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Autore: Adeia Di Elferas    04/03/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Sforzino era roseo e mangiava con gusto. Tutta la voglia di vivere che aveva dimostrato quando era ancora nel pancione della madre, ora era visibile a tutti.
 Caterina adorava quel piccolo. Aveva un visino simpatico e pareva essere in grande sintonia con lei. Era come se si capissero senza bisogno di dire o fare nulla.
 Cesare, Bianca e Livio erano molto incuriositi dal loro nuovo fratellino, Galeazzo Maria era ancora troppo piccolo per aver davvero coscienza del fatto che quel piccoletto era il suo nuovo fratellino, mentre Ottaviano lo guardava con un certo grado di gelosia.
 Al primogenito dei Conti Riario non andava giù quella nuova nascita. Vedeva meglio degli altri come sua madre si concentrasse quasi esclusivamente su Sforzino, quasi ignorando tutti gli altri.
 Ottaviano desiderava più dei suoi fratelli le attenzioni della madre e più di tutti loro ne soffriva la mancanza. Tuttavia non riusciva in alcun modo a dimostrarlo in modo chiaro. Riusciva solo a diventare scontroso e a comportarsi in modo scostante e antipatico.
 Certo era che, se anche sua madre avesse voluto avvicinarlo, lui non stava facendo assolutamente nulla per invogliarla a passare del tempo insieme.
 Sforzino, adorato anche dalle balie e da Girolamo, aveva già compiuto un mese e Ottaviano sentiva crescere in sé ogni giorno di più la gelosia e il rancore, come fosse una pianta venefica che avvelenava ogni sua giornata e ogni sua notte.

 Erano in tutto quattordici. Avevano deciso con cura chi avrebbe preso parte alla prima azione di sfondamento.
 Domenico Roffi, malgrado le apparenze, aveva una testa fina, parlando di strategia, e aveva intuito che non sarebbe stato necessario un grande spiegamento di forze, per prendere Porta Cotogni. Sarebbe bastata l'astuzia. E solo dopo, una volta avuta nelle loro mani quella porta, solo allora sarebbe stato il caso di aizzare la manovalanza e di conseguenza il popolo tutto.
 Appena fuori da Forlì avevano tenuto un veloce consiglio di guerra, durante il quale era stato deciso che l'avanscoperta sarebbe stata di quattordici uomini, di cui solo nove sarebbero andati a Porta Cotogni, mentre cinque sarebbero rimasti di scorta nelle retrovie.
 Tra i nove prescelti c'era anche Sante, il figlio di Domenico, che aveva tanto detto e tanto fatto che alla fine gli era stato permesso di partecipare, pur di farlo stare zitto.

 Il Caporale di Porta Cotogni non si sentiva molto bene ormai da giorni. Cercava di passare più tempo possibile steso nel letto, ma la convalescenza era lunga e difficile.
 Non sapeva di preciso cosa lo avesse infettato, ma comunque la situazione era tranquilla e quindi poteva ben permettersi qualche pisolino in più.
 Quel 23 settembre il sole era già alto e faceva un certo caldo.
 Il Caporale era ancora nel letto, ma sapeva che doveva darsi da fare. Se non altro, dare a vedere alla guarnigione che era ancora vivo...!
 Sapeva che il suo Tenente quel giorno era uscito presto per un po' di caccia con il falcone, quindi lui era rimasto da solo a tenere a bada i soldati.
 Lasciò le coperte, bagnate del sudore della notte, e andò alla scala.
 La stava ancora scendendo quando sentì una voce ruvida e ostile gridargli: “Caporale!” e, ancora prima di capire chi mai avesse parlato, sentì delle mani grosse e forti trascinarlo giù dalla scala di peso e immobilizzarlo a terra.
 “Tu adesso sei prigioniero di Antonio Ordelaffi!” disse uno degli uomini che lo avevano acciuffato.
 Il Caporale, che si sentiva ancora debole per via della febbre, non fece una piega e disse, la voce appena udibile per colpa del braccio che gli tenevano premuto contro la gola: “Io sono prigioniero del Conte Girolamo Riario... È lui il mio padrone.”
 “Peggio per te!” esclamò uno dei nove uomini che lo tenevano in ostaggio.
 Quando il Caporale vide brillare la lama di un pugnale, pensò di essere in punto di morte.
 “Fermo, padre! Non fatelo!” disse Sante, bloccando la mano di Domenico, che stava per calare il colpo mortale sul Caporale: “Conosco quet'uomo! Può fare battute del genere, ma non si opporrà. Risparmiategli la vita.”
 Domenico fissò il figlio per un istante, poi rimise il pugnale nella fodera: “Come dici. Ma al primo passo falso, gli stacco la testa dal collo.” e così dicendo fece segno a quattro dei suoi di salire nelle rocchetta per impossessarsene ufficialmente.
 “Forza, vai di sopra anche tu e spiega come vanno organizzate le cose per far sì che la Porta resti in mano nostra!” ordinò Domenico, dando un calcio al Caporale.
 Mentre il prigioniero si alzava, Domenico disse: “Io resto con uno di voi giù, teniamo la Porta giù e serriamo il rastrello. Voi andate di sopra e preparatevi a mandare qualcuno a chiamare gli altri.”
 Sante e gli altri, allora, spinsero su per la scala il Caporale, che tentò debolmente di ribellarsi e impedire ai rivoltosi di arrivare alla rocchetta. Venne legato mani e piedi e così non poté fare altro che assecondare i traditori.
 
 Il balestriere che viveva vicino a Porta Cotogni si svegliò con un sonoro sbadiglio.
 Gli era parso di sentire qualcuno gridare, ma forse stava ancora sognando. Andò alla finestra e guardò fuori, verso la Porta, che distava pochissimi metri dalla sua casa.
 Capì subito che c'era qualcosa di molto strano.
 Vicino al rastrello, che era abbassato, c'erano due uomini che non conosceva e che non indossavano abiti da soldato. Sembravano più verosimilmente due contadini e si guardavano in giro con circospezione.
 Il balestriere guardò meglio quel che riusciva a intravedere da casa sua e notò come mancassero improvvisamente i soliti soldati di ronda e come di quando in quando si sentissero delle voci alte e concitate dare ordini o infilare bestemmie.
 Conosceva bene gli uomini che occupavano la Porta Cotogni, perchè vivendo così vicino a loro spesso si trovava a far due chiacchiere o a giocare con loro ai dadi.
 Sentì il cuore battere veloce, mentre il suo cervello lo portava alla conclusione più logica: quei contadini altri non erano che traditori e avevano preso la Porta per i loro loschi scopi.
 Senza porre altro indugio, prese la balestra che teneva accanto al letto e la caricò.
 Tornando alla finestra vide un uomo lasciare di corsa la Porta. Forse era uno dei ribelli e stava andando a chiamare altri ribelli...!
 Allora il balestriere si appoggiò al davanzale e con un respiro molto profondo, prese la mira e scoccò la prima freccia.
 
 “Porco mondo!” esclamò Domenico, quando l'uomo che gli stava accanto si accasciò in terra con un grido di dolore.
 Roffi non fece in tempo a vedere la freccia conficcata nella schiena del suo complice, che subito se ne trovò una in pancia.
 Non perse i sensi, malgrado il dolore fortissimo, e capì che nemmeno il suo uomo era morto.
 Cercò con lo sguardo il colpevole, ma non vide altro, se non il bagliore di una finestra che veniva chiusa in fretta e furia.
 Si mise allora a dare voce a quelli che erano nella rocchetta, affinché soccorressero lui e l'altro ferito e cominciò a pregare che i rinforzi arrivassero in fretta, prima di subire altri attacchi.

 Giuliano Feo, Governatore ad interim della città, stava controllando delle carte lasciategli da Ricci, che si era recato a Imola da qualche giorno, per discutere di affari importanti coi Conti, lasciando temporaneamente a lui la carica.
 I conti della città erano molto confusi e Giuliano poteva ben capire da dove arrivassero tutti i mal di stomaco di Ricci. Avere a che fare ogni giorno con quelle cifre sconclusionate e ingannevoli avrebbe fatto venire un'ulcera a chiunque.
 “C'è un uomo che chiede di voi...!” annunciò un servo, mentre il suddetto uomo entrava a gran velocità nella saletta.
 “Che succede?” chiese Giuliano, avvicinandosi al nuovo arrivato.
 Il balestriere, che aveva corso come un pazzo, ci mise qualche secondo, prima di riuscire a parlare.
 Quando finalmente trovò l'aria necessaria per dar fiato ai suoi pensieri, disse: “Qualcuno si è impadronito della Porta Cotogni, Governatore...! Sono... Sembrano dei contadini... Ne ho colpiti due, ma ho ragione di credere che siano molti di più...!”
 “State scherzando?” chiese Giuliano Feo, sondando i toni del balestriere. Poteva essere un folle, o un esaltato, oppure poteva essere uno che diceva la verità...
 “Lo giuro sulla mia vita, davvero!” disse subito il balestriere e lo disse con tanto trasporto che Giuliano non poté che credergli.
 Uscì subito dalla saletta, seguito a ruota dal balestriere e radunò tutti i soldati che incontrò, tutte le guardie e più avanzava, più i faceva seguire da bottegai e cittadini di ogni sorta.
 “Tutti a Porta Cotogni!” gridava: “Forlì ha bisgno di noi! Vogliono catturare la città! Tutti a difendere Porta Cotogni!”
 
 “Sappiamo quello che state cercando di fare!” stava gridando il Governatore ad interim da sotto la rocchetta: “Arrendetevi, finché siete in tempo!”
 “Assurdità!” disse Domenico Roffi, con un grugnito, mentre suo figlio Sante cercava di taponargli la ferita nell'addome: “Sparategli un colpo di spingarda! Date fondo alle munizioni delle balestre...!”
 I suoi uomini agirono immediatamente, puntando prima ai soldati e poi alla gente comune.
 Giuliano Feo scansò all'ultimo secondo una freccia, che lo sfiorò all'altezza della guancia.
 Tutti i forlivesi che aveva radunato parevano intenzionati a dargli man forte, così lui andava avanti ad affrontare i ribelli con coraggio e fermezza.
 Tutte le volte che quelli facevano cadere dall'alto le loro offensive, lui faceva un passo indietro, per non farsi colpire e così facevano i soldati e i cittadini, e subito dopo riprendeva a gridare minacce e ultimatum, sperando di sfinire a parole quei contadini dalle idee bellicose.
 Le parole non bastavano, però.
 Quando un colpo di spingarda mancò il Governatore per meno di un centimetro – tanto che ne avvertì il caldo bacio – Giuliano Feo perse la pazienza e ordinò: “Assaltiamo la Porta!”
 E come un sol uomo, tutti, soldati e non, si misero a forzare il rastrello per poter entrare nella rocchetta e sterminare quei delinquenti che avevano osato opporsi agli ordini del Governatore.
 Come un fiume in piena, i forlivesi entrarono nella rocchetta, guidati da Giuliano e trovarono subito alcuni dei rivoltosi.
 Li percossero a calci e pugni, senza nemmeno provare a usare le armi. Tanta era la rabbia, nel cuore dei forlivesi, che quel diversivo era stato sfruttato da tutti per sfogare ogni tensione.
 Domenico Roffi morì completamente trasfigurato e la stessa fine fece il suo compare che era stato ferito dal balestriere poche ore prima.
 Nino, che aveva apparentemente preso il comando al posto di Domenico, si trovò faccia a faccia con Giuliano Feo e gli disse: “Vi cedo la rocchetta! Ma per Dio, risparmiateci la vita!”
 Al che Sante, che era molto malmesso, ma ancora battagliero, sputò verso suo zio e disse: “Al diavolo la vita! Non cederemo!”
 Mentre Nino guardava il nipote senza riuscire a parlare, da fuori arrivarono le voci di Checco e Ludovico Orsi, che annunciavano l'arrivo dei rinforzi delle truppe di Forlì: “Il Capitano della Guardia ha radunato tutti i suoi! Siete circondati! Arrendetevi e non morirete!”
 A quelle parole, anche Sante si scorò e cadde in ginocchio, senza più forze.

   
 
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