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Autore: Blablia87    03/03/2016    9 recensioni
[Omega!verse]
[Alpha!Sherlock][Omega!John]
Pezzi di una filastrocca come briciole di pane lasciate da un passato pronto a riscuotere la sua vendetta.
Genere: Angst, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Scesi dalla macchina, John – ancora malfermo sulle gambe e sorretto da Sherlock – riuscì finalmente a respirare.
Complice un vento forte, il medico percepì i propri polmoni espandersi e saturarsi di ossigeno, riuscendo finalmente a diluire, almeno in parte, l’odore del detective.
Dopo un paio di boccate si sentì in grado di camminare da solo, e si scostò di qualche centimetro da Sherlock.
“Va molto meglio, adesso.” Sussurrò, rivolto più a se stesso che non al detective.
Sherlock rimase fermo qualche attimo, osservando il medico reclinare indietro la testa e chiudere gli occhi, avido di aria.
La scia del medico era priva di qualsivoglia inflessione, segno del suo essere relativamente tranquillo.
Riuscire a capire cosa provasse John attraverso il suo odore era un’esperienza nuova per Sherlock, e non riusciva a distaccarsi in nessun modo dalla necessità impellente che sentiva di doverlo respirare, catalogare, comprendere. Per lavoro era ricorso spesso all’olfatto, ma niente, prima di quel momento, aveva attirato la sua attenzione con tanta forza. Gli era perfettamente chiaro cosa stesse succedendo, ma in quel preciso momento - il vento che si insinuava tra le pieghe della sua camicia e gli faceva ricadere con violenza i capelli sulla fronte - non gli importava. Era fuggito per anni da questo: dall’ineluttabile forza degli ormoni.
Dalla trappola che racchiudevano, riconoscibile solo una volta al suo interno. Capiva ogni sfumatura del proprio comportamento, e ne era spaventato. Allo stesso tempo, però, l’idea di girarsi dall’altra parte, o di fare un passo lontano da John non sembrava attuabile.
“Le scie degli altri sono le sirene di Ulisse. Cantano, e tu dimentichi chi sei.” Gli aveva detto Mycroft una volta, quando – ancora troppo piccolo per averne una propria – era andato da lui a cercare risposte.
Sì, le scie erano questo: un richiamo. Ma lui sarebbe stato capace di legarsi all’albero maestro della propria volontà, come sempre.
“Stai tremando.” La voce di John lo richiamò dai suoi pensieri.
“Cosa?” Domandò, confuso.
“Tremi. Fa freddo qui fuori, e hai dato a me il tuo cappotto.” Spiegò John, guardandolo con la coda dell’occhio, la testa ancora rivolta in alto. “Entriamo.”
Sherlock annuì appena, e si diresse verso la porta d’ingresso.
“Signora Hud-“ chiamò, a voce alta, una volta nell’ingresso.
“No.” Disse John dietro di lui - scuotendo energicamente la testa - bloccandolo.
“Pensavo avessimo detto che ti saresti lavato da lei.” Sherlock si voltò a guardarlo con aria interrogativa.
“Sto meglio adesso, voglio andare di sopra.” John superò il detective e si diresse verso le scale.
“John sopra è saturo del mio odore.” Il detective allungò una mano per fermarlo, ma il medico si portò velocemente sul primo gradino, voltandosi poi verso di lui.
“Vorrà dire che apriremo le finestre.” Sibilò.
“Non è la scelta più indicata, al momento.” Ribatté in detective, con voce calma.
“Nessuno deve sapere della mia condizione, Sherlock. Nessuno.” John alzò un angolo della bocca nell’imitazione di un ringhio, come aveva imparato a fare anni addietro per sottolineare il proprio disappunto per qualcosa.
“Cari!” La voce della signora Hudson interruppe il loro contatto visivo, facendoli voltare entrambi verso la porta del suo appartamento.
“Che succede?” Domandò la donna, facendo scorrere uno sguardo preoccupato da l’uno a l’altro.
“Niente signora Hudson, ci perdoni se l’abbiamo disturbata.” Disse John, lanciando a Sherlock un’occhiata eloquente.
Un comando. Sarebbe bastato un solo ordine impartito con voce sufficientemente sicura, per costringere il medico a fare quanto voleva che facesse. Quanto era più logico facesse. Sherlock lo sapeva perfettamente.
Ciò nonostante, sospirò chiudendo gli occhi per qualche secondo.
“È tutto a posto signora Hudson, volevo solo farle sapere che eravamo rientrati.” Mentì, guardando poi a sua volta John con un’espressione di chiaro disappunto dipinta sul volto.
“Volete che vi prepari il pranzo?” Chiese la donna, ancora immobile sulla porta.
“Non ce n’è bisog-“ Iniziò John, ma la sua voce venne coperta da quella di Sherlock.
“Grazie, sarebbe perfetto se la lasciasse fuori dalla porta una volta pronta.” Il detective accennò un sorriso di ringraziamento e superò John sulle scale, iniziando a salire al piano di sopra.
Il medico rimase immobile qualche secondo, incerto se ribadire che non era necessario che venisse loro cucinato qualcosa. Alla fine ringraziò a sua volta la donna e seguì il detective al piano superiore.
 
Quando John mise piede nell’appartamento, trovò tutte le finestre del salotto spalancate. Un vento gelido spostava le tende e faceva volare qua e là alcuni ritagli di giornale.
“Sherlock?” Chiamò, non sentendo alcun rumore. Si affacciò in cucina, trovando aperta anche la piccola finestra che dava sul cortile interno del palazzo.
“Bagno.” Lo informò il detective, la voce ovattata dalla distanza e dalla porta chiusa.
John sentì il rumore dell’acqua che iniziava a scorrere, e si avvicinò all’apertura tra la cucina ed il corridoio.
Con sorpresa constatò che il detective aveva aperto anche la sua stanza, della quale adesso poteva intravedere qualche scorcio, ed anche lì aveva provveduto a far cambiare aria.
Il medico si appoggiò alla porta del bagno e bussò un paio di volte.
“Non essere ridicolo.” Rispose Sherlock, dall’interno. “Entra e basta!”
John sentì il suo stomaco torcersi, e fece istintivamente un passo indietro. Era chiaro che Sherlock non lo avesse fatto di proposito, ma non poté esimersi dal sentirsi combattuto tra l’entrare per sua volontà ed il farlo perché richiesto da lui.
“John.” Lo chiamò il detective, aprendo la porta del bagno e affacciandosi sul corridoio.
“Che succede?” Domandò, osservando accigliato il volto dell’altro.
“Niente… spostati.” Rispose frettolosamente il medico, finendo di aprire la porta ed entrando nel bagno.
L’acqua stava scorrendo, riempiendo lentamente la vasca. Il vapore, caldo, ondeggiava sulla superficie e da lì saliva, riempiendo la stanza.
“Non c’era bisogno che mi preparassi il bagno.” Soffiò John, trovandolo più difficile che mai.
“Lo so.” Rispose Sherlock, alle sue spalle, con voce distaccata. “L’ho fatto e basta.”
“Ok. Penso tu possa uscire, adesso.” John si tolse il capotto e glielo porse, senza voltarsi.
“Se hai bisogno chiama.” Rispose Sherlock, pentendosene un attimo dopo. Prese il soprabito e fece per uscire.
“Ho una scia, Sherlock. Non sono in Calore.” Disse John, con voce tesa. Il suo odore virò verso note agri, a sottolineare il suo disappunto per tutto quello che stava accadendo.
Il detective sembrò sul punto di dire qualcosa, poi, in silenzio, uscì e chiuse la porta alle sue spalle.
Appena rimasto solo, John si portò le mani al viso. Non riusciva a pensare lucidamente: ogni frammento di concetto che gli attraversava la mente sembrava scheggiarsi, dividersi, venir filtrato. Cosa era davvero suo? Quali propositi venivano dalla sua natura risvegliata, quali da una sua reale intenzione? Il senso di colpa che sentiva premere contro il petto per aver trattato in modo ingiustamente rigido Sherlock era reale? O era la sottomissione di un Omega risvegliato verso un Alpha? Chi era? Cos’era?
Gli venne da vomitare, e si inginocchiò davanti alla tazza, ancorandosi con forza e disperazione al bordo.
Ancora una volta sentì le lacrime bruciare e premere per uscire, ma le ricacciò indietro, insieme alla paura crescente che sentiva bloccargli i movimenti, serrargli i muscoli in una morsa. Era un soldato. Un medico. Se lo ripeté più volte, mettendosi nuovamente in piedi, scosso dai tremori. Come soldato avrebbe combattuto. Come medico, avrebbe trovato un modo per riportare tutto come prima.
Raggiunse con passi malfermi la vasca, e si lasciò cadere al suo interno, completamente vestito.
Il calore dell’acqua lo avvolse, facendolo sentire subito meglio. L’odore di Sherlock, rimasto su i suoi vestiti, si sciolse, lambendogli il viso un’ultima volta prima di svanire nel vapore.
Solo in quel momento, libero da ogni cosa che non fosse se stesso, John sentì che c’era ancora speranza. Poteva ancora essere la persona che era stata fino a quella mattina.
L’ultimo sentore di Sherlock si dissolse, portato chissà dove dalla nuvola calda che si era sparsa per la stanza.
E John si sentì solo, maledicendosi un attimo dopo per averlo anche solo pensato.
Un paio di respiri profondi, e tornò a concentrarsi su di sé. Aveva bisogno di pensare. Di ricordare. Di stringere l’immagine che aveva di sé così forte da farne un bastone che potesse sorreggere il peso di quanto stesse accadendo.
 
Sherlock lasciò cadere il cappotto sul divano e si sdraiò, allontanandolo il più possibile con i piedi dal sé.
L’odore di John era talmente forte da aver reso-  nella parte interna del soprabito - il suo quasi impercettibile. Dopo anni di soppressori, non c’era da stupirsi che la scia si fosse manifestata con tanta forza. Le cose – pensò il detective chiudendo gli occhi – si sarebbero assestate nel giro di qualche ora, al massimo un paio di giorni. Poi John avrebbe preso possesso della sua nuova condizione, e sarebbe stato capace di controllarla, almeno in parte. Sia come intensità di scia, che come capacità di relazionarsi con lui e - se non fossero riusciti a capire cosa gli fosse stato inoculato e quindi di trovare un modo per neutralizzarlo - suo malgrado, con il resto del mondo.
Il telefono vibrò nella tasca del cappotto, e Sherlock si diede una spinta per mettersi seduto e riuscire a raggiungerlo.
Osservò per qualche secondo il nome di Lestrade lampeggiare sullo schermo, indeciso se rispondere o meno.
Alla fine ritenne che il male minore fosse parlargli, scongiurando così l’eventualità che si presentasse a Baker Street con una pattuglia.
“Lestrade.” Rispose, atono, lasciandosi ricadere all’indietro.
“Si può sapere cosa cazzo sta succedendo?!” Il tono di voce dell’ispettore era alto, teso, e Sherlock lo immaginò in piedi, una mano a sorreggere il telefono e l’altra che passava nervosamente tra i capelli.
“Non capisco.” Rispose il detective, voltando la testa verso la porta del corridoio, per assicurarsi che John non stesse arrivando.
“COME SAREBBE A DIRE “NON CAPISCO”?!” Greg stava urlando, adesso, e la sua immagine mentale di Sherlock assunse una colorazione scarlatta sul viso. “Prima mi fai mandare una volante, poi mi chiami per far rientrare i miei uomini, nel frattempo mi chiama Mike Stamford per dirmi che John è sparito ma il suo cellulare e la sua giacca sono ancora in ufficio. CHE STA SUCCEDENDO?! Dov’è John?!”
“John è qui, Lestrade. Calmati.” Rispose il detective, sentendo un sospiro di sollievo provenire dall’altro capo del telefono.
“Cosa mi state nascondendo?” Chiese Lestrade, rassegnato. “Cosa, Sherlock.”
“Niente, davvero. John mi aveva scritto dicendo che gli era sembrato che un uomo lo stesse seguendo. Io ti ho chiesto di mandare una volante a controllarlo. Ma era un falso allarme, John ha la febbre alta e non ragiona in modo lucido. Per questo siamo tornati a casa in fretta.”
Spiegò, continuando a tenere sotto controllo i rumori provenienti dal bagno.
“Così in fretta da non prendere la giacca?” Domandò Greg, poco convinto.
“Gli ho dato la mia.” Tagliò corto Sherlock. “Ad ogni modo prevedo di tornare al Bart’s nel pomeriggio. Prenderò il cellulare e la giacca, e ti farò chiamare da lui in serata. Va meglio così?”
“Perché non posso parlargli adesso?” Chiese Lestrade, ma la voce tradiva già il suo essersi arreso.
“Perché sta riposando. Come ho detto, ha la febbre molto alta. Ha anche vomitato, nella sala dell’emiciclo.” Rispose.
Sentì la porta del bagno aprirsi, e si portò in posizione corretta sul divano.
“Adesso devo andare.” Concluse, chiudendo la telefonata ancor prima di sentire se Greg dall’altra parte stesse per aggiungere qualcosa.
John, avvolto accappatoio ben chiuso sopra i vestiti bagnati, si affacciò nel salotto.
“Come va?” Domandò Sherlock, fingendo disinteresse.
“Meglio.” Rispose il medico, facendo un passo nella stanza. “Grazie.” Aggiunse subito dopo, con un certo sforzo.
“Non devi ringraziarmi.” Disse il detective, alzandosi.
“No, devo. Voglio dire… lo avrei fatto anche in una situazione diversa, quindi non è perché… Quindi voglio farlo e basta.” Rispose John, avviandosi verso la porta d’ingresso. “Vado di sopra.”
“Un attimo solo, fammi prima fare una cosa.” Sherlock mosse qualche passo verso di lui, e John si ritrovò premuto contro la parete a fianco dalla porta ancor prima di aver capito di essere indietreggiato.
Sherlock lo guardò per qualche secondo, continuando poi nel suo percorso verso la cucina.
Il medico scosse la testa, maledicendosi per quel gesto così palese di paura.
“Che fai?” Domandò quindi, cercando di smorzare il silenzio dell’appartamento che adesso sentiva opprimente.
Sherlock riemerse dalla cucina con una siringa tra i denti e una piccola cassetta rossa tra le mani.
“Che diavolo…” Iniziò John, guardandolo con occhi sgranati poggiare la scatola sul tavolino da caffè davanti al divano ed aprirla, posando la siringa poco distante.
“Se vogliamo capire cosa ti hanno somministrato, ho bisogno di un campione del tuo sangue.” Spiegò in modo sbrigativo il detective, facendo cenno a John di sedersi.
“Sangue e saliva, per la precisione.”
Il medico rimase immobile qualche secondo, osservando Sherlock estrarre dalla cassetta tutto l’occorrente per un prelievo.
“Che accidenti te ne fai di tutta questa roba?” Chiese, andandosi a sedere sul divano, di fronte al coinquilino ancora in ginocchio intendo a preparare tutto quanto necessario.
“Esperimenti.” Fu la lapidaria risposta che ottenne. “Ok, pronto?” Domandò Sherlock, avvicinandosi a lui.
John annuì appena, cercando di controllare il ritmo del suo respiro mentre il detective si accovacciava accanto a lui e lo aiutava ad alzare la manica dell’accappatoio per poi stringergli attorno al braccio il laccio emostatico.
“Non serve che ti controlli, John, anche se mi arrivasse qualcosa di simile ad un invito olfattivo da parte tua, so perfettamente che sono gli ormoni a parlare, non tu.” Disse Sherlock, inserendo con attenzione l’ago in vena e allentando il laccio.
“Ciò non toglie che la cosa mi crei un certo disagio.” Rispose John, osservando la siringa riempirsi poco alla volta di sangue. “Questo non sono io.” Aggiunse, con un sussurro.
“Come abbiamo già avuto modo di dire, non siamo solo il nostro odore. Non sarai mai solo quello.” Il detective appoggiò dell’ovatta nel punto dove l’ago era penetrato e lo estrasse.
John rimase in silenzio ad osservarlo spingere il sangue il una fiala e sigillarla, per poi riporre ogni cosa nella cassetta.
“Ancora un attimo di pazienza, e sarai libero di andare.”
“Nel senso che mi accorderai il tuo benestare a salire nella mia stanza?” Rispose John, in tono seccato.
“Non essere ridicolo, lo sai benissimo che non era questo quello che intend-“ Disse Sherlock, alzando gli occhi su di lui, e trovandolo inaspettatamente con un sorriso divertito sul volto.
“Per un attimo ho creduto fossi serio!” Esalò il detective, alzando leggermente un angolo della labbra in un’imitazione tirata di una risata.
“Hai ragione tu, non siamo solo la nostra scia. Devo solo imparare a ricordarlo.” Gli disse John, aprendo poi la bocca per facilitare il lavoro di Sherlock che si stava avvicinando con un tampone.
Sentì l’ovatta premere sotto la lingua e nell’interno dalla guancia, poi Sherlock la estrasse con attenzione e la inserì in un’altra provetta, tagliando l’eccesso di impugnatura e richiudendola.
“Perfetto. Vado a Bart’s ed incomincio ad analizzare i campioni.” Disse quindi, andando a chiudere la cassetta.
“Mangia prima qualcosa. La signora Hudson avrà quasi finito di preparare. Se tutto ciò che hai in corpo è il caffè di questa mattina…” Iniziò John, e Sherlock lo guardò con aria soddisfatta.
“E qui abbiamo un’altra prova che gli ormoni ci condizionano solo in parte.” Gli rispose, iniziando ad infilare il cappotto.
“Non capisco perché abbiano dovuto farmi una cosa simile.” Disse John, voce bassa, voltandosi a guardare il detective finire di chiudersi il cappotto e tirar su il bavero.
“Non lo so, ma lo scoprirò. E faremo tornare tutto come prima.” Sherlock sentì l’odore di John risalire dalla fodera, e sporgersi oltre il collo del soprabito, arrivando fino a lui. Trattenne a stento l’istinto di respirare a pieni polmoni, chinandosi invece a recuperare la cassetta.
“Ti farò sapere se ci sono novità.” Disse, avviandosi alla porta. “Ah, no, non hai il telefono con te.” Aggiunse, fermandosi.
John aggrottò la fronte, e solo dopo qualche secondo riuscì a ricordare dove lo avesse lasciato.
“Prendi questo. Userò il tuo, in caso.” Sherlock tolse con pochi gesti il blocco al telefono e cambiò le impostazioni in modo che non richiedesse più alcun tipo di autorizzazione per l’accesso.
John allungò un mano e prese il cellulare di Sherlock.
“Ok, grazie. La mia password è “Aldous”.” Disse. “Era uno scienziato. Ha scritto un trattato sulle cause della Determinazione che ho sempre adorato.” Aggiunse, anticipando la domanda che il detective stava per fare.
“Aldous.” Ripeté Sherlock, memorizzando l’informazione. “Ok. Ci sentiamo più tardi.” Terminò, uscendo ed iniziando a scendere le scale.
John sentì la voce della signora Hudson dire qualcosa, quella di Sherlock rispondere ed infine la porta d’ingresso aprirsi per poi richiudersi.
Sentendo i passi della donna sulle scale, John si alzò in fretta dal divano e si diresse velocemente in bagno.
Pochi secondi dopo, la signora si annunciò bussando in modo leggero alla porta aperta dell’appartamento.
“Sto per entrare nella vasca, signora Hudson!” Urlò John, per essere certo che lo sentisse. “Lasci pure tutto sul tavolino!”
“Va bene caro!” Gli fece subito eco la donna. “Vuole che chiuda le finestre? Prenderà freddo!”
“No, grazie, lasci pure tutto così!” Rispose il medico, avvicinandosi alla porta.
“Forse ha ragione lei…” sentì dire alla donna. “C’è un odore strano qui dentro, meglio lasciarle aperte. Per qualsiasi cosa mi trova di sotto!” Concluse, avviandosi verso le scale.
John attese qualche attimo - il tempo di essere certo che la donna fosse arrivata al piano di sotto - ed uscì, diretto verso il tavolo.
Sorrise osservando quante cose la signora Hudson fosse riuscita a preparare in così poco tempo. Prese i piatti per Sherlock e li mise nel frigorifero.
Poi prese il vassoio con i suoi, e salì al piano di sopra.
 
***
 
John, steso sul letto, ascoltò il suo stesso respiro riempirsi della sua scia e svuotarsene poco dopo.
Solo in quel momento, dopo aver, per l’ennesima volta, spinto fuori il fiato, si rese conto che probabilmente adesso la stanza era satura del suo odore. Doveva essere sul letto, attorno a lui. Ma anche sul legno dell’armadio, sulle tende chiare, sull’imbottitura della piccola sedia coperta dei suoi vestiti ancora umidi.
Poteva dire, dopo una vita intera, che qualcosa fosse suo, che portasse impresso sopra la sua traccia.
Era un pensiero rincuorante e spaventoso insieme. Tutto quello era suo, adesso, e allo stesso modo niente lo sarebbe stato più del tutto: le sue emozioni, ad esempio. La scia le avrebbe mostrate prima di lui, prima delle sue parole, del suo viso, della sua stessa comprensione, alle volte.
Il Calore, poi? Non riusciva neanche a pensarci. Non ne aveva mai avuto uno, ma sapeva bene che riduceva i soggetti Omega ad una completa dipendenza - e, quasi sempre, sudditanza – nei confronti dell’Alpha ai quali erano Legati. Questo nel migliore dei casi. Lo scenario peggiore prevedeva una tale violenza fisica e psicologica che gli fece contorcere lo stomaco. Se Sherlock non avesse trovato una cura, in fretta, all’arrivo delle prime avvisaglie del Calore si sarebbe trovato solo, senza un posto dove stare e alle prese con uno stravolgimento del proprio corpo mai vissuto prima.
John si lasciò andare di lato, chiudendosi in posizione fetale. Nutriva grande fiducia nelle capacità del detective, ma allo stesso tempo non riusciva a non pensare al fatto che se lo avevano lasciato vivo doveva esserci un motivo, che al momento sembrava sfuggire persino a lui.
“JOHN!” La voce della signora Hudson riecheggiò per le scale, arrivandogli attenuata e lontana.
Il medico si alzò con una certa fatica, ed aprì la porta della sua stanza, mantenendosi all’interno.
“SÌ!” Urlò a sua volta, sentendo le parole aprirsi contro le pareti e rotolare nella tromba delle scale.
“C’È UN UOMO CHE CERCA SHERLOCK!” Rispose la donna.
“Sherlock non c’è.” Disse John, scendendo fino al pianerottolo del piano di sotto, per non dover continuare a gridare.
“Lo so, ma insiste per salire ugualmente!” Rispose lei, con voce spazientita.
“Come si chiama?” Domandò John, rivolto alla donna.
“Trevor.” Gli rispose invece una voce maschile, tranquilla. “Sono un vecchio compagno di liceo di Sherlock.” Aggiunse, con tono allegro.
“Ok, mi dia un attimo.” Disse John, entrando in salotto per recuperare il telefono di Sherlock, che aveva lasciato sul divano. Compose il numero del proprio cellulare, e si portò il telefono all’orecchio. Dopo qualche secondo, una voce metallica rispose che l’utente cercato non era momentaneamente disponibile e John riattaccò lasciandosi sfuggire un sospiro irato.
Tornò quindi verso le scale, valutando le varie possibilità: se il signor Trevor era stato un compagno di liceo di Sherlock, poteva essere un Beta, come un Alpha. Le probabilità che fosse un Omega - e quindi fosse per lui completamente sicuro lasciarlo salire - erano basse, se non assenti, considerando anche il fatto che il presentarsi da solo presso un vecchio amico, per un Omega ormai ben oltre l’inizio dell’età fertile, avrebbe sottointeso una capacità ed una forza di volontà che Sherlock aveva riconosciuto solo a lui, come primo ed unico.
Beta, quindi, nella migliore delle ipotesi. Alpha, nella peggiore. Ad ogni modo il Calore era ancora lontano, e forse, se fosse riuscito a tenerlo alla giusta distanza e a rimanere molto vicino ad una finestra, non si sarebbe accorto della sua scia.
“Non può ripassare più tardi?” Provò comunque.
“Ho un impegno molto importante nel pomeriggio, e sono in partenza!” Rispose l’uomo.
“Lascio una cosa per Sherlock e me ne vado, promesso!” Aggiunse, in tono quasi supplichevole.
John trovò strano il cambio di registro repentino della sua voce, ma pensò che se avesse iniziato ad aver paura di incontrare un estraneo già da quel momento, la sua vita – in caso Sherlock non fosse riuscito a trovare un modo per azzerare gli effetti dell’iniezione che aveva subito – si sarebbe ridotta ad una misera fuga da ogni cosa, nella disperata ricerca di un posto sicuro dove rintanarsi e vivere il resto dei propri giorni (sempre che fosse riuscito, da solo, a nutrirsi durante i Calori quel tanto da poter sopravvivere).
Sulla scia di quel pensiero angosciante, si affacciò alla ringhiera, dando quindi un volto alla voce dell’uomo in piedi di fianco alla signora Hudson: doveva avere qualche anno meno di lui, cosa che avvalorava l’informazione che fosse un vecchio compagno di Sherlock. Gli occhi, scuri ma di un colore imprecisato per via della distanza e della poca luce, apparivano allegri, come il sorriso che si stava schiudendo sulle sue labbra. I capelli, evidentemente corti, erano nascosti quasi del tutto dalla falda di un largo cappello.
“Salga.” Acconsentì il medico, con un sospiro. “Signora Hudson, sia gentile, faccia un the. E provi a contattare Sherlock.” Aggiunse poi, rivolto alla donna, sottolineando la richiesta in modo che risultasse chiaro all’uomo che aveva iniziato a salire che la signora li avrebbe raggiunti nel giro di poco tempo e che Sherlock sarebbe stato informato della sua presenza nell’appartamento. Chiaramente ogni tentativo della donna di rintracciare il detective sarebbe stato vano, ma non era la cosa importante, al momento. John spense il cellulare ed entrò nel salotto, avvicinandosi alla finestra più lontana dall’ingresso, vicina al caminetto.
Qualche secondo dopo, l’uomo entrò nella stanza, fermandosi pochi passi oltre la porta.
Osservò l’ambiente con sguardo allegro, fermando infine gli occhi su John.
“Victor Trevor.” Disse, sorridendo. La sua scia, entrata con lui, confermò le teorie del medico: Alpha. John si avvicinò di più alla finestra, appoggiando una mano sul davanzale con finta noncuranza.
“Dottor John Watson.” Rispose, cercando di mantenere voce ed odore rilassati e calmi.
“Dottore.” Ripeté l’altro, senza muoversi. “Non sapevo che esistessero Omega arrivati tanto in alto nella scala educativa.” Aggiunse poi, continuando a sorridere.
“Non…” Iniziò John, istintivamente, bloccandosi poco dopo. Era evidente che la sua scia fosse comunque percepibile, se l’uomo aveva detto una cosa simile. Tentare di negarlo sarebbe stato inutile.
“Forse è per questo che Sherlock l’ha scelta.” Riprese Trevor, prima che il medico potesse aggiungere qualcosa. “Perché l’ultima volta che abbiamo parlato di Legami ed Omega, se non ricordo male, mi disse che erano inutili. Entrambi.” Sottolineò, alzando le spalle.
“Non abbiamo alcun Legame.” Disse John, sputando fuori le parole con rabbia.
“Vedo.” Rispose quello, allegro. “Infatti non ha la scia di un Omega legato.” Concluse, apparendo per un attimo confuso. “Ad ogni modo… ero passato solo per salutare. E per lasciare questo.” Estrasse dalla tasca interna del cappotto scuro un piccolo pacchetto avvolto da una carta rossa. “Niente di che, qualcosa che ha dimenticato a casa mia durante il nostro ultimo incontro.” Spiegò, appoggiandolo sul tavolo di fronte al divano.
“Glielo può dare lei?” Chiese quindi, voltandosi nuovamente verso John.
“Certo.” Quasi ringhiò lui, e la cosa strappò un altro sorriso all’uomo.
“Bene. Grazie dottore.” Disse poi, chinandosi lievemente in avanti, nell’imitazione di un inchino.
Alzò un braccio e scostò la manica del cappotto, controllando l’ora.
“Si è fatto davvero molto tardi. Ho una persona che mi aspetta, e non posso fare tardi.” Lanciò un ultimo sguardo per la stanza. “Si scusi per me con la signora, ma non posso fermarmi per il the.” Terminò, portandosi una mano al cappello e sollevandolo appena. [1]
John sentì la rabbia risalirgli come lava bollente attraverso le vene, e serrò i pugni. Un attimo dopo sperò che l’uomo non l’avesse notato, odiandosi poi per aver pensato una cosa tanto pavida.
“Arrivederci!” Lo salutò allegro lui, girandosi velocemente su se stesso e dirigendosi verso le scale.
John rimase immobile, ascoltando i suoi passi farsi sempre più lontani. La porta d’ingresso si aprì e si richiuse, e solo in quel momento il medico si accorse di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo dell’allontanamento dell’uomo. Si sporse appena dalla finestra, e lo vide percorrere con passo lento Baker Street, sparendo poco dopo in Melcombe Street.
Si avvicinò quindi, lentamente, al pacchetto che aveva lasciato. Lo sollevò, sentendolo flettere da una parte, rimanendo rigida dall’altra. Se lo rigirò tra le mani, muovendo qualche passo per la stanza, ascoltando l’eco delle parole dell’uomo premere contro la sua testa. Calde, pulsanti.
 
L’ultima volta che abbiamo parlato di Legami ed Omega, mi disse che erano inutili. Entrambi.
 
Il medico scagliò con violenza il pacchetto verso la parete. Questo sbatté con un rumore sordo contro la carta da parati, e cadde dietro al divano.
Era praticamente prigioniero in casa con un Alpha che riteneva quelli come lui inutili, pensò.
Non pericolosi, come aveva sempre detto. Inutili. Superflui.
Doveva andarsene.
Non poteva uscire, nelle sue condizioni, ma allo stesso tempo non poteva, non voleva rimanere in quell’appartamento un solo attimo in più.
Era in trappola.
La parola esplose nella sua mente, cancellando ogni traccia di razionalità.
Qualcosa, nella sua testa, cercava di dirgli di fermarsi a riflettere, di analizzare meglio cosa sapesse o meno di Sherlock, cosa gli avesse visto fare, o dire, da quando lo conosceva.
Ma tutte quelle parole scomparvero al cospetto di una sola, che apparve improvvisa, coprendo tutte le altre, e a John sembrò l’unica soluzione possibile per poter uscire, in tutti i sensi, da quella condizione.
Snubber. Tanto da ottenere un risultato.
Non importava quanto pericoloso potesse essere: era, in quel momento, l’unica cosa che gli sembrava capace di permettergli di andarsene.
In un modo, o nell’altro.
 
Note:
[1] Lo saprete benissimo, ma comunque sottolineo che è un gesto che un uomo solitamente rivolge ad una donna, in segno di saluto.
 
Angolo dell’autrice:
Ho poche cose da dire riguardo al capitolo, se non che:
  • mi è dispiaciuto dover descrivere Victor così (perché di solito mi sta simpatico!)
  • tutto, tutto, TUTTO in questo capitolo ha un perché ben preciso.
Non aggiungo altro!
 
Grazie, grazie, grazie a chi legge, a chi ha aggiunto la storia in una qualche categoria (continuate a farlo e la cosa mi riempie di gioia!), e soprattutto (come sempre) a chi trova un po’ di tempo per lasciare una parola sul capitolo e permettermi/ci un confronto.
Da adesso la storia avanzerà a ritmi sostenuti, e i capitoli saranno sempre piuttosto lunghi.
Spero di riuscire a mantenere un ritmo di aggiornamento (e una sintassi XD) decente!
 
Un saluto a tutte/i,
a presto!
 
B.
 
   
 
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