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Autore: Blablia87    01/03/2016    8 recensioni
[Omega!verse]
[Alpha!Sherlock][Omega!John]
Pezzi di una filastrocca come briciole di pane lasciate da un passato pronto a riscuotere la sua vendetta.
Genere: Angst, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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John rimase immobile qualche secondo.
Sherlock era appena uscito dalla stanza, e ancora non riusciva a pensare in modo lucido a quanto appena successo.
Solo la sera prima si era addormentato sulle note del violino del suo coinquilino e adesso, meno di ventiquattr’ore dopo, non aveva più nulla. Sapeva che i patti erano quelli, ed era stato felice di trovare qualcuno che la pensasse come lui. Non cercava un Legame, non voleva un Legame.  Eppure, in quella stretta di mano che sanciva il loro addio, aveva sentito scivolargli via dalle dita un po’ della sua sicurezza. Si era affacciato nell’incredibile vita di quell’uomo, l’aveva condivisa con lui per un periodo breve ma che adesso gli sembrava distanziare quello che aveva vissuto fino a una decina di giorni prima come uno spartiacque dal quale non c’era ritorno.
Aveva attraversato lo specchio [1], e adesso era un riflesso mutato del sé che era stato per una vita intera.
Fece un paio di passi e si lasciò cadere su una delle panche di legno, portandosi il viso tra le mani.
Aveva bisogno di riflettere un attimo, con calma. Di riprendere in mano le sue sicurezze. Di pensare a dove andare, una volta lasciato l’appartamento di Baker Street. Ma più di ogni altra cosa, aveva bisogno di togliersi da naso, dai vestiti, dalla pelle l’odore dell’Alpha. Lo aveva respirato per giorni, si era abituato a sentirlo con sé in ogni momento della giornata passato nel loro appartamento. Ma adesso lo percepiva bruciare su ogni millimetro di pelle, incendiargli i polmoni ad ogni respiro. Non era questione di reazione ormonale. Era qualcosa di più intimo, se possibile. Aveva a che fare con il lutto per qualcosa che non era neanche esistito,  e quindi impossibile da elaborare. Era collegato ad un viso, ad una persona, e non al suo “ruolo”.
Seduto immobile nell’emiciclo pieno della scia salata, triste, di Sherlock, ma vuoto della sua presenza, John Watson prese coscienza di aver perso qualcuno che amava, in qualche modo, avere nella propria vita. Che l’aveva migliorata, senza sforzo, senza bisogno di parole o gesti eclatanti. E che allontanarsi fosse l’unica cosa possibile da fare non gli sembrò, al momento, di nessuna consolazione.
Intanto, al piano di sotto, nella saletta attigua alla camera mortuaria, il suo cellulare continuava a vibrare, senza che nessuno potesse sentirlo.
 
Sherlock imprecò a mezza voce, chiudendo l’ennesima chiamata verso John e cercando un nuovo numero sulla rubrica.
Si portò l’apparecchio all’orecchio iniziando a tornare verso il Bart’s.
Dopo qualche squillo la telefonata venne accettata. Per un paio di secondi, Sherlock non riuscì a sentir altro che un brusio di voci, incomprensibili.
Poi, lontana ed ovattata, si sentì la voce di Greg ordinare di sedersi.
“Lestrade!” Provò Sherlock, a voce alta. “LESTRADE!” Gridò, quando non ricevette alcuna risposta al primo tentativo.
“Spero sia importante, Sherlock, sto per iniziare la conferenza stampa sul caso Kensington.” Rispose dopo poco l’ispettore, a voce bassa. “Ho detto seduti! Inizieremo tra un attimo!” Lo sentì poi ripetere, rivolto quasi sicuramente alla folla di giornalisti che doveva avere di fronte.
“Questa cosa è venuta a galla, e ora siamo in un bel casino!” Aggiunse, rivolto nuovamente al detective.
“Sì, gli inconvenienti degli omicidi all’aperto.” Tagliò corto lui. “Ho bisogno di una volante al Bart’s. Adesso.”
“Cosa?! Che è successo?! Dammi un secondo che esco da questa maledetta conferen-“
“Resta dove sei e fa’ il tuo lavoro, per l’amor del cielo. Chissà cosa mai potrebbe inventare la stampa se un ispettore di Scotland Yard sparisse da un incontro con i giornalisti senza dare spiegazioni. Manda semplicemente una pattuglia. Ho bisogno che sorveglino John.”
“John? Che diavolo sta succedendo?” Dal tono di voce dell’ispettore traspariva tutta la sua preoccupazione.
 
“Piantala di perdere tempo prezioso con domande inutili, e manda una volante da John! Fallo e basta! ADESSO!” Sherlock chiuse la telefonata con un gesto stizzito. Lasciò cadere il cellulare nella tasca esterna del cappotto e rimase immobile qualche secondo, cercando di calcolare il percorso più breve per tornare all’ospedale. Un taxi? No, avrebbero rischiato di rimanere fermi ad un semaforo o, peggio, imbottigliati nel traffico. Metro? Ancora una volta la possibilità di perdere tempo prezioso era la più probabile: se fosse appena passata e avesse dovuto aspettare quella successiva? Se ci fosse stata fila ai tornelli? Chiuse gli occhi, portandosi indice e medio delle mani alle tempie. Doveva pensare. In fretta. Una mappa della città dall’alto si formò sotto le palpebre abbassate, e Sherlock la ridusse al quartiere dove si trovava in quel momento e la zona che ospitava il Bart’s. Poi visualizzò una linea rossa che collegava i due punti. Lui a John.
Il tempo di riaprire gli occhi e prendere un respiro profondo, e Sherlock iniziò a correre, seguendo il proprio percorso mentale.
 
Qualcuno bussò alla porta dell’emiciclo, e John sobbalzò visibilmente, riemergendo dai propri pensieri.
“Avanti.” Disse, a voce sufficientemente alta da essere sentito, ma senza urlare.
Per qualche secondo ci fu silenzio. Poi, nuovamente, il suono di nocche contro il legno.
“Ho detto avanti!” Ripeté John, alzandosi e avviandosi con passo lento verso la porta.
“Mike, se sei tu giuro che non è divert-“ Continuò, posando una mano sulla maniglia.
In quel momento la porta si spalancò, e John non fece in tempo ad alzare gli occhi sulla persona dall’altra parte: in una frazione di secondo si trovò a terra, con le mani dello sconosciuto premute contro le spalle.
L’impatto della testa contro il pavimento gli annebbiò per qualche attimo la vista. Istintivamente portò le mani in avanti, ancorandosi alla giacca dell’uomo (poteva vederlo chiaramente, adesso, anche se il cappuccio calato sul viso e il dolore pulsante che sentiva avvolgergli la testa gli permettevano di mettere a fuoco solo le labbra ed il mento) per tenerlo il più lontano possibile da sé.
Aveva un odore acre, ma non forte a sufficienza per identificarlo come Alpha. Era un Beta, senza dubbio, e l’intensità anomala della sua scia era data, quasi sicuramente, dall’assunzione di qualche droga. John incamerò tutte le informazioni in pochi secondi. Durante gli anni nell’esercito aveva imparato che una rapida analisi del contesto e del nemico alle volte era l’unica cosa in grado di fare realmente la differenza in caso di pericolo.
Un Beta sopra di lui poteva voler dire tante cose, ma sicuramente ne escludeva una: pericolo di venir morso. Poteva quindi smettere di concentrarsi a cercare di proteggere il collo, e dedicarsi all’atterrare, in qualche modo, l’uomo.
John piegò leggermente le braccia, preparandosi a darsi una spinta con i reni per cercare di spostare di lato l’aggressore. Prese un respiro profondo, e si preparò ad irrigidire gli addominali bassi. Inaspettatamente, l’uomo sopra di lui staccò le mani dal suo petto e si alzò leggermente, prima di ricadere con le ginocchia sullo sterno del medico.
John sentì i polmoni svuotarsi totalmente di ossigeno, e per qualche secondo rimase immobile, impossibilitato a far qualsiasi cosa che non fosse tentare di riprendere fiato.
Vide l’aggressore cercare qualcosa nella tasca della giacca, e tutti i suoi recettori del pericolo iniziarono a gridargli che doveva alzarsi, o sarebbe stato troppo tardi. Abbassò un braccio, cercando di afferrare la manica della giacca dell’uomo, e con l’altra tentò di arrivare al suo viso. Non aveva bisogno di tanto, sarebbe bastato un colpo ben assestato al mento, per poter tentare di toglierselo di dosso. In quel momento l’aggressore estrasse quel che stava cercando dalla tasca, e John capì che non c’era più tempo.
Guardò con occhi sgranati l’assalitore portarsi una siringa alla bocca, e liberarla con i denti dal cappuccio protettivo.
“MIK-“ tentò John, nonostante il peso dell’uomo gli impedisse di respirare e di emettere poco più di un rantolo.
“Sta’ fermo, Omega!” sibilò l’uomo, e John cercò affannosamente di capire dove avrebbe tentato di colpirlo. I bersagli erano molteplici, e tutto dipendeva dal contenuto della siringa, ma non c’era tempo per un’analisi più specifica. L’unica minaccia concreta che riusciva a mettere a fuoco in quel frangente era un arresto cardiaco da iniezione di adrenalina, quindi optò per il piegare le braccia contro il petto, riparando in cuore.
 “Lo aveva detto, che lo avresti fatto.” Sussurrò l’uomo, aprendosi in un sorriso malato.
Il tempo di immagazzinare l’informazione apparentemente senza senso appena ricevuta, e John sentì un dolore lancinante lacerargli la pelle, poco sotto il viso.
L’uomo, adesso del tutto chino su di lui, gli premeva con tutta la sua forza l’ago in profondità nel lato destro del collo. John spalancò la bocca per il dolore e la sorpresa, mentre l’aggressore finiva di spingere con lo stantuffo il contenuto della siringa e si rialzava velocemente, lasciandolo libero di respirare.
John allargò i polmoni in spasmodica ricerca di ossigeno, ed allo stesso tempo sentì la pelle iniziare ad andare a fuoco. Non era semplice dolore, era qualcosa che andava oltre. Era come se qualcuno gli avesse incendiato ogni singolo capillare, ogni millimetro di pelle, ogni cellula di ossigeno che stava respirando.
Il medico si contorse, arcuando la schiena. L’uomo, adesso in piedi accanto a lui, lo sentì rantolare. Attese qualche attimo, guardando John spostarsi su di un lato e vomitare. Poi uscì dalla stanza, lentamente, togliendosi il cappuccio non appena superata la porta e riponendo la siringa - ormai vuota - nella tasca del cappotto.
John rimase in posizione fetale, scosso dai conati, per qualche secondo. Poi, lentamente, il bruciore iniziò a scemare. A fatica, ancora preda dei tremori, il medico cercò di mettersi in ginocchio. Si ancorò con un braccio ad una delle sedute di legno, e provò e mettersi seduto, ricadendo in terra poco dopo, al termine di sforzi inutili. Le gambe non sembravano ancora rispondere correttamente, ed i tremori gli impedivano di far forza in modo utile sulle braccia.
Si trascinò quindi fino al punto più lontano dalla porta dell’emiciclo, e si lasciò cadere spalle alla parete. Per circa un minuto fu come essere morti. John lo pensò un paio di volte, mentre un vuoto sensoriale lo avvolgeva. Non provava più dolore, ma non riusciva neanche più a vedere, o a sentire, suoni od odori che fossero.
Poi, all’improvviso, i sensi si riaccesero tutti insieme, in un’esplosione percettiva che gli fece nuovamente salire un conato lungo la gola.
Più di tutto, un odore nuovo si imponeva adesso prepotentemente alla sua attenzione, e John cercò di muovere la testa per allontanarlo. Era forte, pungente, e sembrava voler a tutti i costi rimanergli ancorato addosso.
John tossì un paio di volte, poi bloccò il respiro, sperando che scomparisse.
Ma quando riprese fiato, qualche secondo dopo, l’odore era ancora lì, immobile.
Il medico alzò a fatica una mano e si portò il dorso contro il naso, per schermarsi. Inaspettatamente, l’emanazione si fece ancora più forte.
“Che diavolo…” Sussurrò John, lasciando ricadere il braccio.
“Ok, calmati.” Si disse, provando a chiudere gli occhi e a prendere un paio di respiri profondi.
Sentì il suo cuore rallentare, e la tensione alleggerirsi un po’.
L’odore, attorno a lui, mutò. Divenne più dolce, più morbido.
Gli ricordava qualcosa, adesso. Aveva a che fare con Sherlock, con il suo violino. Con la sua voce che elencava tre cose.
Arance.
Menta.
Lavanda.
“Cristo!” esalò John, cercando di mettersi in piedi.
La scia tornò immediatamente agre, e il medico ebbe la sensazione, per qualche attimo, di star per perdere la propria lucidità mentale. Una parte di lui continuava a pensare che no, non era possibile. Un’altra, più razionale, gli stava ripetendo ormai da qualche secondo che quell’odore non se ne sarebbe mai più andato. Non avrebbe potuto.
Era il suo odore.
John sentì le lacrime, bollenti, premere contro i suoi occhi. Bruciavano di paura, di terrore, ma anche di rabbia. Una rabbia sorda, carica di disperazione.
Il medico ingoiò un paio di boccate d’aria, sentendo la sua scia divenire un sapore, sulla propria lingua, e ricacciò indietro le lacrime.
Poco lontano, nel corridoio, lo raggiunse il suono di passi affrettati.
John si alzò facendo appello a tutte le sue forze, e si appoggiò alla parete con gambe tremanti.
Se era quell’uomo che tornava per finire il lavoro, non si sarebbe fatto trovare impreparato.
“John Watson!” si sentì chiamare, e la cosa lo lasciò interdetto.
Ancora instabile sulle proprie gambe, cercò comunque di prepararsi a dover fuggire.
“John Watson!” Ripeté la voce, ormai ad un passo dalla porta.
I passi si fermarono, ed il medico riuscì a sentire solo qualche bisbiglio.
Trattenne il fiato, lanciando uno sguardo con la coda dell’occhio alla propria destra, oltre la vetrata dell’emiciclo, in cerca di un possibile aiuto. La sala autopsie era vuota, e John si lasciò sfuggire un sospiro.
I sussurri finirono, e per qualche secondo ci fu solo silenzio. Poi, inaspettatamente, un poliziotto si affacciò nella sala, pistola dritta davanti a sé.
Guardò John, poi ciò che aveva rimesso sul pavimento, e di nuovo il medico, mentre un altro agente si affacciava cautamente a sua volta, affiancandolo.
“È lei John Watson?” Domandò il primo, facendo un passo avanti.
La sua scia, benché fosse un Beta Minus, colpì John come uno schiaffo. Il medico si appiattì contro la parete, incapace di muoversi in altro modo.
“È lei John Watson?” Chiese nuovamente l’uomo, facendo un ulteriore passo verso il centro della stanza.
“Andate via…” riuscì a dire John, la voce ridotta a poco più di un sussurro.
“Sta bene? Cosa è successo?” Continuò l’agente, ignorando la sua richiesta.
“Andate via!” Ripeté John, con voce lievemente più ferma. Più l’uomo rimaneva nella stanza, più quella si saturava del suo odore che, anche se misero, al momento premeva come una lama contro i polmoni del medico.
“Per favore…” Provò, odiandosi per il tono supplichevole che stava usando.
“Signore, se è successo qualcos-“ Continuò il poliziotto, preparandosi a fare un altro passo verso John.
“Non lo avete sentito? Ha detto di andare via.” Una voce, alle sue spalle, fece girare di scatto l’agente. “Lestrade, richiama i tuoi uomini. È tutto ok.” Aggiunse la voce, sottolineando in modo particolare il nome dell’ispettore, in modo che i due uomini capissero con chi, evidentemente, era al telefono.
L’agente si girò un’ultima volta verso John, lanciandogli un’occhiata che sottointendeva che quella fosse la sua ultima possibilità di chiedere aiuto.
Il medico distolse lo sguardo, abbassandolo. Aveva riconosciuto la voce alle spalle dell’agente ancor prima che la scia, e adesso sentiva un disperato bisogno di correre quanto più possibile lontano da quell’odore, e da Sherlock, fosse possibile.
Il poliziotto affiancò il detective e gli lanciò uno sguardo serio, prima di superarlo e tornare su i suoi passi. Sherlock sentì distintamente la voce di Lestrade, attraverso le loro radioline, comunicargli di far rientro alle centrale. Chiuse quindi la telefonata con l’ispettore, ed entrò nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
“No.” Implorò John, attaccandosi ancor più con le spalle contro la parete. “ Ti prego, Sherlock, vattene.” Sussurrò, incapace di alzare lo sguardo o impedire alla scia del detective di riempire ogni suo respiro.
“Che cosa è successo?” Gli sentì domandare, mentre il suo odore mutava di intensità, diventando carico di preoccupazione.
“Non lo so…” Ammise John. “Ma so che devi andare via.” Aggiunse, alzando uno sguardo mesto sul detective.
Si sorprese nel trovarlo con i capelli appiccicati alla fronte per il sudore, e con un’espressione tesa sul viso.
Doveva aver corso, e molto, e John pensò che non lo aveva mai davvero visto prima di quel momento. Era come vederlo sotto un’altra luce, come se fosse completo, adesso, non più un’entità dotata di un corpo e di una scia, ma un qualcosa che era integro solo nella combinazione di entrambi.
John sentì nuovamente un fiotto di nausea risalirgli lo stomaco e bruciargli in gola. Non voleva nessun pensiero come quello, non voleva – al momento - alcun pensiero.
“Sherlock…” Iniziò, piegandosi sulle gambe e cercando di trattenere gli spasmi che i conati gli stavano dando. “Per favore…Per l’ultima volta…”
“Mycroft.” La voce del detective era dura, inflessibile. “Manda una macchina al Bart’s. Adesso.”
Sherlock spense il cellulare e lo ripose nella tasca del cappotto.
“Andiamo.” Disse, avvicinandosi a John. Il medico sentì le gambe cedere, e si lasciò cadere a sedere sul pavimento.
“No.” Rispose, con voce tremante.
“Andiamo John.” Ripeté Sherlock, facendo un passo indietro e cercando con la mano la maniglia della porta, socchiudendola.
“Non puoi rimanere qui. Non con quella scia. Sei lontano dal Calore, quindi per adesso non ci sono grossi problemi, ma dobbiamo andarcene.”
“No.” Ribatté il medico, sottolineando l’affermazione con un movimento del capo.
“Per favore.” Sherlock si era piegato sulle ginocchia e aveva abbassato la voce. Anche la sua scia, in parte, si era abbassata. “Ti giuro che troverò un modo per rimettere le cose come prima, ok?”
“Un uomo… lui… mi ha iniettato qualcosa.” Spiego John, a fatica, indicandosi il collo.
Sherlock aggrottò la fronte. “La scia si è riattivata per questo?” Domandò.
Il medico fece cenno di sì con la testa.
“Ok. Allora è davvero momento di andare. Troverò chi ti ha fatto questo e sistemeremo ogni cosa ma, se vuoi che il tuo segreto resti tale, adesso devi alzarti.” Sherlock si avvicinò a passo svelto verso John, e lo afferrò, aiutandolo a mettersi in piedi. Il medico sentì la propria lucidità assottigliarsi ad ogni respiro, e cercò di allontanare il detective con movimenti scomposti.
“Andrà meglio John. Te lo prometto. Non sei in Calore, stai solo ricevendo troppi input olfattivi. O meglio, adesso questi attivano delle risposte, cosa che prima non accadeva. Non è grave, dobbiamo solo andar via di qua. Ed io non ho nessuna intenzione di sfiorarti o farti del male in alcun modo, va bene?” Disse, ancorando i propri occhi in quelli del medico. “Va bene?” Ripeté. John annuì appena.
“Perfetto. Metti questo.” Sherlock si tolse con un movimento fluido la giacca e l’avvolse attorno al medico, che lo guardò senza capire. Il calore della lana e l’odore di Sherlock erano così forti che gli sembrava di essere ubriaco.
“Così copriamo la tua scia. Dovessimo incontrare qualcuno mentre usciamo.” Spiegò Sherlock, aiutando John a muovere i primi passi lungo la stanza. “Quando saremo a casa potrai farti una doccia, e cercheremo di togliere ogni traccia della mia scia, ok? Possiamo chiedere alla signora Hudson se puoi farla da lei, così non sarai costretto a stare al piano di sopra. Per adesso sopporta, lo so che non è il massimo ma è tutto quello che abbiamo.”
“Pensavo…” biascicò John, ancora confuso. “Di non aver più una casa.”
“Diciamo che le priorità sono cambiate.” Rispose Sherlock, secco. “E almeno fino al Calore, non c’è nessun pericolo reale per nessuno dei due. E comunque al momento abbiamo problemi più gravi della tua scia.” Concluse, aiutando John a superare la porta dell’emiciclo ed iniziando a muoversi lungo il corridoio.
 
Una volta saliti sulla macchina di Mycroft, che li attendeva oltre l’ingresso dell’ospedale con i motori accesi, John iniziò a sentire l’aria mancare. L’auto era satura dell’odore del maggiore degli Holmes e, unita a quella di Sherlock, gli sembrò divenire quasi un’entità densa, palpabile, immobile al centro di ogni suo respiro.
Il detective lo osservò rantolare, annaspando in cerca di ossigeno, e si voltò verso il fratello.
“Sarebbe bastata la macchina.” Sibilò, carico di astio.
“Se mi avessi detto qual era il problema, sta’ sicuro che non sarei venuto.” Rispose Mycroft, lanciando uno sguardo verso il medico.
“Che sta succedendo?” Domandò con distacco, ma Sherlock riuscì comunque a notare una piccola inflessione nel suo tono di voce.
“È quello che devo scoprire.” Sherlock si voltò verso John che, ad occhi chiusi e respiro affannoso, cercava di rimanere lucido.
“John.” Lo chiamò.
“John.” Tentò di nuovo, e questa volta il medico socchiuse gli occhi per guardarlo.
“Lo so che… lo so che lo troverai assurdo, ma appoggia il tuo viso sulla mia spalla, va bene?” Cominciò il detective, che con la coda dell’occhio vide il fratello alzare un sopracciglio, sorpreso.
“Respira la mia scia. Se ti avvicini puoi isolare quella di mio fratello e concentrarti sulla mia.” John lo guardò con aria interrogativa.
“È familiare, la conosci. È più facile per te controllarti. Ed io so farlo perfettamente. Il tempo di arrivare a Baker Street. È la cosa più logica da fare.” Spiegò.
Il medico lanciò uno sguardo verso Mycroft, che annuì. A fatica, con uno sforzo che gli mozzò il poco fiato che aveva, si girò da un lato, appoggiandosi alla spalla di Sherlock.
Il primo istinto del detective fu quello di piegarsi a sue volta, andando a nascondere il viso nell’incavo del collo di John. Invece, con un sospiro profondo, tornò a voltarsi verso il fratello.
“Lo hai rintracciato?” Chiese, ascoltando il respiro caldo del medico infrangersi contro il colletto della sua camicia.
“No. Pare sia più furbo del previsto, il tuo serial killer.”
“Già.” Rispose Sherlock, voltando appena la testa in direzione di John. “Non riesco a capire cosa voglia.” Ammise, serrando per qualche secondo gli occhi. “Perché avrebbe dovuto fargli questo. Cos’è che mi sfugge!” Sibilò, con rabbia. “Lo minaccia di morte, e poi…”
“E poi lo condanna a morte. La peggiore, per lui.” Rispose Mycroft, semplicemente, girandosi verso il finestrino.
Sherlock rimase immobile, osservando il volto del fratello rimanere impassibile per tutta la durata del viaggio, intento a seguire i propri pensieri e a tenere il più possibile bassa e sotto controllo la propria scia.
Non si era mai soffermato a riflettere a lungo su i comportamenti di Mycroft. Li aveva sempre visti, semplicemente, come rivolti a mantenere integra la società ed il suo ordine ed in seconda istanza a denigrare le sue scelte di vita. Eppure in quel momento, mentre notava il suo gesto di gentilezza nei confronti di John, non obbligato né richiesto, non riuscì a pensare altro che gli era grato di essere lì per lui. Per loro. E che aveva ragione: il killer aveva condannato John ad una vita alla quale il medico, senza ombra di dubbio, avrebbe preferito la morte.
 
Angolo dell’autrice:
Poi non dite che non vi penso, eh!
Mi sono uccisa per scrivere questo capitolo, e pubblicarlo, in tempo! XD
Tra l’altro è in assoluto il più lungo dall’inizio della storia, quindi spero che vi possa tener compagnia in modo adeguato fino al prossimo, che non so quando potrò pubblicare (comunque sicuramente prima di lunedì prossimo, almeno che non accadano tragedie particolari e non si presenti anche da me un Beta armato di siringa XD)
 
As usual grazie a tutte/i per aver letto, e un doppio grazie a chi ha commentato e commenterà.
 
Un saluto ed un forte abbraccio!
 
B.
   
 
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