa dalle fusa di Silvestro fino alle mani di Luost e ai suoi cinque sensi – come se stesse bevendo del buon vino assieme a un vecchio amico, con una musica orecchiabile e tanta luce a inondare la stanza.

Avrebbe potuto abituarsi a provare simili sentimenti di nuovo. Certo, forse quel momento di pace durò un minuto soltanto, ma gli fu sufficiente per capire di essere pronto a vivere ancora. Il che non significava tornare a una condizione precedente alla guerra: era piuttosto una consapevolezza ulteriore, per la quale Luost si rallegrò dell’essere ancora vivo e si promise di non perdere più la speranza.

 

Luost guardò a lungo Niké – il profilo della sua mandibola, a essere precisi. Le gambe di Niké erano il cuscino di Silvestro, acciambellato con le zampine a proteggere gli occhi dalla luce della lampada.

«Cosa stai pensando?»

«Che hai un viso androgino.»

«Ma davvero?»

Sospirando, Luost si sistemò meglio contro la spalla di Niké e grattò la testolina triangolare di quel nobile selvaggio di Silvestro. «Stavo pensando ai miei compagni. A mio padre e mia madre.»

«Hai fatto pace con Ferdìn?»

«Più o meno.»

«Io non l’ho mai fatta coi miei. Loro mi hanno abbandonato appena dopo il giorno in cui li abbandonai io.»

«Perché non andavate d’accordo?»

«Perché io volevo studiare le strutture del linguaggio e, nello specifico, le lingue antiche del Mare Orientale. Credo fermamente che, un tempo, quelle che oggi sono isole non lo fossero. Che ci fosse un unico continente e un solo mare.»

Il respiro di Niké, profumato e regolare, sembrava una ninnananna. Su Silvestro aveva già avuto effetto, visto come il gatto ronfava con le vibrisse arricciate schiacciate sotto le zampe; Luost dovette chiudere gli occhi per abituarsi all’idea di un pisolino in quella posizione.

«Perché idea verde incolore?»

«È tutta la frase che serve. Idee verdi incolori dormono furiosamente è grammaticalmente corretta, ma non ha senso. Le persone come te—a metà ma intere, in piedi ma spezzate, non trovano un senso nella vita. La forza di persone così sta nel fatto che, quando riusciranno a trovarlo, saranno creature straordinarie. Difficile dimenticare una frase come quella, no? Direi che svolge bene il proprio lavoro.»

«E camaleonte tra le nuvole?»

Le mani di Niké si appoggiarono su quelle di Luost e cominciarono a massaggiargli le dita per condurlo al torpore. «È chi continua a cambiare agli occhi del mondo per raggiungere il proprio sogno. Ho cominciato a essere Niké quando ho capito che Melia era un problema. Non per come mi vedevano gli altri, ma per come mi sentivo io.»

Alla spiegazione mancava qualcosa, ma Luost gliel’avrebbe chiesto a tempo debito. Con le fusa di Silvestro in sottofondo, poté dormire un sonno senza incubi.

 

Non avrebbe dovuto perdere così presto la speranza – anche se forse non l’aveva mai persa tutta, visto che era riuscito a ricevere e dare un’amicizia un po’ stramba, ma salda. Corretta, benché senza logica.

 

«Ora tutto tace, tutto tace.» Canticchiò Niké, prima di seguire Silvestro e Luost in un sereno riposo notturno sul divano.


















 


Note Autrice:

(Gatti ovunque, io son felice. -w-)

Storia che recupera un paio di cose presenti in Quasi della stessa materia di cui sono fatte le stelle (alluminio, zolfo, magnesio), ma non è necessario leggere anche quella storia per capire questa, metto il link solo per chi ne avesse voglia. Certo mi farebbe piacere se vi piacessero entrambe, vuol dire che ho fatto un buon lavoro per tutte e due.

Quali sono i desideri che Luost esprime? Quello di trovare un equilibrio nella propria vita, che è quella di un sopravvissuto (e lui ha visto i propri amici morire a Marineford); di non perdere la fiducia e l’amicizia di Niké; di ritrovare la forza per vivere. Li perde di vista dopo la guerra, ma loro rimangono nella sua testa, nascosti, in attesa di potersi mostrare di nuovo.

Niké, al contrario, ha già visto e provato questa fase difficile che, credo, tutte le persone sensibili a loro stesse son costrette ad affrontare. Sono entrambi degli adulti, forse Niké è un po’ più grande di Luost, in termini anche di età. Immagino Niké un po’ come una Erika Linder invecchiata – soprattutto per il profilo del viso. Silv, invece, prende il nome dal fatto di essere un po’ ancora un gatto selvatico (il Bengala è una razza felina che dimostra ancora molti tratti caratteristici di felini non domestici).

Spero di non aver offeso nessuno parlando di un reduce di guerra. Sono convinta che le guerre debbano essere relegate ai libri, che non vadano combattute. Qualcuno, molto più saggio di me, chiamato Sun Tzu (il caro, vecchio Sun Tzu!), disse che la miglior battaglia è quella che non viene combattuta. Non posso neanche immaginare che cosa possa pensare una persona che ha attraversato un campo di battaglia: mi posso rifare a quello che ho letto, certo, ma non potrò mai davvero provare quello che prova un veterano. Non voglio provarlo. Voglio conoscerlo, non provarlo. 

Si ringraziano le seguenti canzoni per avermi condotto lungo questa storia: Soldier Side (System of a Down), Replica, What Did You Do In The War, Dad? (Sonata Arctica), Wrong Side Of Heaven (Five Finger Death Punch). Probabilmente ce ne sono altre, ma al momento le ho dimenticate.

Per questo contest mi sono confrontata con generi con cui non mi sono spesso esercitata. Ammetto però di trovarmi molto più a mio agio col drammatico che col fluff, che compare soltanto a fine storia, qui.

Prima o poi pubblicherò anche la storia con cui pensavo inizialmente di partecipare al contest: non ho potuto proseguire nel mio intento perché ho superato di brutto il numero massimo consentito di parole. Ehm.

È stata una bella sfida e spero che il risultato sia di fattura pregevole – e che vi abbia commosso come ha commosso me.

Grazie per aver letto. C:

claws_Jo





Il manga One Piece è di proprietà di Eiichiro Oda.

  
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