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Autore: MySubversiveLove    26/03/2009    3 recensioni
Mese dopo mese l'avevo veduta sfiorire su un letto, perdere la ragione sotto il peso della malattia, imbottita di farmaci per non farle sentire il dolore di un corpo che l'abbandonava.
Genere: Triste, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ti chiama amore questa mia voce.

" E la parola ormai sfinita
si sciolse in pianto,
ma la paura dalle labbra
si raccolse negli occhi
semichiusi nel gesto
d'una quiete apparente
che si consuma nell'attesa
d'uno sguardo indulgente. "

Giaceva sul grande letto candido come una bambola di stracci, radi ciuffi di capelli rossicci sbucavano dal berretto di lana verde che non toglieva mai.
Sedevo accanto a lei, su di uno sgabello scomodo.
Sentivo le lacrime grattare le palpebre, pungerle come mille spilli.

Piangevo solo mentre dormiva.
Inscenavo, nei pochi momenti di lucidità che ormai le rimanevano, una forza ed un coraggio che non erano mai stati propri del mio carattere infantile.

Non volevo che sapesse, che vedesse la sofferenza della mia anima, ormai provata quanto il suo corpo zeppo di farmaci, spezzata, nel veder scivolare via la vita giorno dopo giorno dai suoi occhi una volta così verdi, una volta così limpidi.
I pochi momenti nei quali apriva faticosamente le palpebre soffrivo come non mai, vedendoli ridotti a due biglie di vetro, inespressivi e vacui, salvo qualche lampo di comprensione, quando mi scorgeva seduta accanto a lei.

Posai le dita all'orlo della sua fronte, lasciando scorrere sotto i polpastrelli la pelle arida, una volta così liscia, ora spiacevole al tatto come erba secca. Guardai l'ago della flebo, conficcato nella pelle diafana del braccio sinistro, poco sotto l'incavo del gomito.
Sentii il cuore ripiegarsi su se stesso, come mille altre volte in quei mesi passati in ospedale.

Fuori dalla finestra il sole si accingeva a tramontare, inondando la stanza di una luce rosata.
Fissando i riflessi dorati sul vetro, lasciai le lacrime rotolare lungo le gote, indugiare sul mento e poi precipitare sul dorso delle mani che tenevo poggiate in grembo.

Quel giorno l'avevo lavata. Solitamente lo facevano le infermiere o la madre, ma avevo chiesto di poter provvedere personalmente, per una volta.
Mi era stata fornita una spugna rosa, una bacinella azzurra riempita d'acqua insaponata e degli asciugamani che odoravano di disinfettante.
Mi osservava senza parlare, mentre le sbottonavo la camicia da notte leggera. Ebbi un sussulto nello scorgere le clavicole sporgenti, il seno che sembrava essersi avvizzito, la pelle che si ricopriva gradualmente di macchie, le protuberanze delle vertebre sulla schiena stanca. Passavo la spugna imbevuta d'acqua sul corpo con movimenti circolari, lenti ma decisi, nella speranza di veder riaffiorare del colore su quella pelle grigia. Lei, di cui ricordavo con nostalgia gli abbracci morbidi e avvolgenti, il corpo profumato e roseo.

Da bambine, ogni domenica mattina alle nove in punto suonava alla mia porta. Mia madre le apriva, esclamando con disappunto ”È ancora a letto, quella pelandrona!", mentre io, dal rifugio caldo delle mie coperte, ascoltavo tutto e sentivo la mia amica salire le scale ridendo, chiamando il mio nome.
Aspettavo in silenzio, fino a quando la sentivo entrare nella stanza e scuotermi un poco per le spalle. Allora mi alzavo, lei mi aiutava a vestirmi e mi pettinava a lungo i capelli, intrecciandoli con i nastri colorati che io amavo tanto. Le sue mani piccole si muovevano agili, stringendo ciocche dei miei capelli biondi ed io sentivo tanti piccoli brividi di piacere nascere dal centro della nuca e correre lungo la spina dorsale.

Quelle stesse mani erano ora abbandonate sul lenzuolo bianco, magre, sottili, non si sarebbe detto che fossero le mani di una ragazza. Mani così deboli che un tocco poco delicato avrebbe potuto spezzarle.

Mi alzai per controllare la piantina di primule che avevo portato un paio di giorni prima e che avevo poggiato sul comodino verdognolo. Tastai la terra dentro il vaso; secca.
Versai dell'acqua dalla bottiglietta che tenevo in borsa, sparì subito nella terra avida.

Ho sempre pensato che tutto ciò che resta in ospedale troppo a lungo finisca per ammalarsi, anche chi viene qui per ricevere delle cure ritenute indispensabili.
 L'aria della primavera imminente, i fiori avrebbero potuto curarla molto meglio di tutti i farmaci… No, non ci credevo nemmeno io.
Se avessi staccato quel corpo fragile dall'ossigeno sarebbe di certo crollato senza rimedio, le ginocchia deboli avrebbero ceduto sotto il peso della carne, se avessi tentato di farla alzare.

Ricordo quando cominciò a stare male. Un'influenza che non passava più, la febbre sempre più alta, il naso che le sanguinava continuamente.

Sua madre mi telefonò una sera di dicembre, dopo le ennesime analisi, sciogliendosi in lacrime: "Leucemia, hanno detto… Pochi mesi di vita… Ti prego, non dirglielo, diamole l'illusione che possa migliorare… Oh Dio, oh… Così giovane, la mia bambina…".

Poi la portarono in ospedale. In quell'edificio freddo, asettico, che puzzava di farmaci, di disinfettante, nel quale aleggiavano morte e malattia, regno dell'indifferenza dei medici.

Mese dopo mese l'avevo veduta sfiorire su un letto, perdere la ragione sotto il peso della malattia, imbottita di farmaci per non farle sentire il dolore di un corpo che l'abbandonava.

La conoscevo da sempre, lei c'era sempre stata, con i suoi scambi di caramelle alla frutta tenute in tasca tutto il giorno e mezze sciolte, con la sua mania di proteggermi sempre solo perché era alta quindici centimetri più di me, con le torte che mi preparava quando un fidanzato mi lasciava, con quei baci a fior di labbra che mi dava ogni tanto, facendomi ridere e dire "Ma come posso volere un uomo quando ci sei tu?".

Lei mi aveva insegnato tutto, da come ci si bacia a come si abbinano i colori, come si dosano gli ingredienti cucinando, come ci si trucca, con lei avevo imparato a ridere, a pensare, a diventare adulta.
E ora imparavo anche a piangere, imparavo il dolore della perdita e lo strazio della morte, la rassegnazione e la serena attesa dell'inevitabile.

L'avevo vista sfinita dopo le terapie, incapace persino di alzare una mano verso di me o verso sua madre, sorridere dolcemente infondendoci conforto, l'avevo vista trattenere le lacrime e accogliere le mie carezze ad occhi chiusi, lasciarsi docilmente imboccare il cibo e poi vomitare tutto nella bacinella che le porgevo, con il corpo contratto dallo sforzo.

Eppure aveva sempre avuto più coraggio di me, aveva sempre avuto molto più coraggio di me.

Una volta mi aveva fatto promettere che sulla sua lapide ci sarebbero stati tulipani rossi e narcisi, che al suo funerale avrei fatto suonare i Led Zeppelin, e io le dissi sì, sì, certo, cara, ma non parlare, non sforzarti.
La notte, nel mio letto, avevo pianto disperata, ficcandomi la coperta in bocca per non fare rumore.

Mi convincevo che sarebbe restata nelle sere d'estate con gli amici, nelle mani calde che ti tenevano il collo e mi si spezzava il cuore e l'amavo da morire.

Aprì gli occhi ormai vacui, socchiuse la bocca secchissima ed io le feci scivolare qualche goccia d'acqua sulle labbra aride, da un bicchiere di carta bianco che stava appoggiato sul comodino. Boccheggiò un poco, mentre io le accarezzavo il cranio coperto dal berretto verde e qualcuno dei suoi capelli fragili mi restava nelle mani.
Volevo conservarli e poi comprare uno di quei medaglioni che si aprono, per metterli lì e tenere le ciocche rossicce sempre con me.

Poi, un lampo di comprensione e quelle biglie di vetro vacue erano di nuovo i suoi occhi verdi, lucidi. Mi prese la mano con fatica, la strinse. Sentii il suo respiro farsi più veloce e poi uscire, in un sospiro, dalle labbra. L'accarezzai, chiuse gli occhi. Le sorrisi. Una lacrima le rigò la tempia, un tremito la scosse.

Posai un bacio sulla sua fronte, appena sopra il sopracciglio destro.

E rimanevano solo dei tulipani rossi nel sole di maggio.

  
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