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Autore: Adeia Di Elferas    03/03/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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~~ “È la seconda volta che vi risparmio la vita, non ci sono molti uomini che possono ritenersi fortunati quanto voi.” disse Caterina, non appena lei, Codronchi e la scorta furono lontani dai confini di Forlì.
 Codronchi, che cavalcava curvo e scuro in viso, non commentò.
 “Aggireremo Faenza. Mentre saremo nei boschi, voi ve ne andrete per la vostra strada, come avevamo deciso.” proseguì Caterina, a voce più bassa: “E di voi non voglio sentire parlare mai più. Sono stata chiara?”
 Codronchi annuì e le dedico una rapida occhiata.
 Così, quando presero la solita strada tra le piante fitte che circondavano le terre dei Manfredi, a un certo punto la Contessa fece fermare il piccolo drappello di uomini e diede ordine a Codronchi di allontanarsi.
 Questi, portando con sé unicamente il cavallo, pochi soldi e i soli vestiti che aveva indosso, si congedò con un rapido cenno del capo e cominciò a cavalcare in direzione opposta rispetto alla città di Faenza.
 Appena fu abbastanza lontano da non essere più visibile, ma ancora abbastanza vicino da poterne sentire il rumore, Caterina chiamò a sé uno dei soldati che la scortava e disse: “Seguitelo e assicuratevi che non torni indietro.”

 Caterina Sforza e il suo seguito arrivarono a Imola la sera del 16 agosto.
 Girolamo aveva passato i giorni di lontananza della moglie preda di uno stato d'ansia inconsolabile, ma rivederla sana e salva lo aveva rincuorato immediatamente.
 Tuttavia la moglie lo sfuggì, quella sera, andando a chiudersi nelle sue stanze e facendo d'urgenza chiamare un medico e la levatrice.
 Passò l'intera notte in compagnia dei dolori del travaglio. Il bambino sembrava impaziente di nascere, eppure le ore si inseguivano e di lui non c'erano ancora tracce.
 La levatrice cercava di fare coraggio alla Contessa, e così facevano anche il medico e due delle balie, che avevano insistito per essere presenti.
 Il sole del 17 agosto era sorto da circa due ore quando, finalmente, la levatrice potè, con una certa soddisfazione, prendere tra le proprie mani il neonato annunciando: “Un altro bellissimo maschietto!”
 Dopo aver tagliato il cordone e sistemato ogni cosa, la levatrice pose tra le braccia di Caterina il nuovo nato e le chiese, con un sorriso: “Questo come lo chiamerete, mia signora?”
 La donna, ancora provata dai giorni appena trascorsi in Forlì e stremata per la lunga notte di travaglio, strinse a sé il piccolo e lo guardò un momento.
 Si ricordò di come quel bambino avesse lottato con tutto se stesso pur di venire al mondo. Le aveva impedito di ucciderlo con una pozione, aveva resistito al viaggio a Milano, al ritorno rocambolesco verso Imola ed era stato con lei nei concitati giorni delle rivolte di Zaccheo prima e di Codronchi poi...
 “Lo chiamerò Francesco Sforza.” annunciò, a voce bassa.
 Le labbra della levatrice si aprirono in un'espressione di divertita sorpresa, mentre il medico, enormemente sollevato nel vedere che il bimbo stava bene malgrado la madre fosse reduce da una lunghissima cavalcata, si affrettava a congratularsi per la scelta.
 Una delle due balie scoppiò a ridere di gioia, commentando: “Ma che bello! Lo chiameremo Sforzino!”
 “Il piccolo Sforzino! Mi piace!” esclamò la seconda balia, avvicinandosi al neonato per vezzeggiarlo.

 Il corpo di Melchiorre Zaccheo venne ripescato dal fossato della rocca, in cui era stato gettato da Codronchi, su ordine di Tommaso Feo e fatto seppellire nella chiesa dei Frati Predicatori.
 I forlivesi avevano preso questa decisione del nuovo castellano come un atto di pietà cristiana e avevano apprezzato un simile slancio, seppur nei confronti di quello che si pensava essere un traditore.
 “Ma perchè han dato la rocca al capitano Feo?” chiese uno dei clienti di Andrea bernardi, stando appoggiato sullo stipite della porta per godersi un pochino d'aria.
 L'agosto infuocato di quell'anno non lasciava respirare nessuno. Il Novacula se ne stava con porte e finestre aperte, eppure non c'era modo di convincere un po' di brezza a entrare a rinfrescare la bottega.
 “Perchè quello è così con la Contessa!” rispose un altro, avvicinando i due indici mentre parlava.
 “Verissimo.” si aggiunse un terzo: “Non avete visto in queste settimane? Tutto il tempo appiccicati.”
 “Notte e giorno. Giorno e... notte, non so se mi spiego!” sottolineò quello che aveva fatto il segno con gli indici, ammiccando.
 “Che poi se il Conte ha davvero tirato le cuoia, che male c'è?” fece spallucce quello sulla porta.
 “Il Conte non è morto.” provò a dire Bernardi, sperando di non suonare troppo offeso.
 Da quando la Contessa aveva strappato la rocca di Ravaldino a Codronchi e se n'era tornata a Imola, in molti, in troppi, anzi, avevano cominciato ad alimentare brutte chiacchiere sul suo conto.
 Chi diceva che il marito era stato avvelenato, altri che si era ammazzato per colpa della moglie che non lo voleva, altri ancora sostenevano che era stato infilzato da Tommaso Feo. E, ovviamente, in tutte queste versioni Feo c'entrava comunque, in qualità di amante segreto della Contessa.
 “Sì, sì...” soffiò uno dei clienti, con un mezzo ghigno: “Credete anche che gli asini volino? Da quanto tempo non lo vede nessuno, eh?”
 “Appunto! Se fosse vivo, qualcuno l'avrebbe visto!” concordò quello che stava sulla porta: “Invece quella donna si fa i suoi comodi con il capitano e ci fa credere a tutti che suo marito è ancora vivo, perchè ha paura che una donna come lei verrebbe messa in riga in un attimo, se si sapesse che non ha più un marito alle spalle!”
 “Questi discorsi non mi piacciono!” sbottò Bernardi, perdendo la pazienza, le gote che si arrossavano, le mani piantate sui fianchi.
 “Che accade, Novacula? Anche voi siete innamorato della Contessa?!” rise il cliente che Bernardi stava sbarbando in quel momento.
 “Non dite sciocchezze!” fece subito il barbiere, finendo di radere l'insolente forlivese che gli stava davanti.
 “Comunque sia – riprese quello che stava sulla porta – poca gente sarebbe riuscita a far quello che ha fatto lei. E a quanto dicono ha pure sgravato appena tornata a Imola.”
 Quell'affermazione mise a tacere tutti i presenti che, chi più chi meno, presero a pensare che in effetti una simile dimostrazione di forza non era da sottovalutare.

 'Mi duole dirvi che ancora ci troviamo nelle condizioni di dover attendere. Le rivolte fallite hanno reso la strega ancora più forte, facendola apparire inflessibile e tenace. Se colpissimo ora, il popolo non ci asseconderebbe, terrorizzato da quella che sarebbe la reazione di quella tigre. Nessuno sa di preciso che ne sia stato del traditore C., sappiamo solo che la rocca ora è nelle mani di un suo uomo. Le nostre spie infiltrate nella bottega di A. B. non hanno ancora potuto scoprire nulla che già non sapessimo, quindi forse nemmeno il barbiere sa molto. Resta il fatto che lei è il nostro grande problema. Finchè lui non tornerà a occuparsi degli affari di Stato, lei stringerà il morso su tutto quello che facciamo e ci sarà impossibile ricreare le condizioni giuste per sobillare la gente comune. In merito posso dire che dalla nascita dell'ultimo figlio, lui pare riprendersi ogni giorno di più. Contiamo che la ripresa sia eccellente e rapida, o non avremo speranze. Vostro affezionatissimo e fedelissimo M. M.'
 Lorenzo Medici strappò la lettera con rabbia. Non ne filava una per il suo verso. Quella maledetta Caterina Sforza non faceva altro che prevenire ogni sua mossa senza nemmeno rendersene conto!
 “Vostra moglie Clarice chiede di voi...” disse piano un servo, entrando con circospezione.
 “Perché?” chiese secco Lorenzo, ancora accigliato e contrariato.
 Il servo chinò il capo: “Dice che vi vorrebbe al suo fianco per andare alla messa, mio signore...”
 Lorenzo si massaggi la fronte. Era stufo marcio della fervente religiosità di sua moglie. In giorni come quello, le pareva solo una bigotta che non sarebbe mai riuscita a farsi accettare dalla città che l'aveva accolta diciotto anni prima. In più, da quando la loro figlia Maddalena le aveva scritto di nascosto parlando di quanto fosse infelice con il marito Franceschetto Cybo, Clarice sembrava ardere di passione per tutto ciò che era penitenza e pentimento.
 “Ditele che la raggiungerò più tardi, se avrò tempo.” disse Lorenzo, cercando di trattenere la rabbia che provava in quel momento: “Le sue preghiere sono di certo più gradite a nostro Signore rispetto alle mie, dunque non vedo dove sia il problema.”
 Il servo si ritirò in buon ordine e così Lorenzo si sentì libero di prendere carta e inchiostro e scrivere di getto la risposta al suo uomo.
 'Per Dio, M., trovate a ogni costo il modo d'agire il prima possibile – scrisse – fatelo promettendo e minacciando, io vi appoggerò. Trovate alleati in ogni ceto e invogliate lui a riprendere il suo posto alla guida dello Stato. Una volta che sarà di nuovo a capo delle città, inducetelo a un errore dopo l'altro in modo da fargli perdere ogni favore popolare. Per sistemare lei, basterà farle perdere la rocca, ma stavolta fargliela perdere per davvero. Non fatele nulla, per il momento. Mentre con lui, non abbiate pietà. L.'

 Domenico Roffi e suo figlio Sante fecero entrare i parenti in casa. La campagna era secca e il sole batteva sulle loro teste senza tregua.
 Nino e Biagio, i fratelli di Domenico, ringraziarono e si presero una sedia per cominciare subito la riunione segreta.
 “Dunque? Novità da Ravenna?” chiese subito Sante, Domenico, con impazienza.
 Biagio annuì con gravità: “Ho incontrato Antonio Ordelaffi e la cosa si fa.”
 “Dovremo chiamare tutti i nostri parenti, grazie al cielo ne abbiamo tanti, e tutti i nostri amici.” constatò Nino, sfregandosi le grosse mani l'una nell'altra: “Ci portiamo i forconi e non solo. L'Ordelaffi sostiene di poterci dare anche delle armi. Noi prendiamo Porta Cotogni e poi lui arriva con seicento uomini a Ponte Bagnolo e da lì è fatta.”
 “Parla, parla, quello, ma alla fine mi sa che ci tocca far tutto da noi... Seicento uomini, ma alla fine il colpo d'inizio lo dobbiamo dare noi e gli uomini per quello li dobbiamo trovare noi!” commentò a denti stretti Domenico.
 “Tutti ci stimano e tutti gli agricoltori della zona sono dalla nostra parte.” disse Nino, con sicurezza: “Anche i miei figli Domenico e Giorgio dicono che tutti quelli che conoscono sarebbero pronti a stare dalla nostra parte.”
 “E sia. Quando?” chiese a quel punto Domenico, mentre il figlio Sante guardava gli zii con uno sguardo di rapita esaltazione.
 “Tempo qualche settimana. Per fine settembre, forse anche un po' prima.” rispose Nino: “Lo decideremo con precisione quando saremo certi di avere un po' di gente dalla nostra.”
 “Solo tra cugini e zii e nipoti nostri siamo la metà di mille!” esclamò Biagio incrociando le braccia sul petto con fare risoluto.
 “Questa volta ci pensiamo noi a togliere di mezzo quei maledetti papisti, dal primo all'ultimo, fino quello appena nato, quello che chiamano Sforzino!” commentò Sante, battendosi un pugno sulla coscia.
 “Frena i bollenti spiriti tu.” lo redarguì suo padre Domenico: “Vogliamo prenderci una città non è roba per ragazzini. Te ne starai buono al tuo posto.”
 “Ma, padre...!” protestò il giovane, deluso.
 “Taci. Uccidere dei Conti è lavoro per uomini, non per bambini.” lo liquidò Domenico.

   
 
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