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Autore: Adeia Di Elferas    06/03/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Giuliano Feo interrogò per ore tre dei rivoltosi sopravvissuti. Aveva scelto proprio quelli perchè gli parevano i più inclini a confessare.
 Tuttavia nessuno di loro faceva altri nomi se non Biago, Nino e Domenico Roffi. Sembrava che tutto quel trambusto fosse stato ordito da quei contadini, senza altro fine se non la folle idea di prendersi una città.
 Per quanto quella versione fosse campata per aria, il Governatore a interim non sapeva che altro fare per estorcere notizie a quei prigionieri, così ordinò che fossero messi a morte per impiccagione, dopo aver concesso loro il tempo di confessarsi a un prete.
 Gli altri ribelli furono messi in cella, nella speranza che il sapere appesi per il collo i loro compari li convincesse a dire le cose come stavano e a non raccontare più idiozie.
 Uno di loro, infatti, si convinse in fretta a parlare. Disse al Governatore che a Bagnolo le truppe di rinforzo dei Roffi aspettavano il momento giusto per entrare in azione, malgrado il fallimento della prima metà del piano.
 Erano quasi le sette di sera, quando finalmente Giuliano Feo si decise a mandare un corriere a Imola, per informare anche la Contessa Riario e il marito di quello che era accaduto quel giorno.

 “Chi è a quest'ora?” chiese Caterina, quando una delle serve andò a chiamarla nelle sue stanze.
 C'è già buio e tutti nel palazzo erano pronti ad andare a dormire. I bambini erano nelle loro stanze da tempo e così il Conte.
 Quando qualcuno aveva bussato con forza all'ingresso e aveva insistito affinché venisse chiamata subito la Contessa, Caterina aveva capito immediatamente che si doveva trattare di una cosa gravissima.
 “Mi manda il Governatore di Forlì – disse il ragazzo, stravolto, che doveva aver fatto la strada a una velocità folle – per riferirvi che dei contadini della campagna di Rubano hanno preso per qualche ora la Porta Cotogni e che volevano prendere la città tutta.”
 “Com'è adesso la situazione?” chiese Caterina, afferrando il giovane per le spalle, con urgenza.
 “Sono stati catturati, ma il Governatore è partito subito con molti uomini al seguito, dopo aver fatto impiccare tre ribelli, per andare a Bagnolo, dove il resto dei traditori stava aspettando di ricevere l'ordine di attaccare.” spiegò la staffetta: “Ma ancora non è convinto che sia finita la minaccia, né sa chi c'è davvero dietro.”
 Caterina stava pensando in fretta, mentre alle sue spalle aveva sentito la voce pastosa di Domenico Ricci, il vero Governatore di Forlì, arrivato a Imola pochi giorni addietro per discutere con lei di alcuni affari di Stato.
 “Cosa succede...?” chiese questi, assonnato.
 “Fate sellare subito il mio migliore cavallo.” ordinò Caterina, correndo nelle sue stanze per vestirsi in modo adeguato: “E, Ricci, sarebbe meglio che voi veniste con me!”
 Il Governatore strabuzzò gli occhi, ma non se lo fece ripetere.
 
 Sotto la luce della luna, Caterina cavalcò come una furia, passando per i boschi, da sola.
 Domenico Ricci, per quanto fosse un uomo d'esperienza e, alla fine, di spirito, non riuscì a starle dietro e così, dopo i primi chilometri, la perse di vista.
 Non riusciva a spiegarsi come quella giovane donna, che aveva anche partorito da poche settimane, fosse così ardita e resistente da decidersi a correre a Forlì in piena notte e senza alcuna scorta. Forse era solo una mossa politica, per dimostrare la sua forza e la sua determinazione, oppure si trattava solo di un gesto impulsivo legato alla sua natura.
 Caterina, in realtà, non aveva fatto nessun calcolo, quando aveva deciso di partire immediatamente.
 Voleva solo vedere di persona cos'era successo e capire meglio quale fosse la situazione. Soprattutto, voleva interrogare immediatamente i prigionieri e capire chi davvero c'era dietro a quel mancato colpo di mano. Per quello che poteva immaginare, dietro a quei contadini poteva esserci tanto Firenze, come gli Ordelaffi, come i Manfredi.
 
 Giuliano Feo, appena tornato da Bagnolo vittorioso, aveva appena lasciato sciogliere i ranghi alle truppe, quando venne raggiunto da una delle guardie che stava normalmente alle porte della città.
 Questi gli disse che la Contessa Riario stava entrando in Forlì, e che era sola.
 Giuliano si accigliò, ma non fece troppe domande. Rimontò subito a cavallo e andò incontro alla signora della città.
 Sotto lo sguardo della luna, la Contessa vide arrivare il Governatore ad interim, che si fece riconoscere subito: “Sono Giuliano Feo, fratello del castellano di Ravaldino!”
 Caterina lasciò il suo cavallo, tanto provato da sembrare sul punto di morire, e raggiunse il Governatore ad interim, pure lui smontato di sella.
 “Parlate chiaro e ditemi ogni cosa – cominciò Caterina – e non nascondete nulla.”
 “Siamo appena tornati da Bagnolo, mia signora.” spiegò Giuliano, mentre entrambi si avviavano verso il palazzo dei Riario, portando i cavalli per le briglie: “Abbiamo sbaragliato i ribelli rimasti, ma la cosa non mi convince. Erano armati male e non erano organizzati come si deve. Mi sembra strano che una rivolta del genere sia stata architettata tanto male e in modo tanto approssimativo...”
 “Sono d'accordo con voi.” annuì Caterina.
 “Che intendete fare, dunque?” chiese Feo.
 “Per stanotte mi limiterò a sentire i vostri dettagliati resoconti sui fatti di Porta Cotogni. Poi, quando arriverà, accoglierò Ricci, che mi sta seguendo, anche se è rimasto indietro.” elencò Caterina: “E domani, di buon'ora, interrogherò i prigionieri.”

 Domenico Ricci arrivò a Forlì che si era quasi fatta la mattina del lunedì. Era talmente provato da quella cavalcata solitaria, che preferì ritirarsi un momento nelle sue stanze, prima di fare qualunque altra cosa.
 Caterina Sforza, invece, malgrado la notte insonne, si presentò all'alba nelle carceri e volle incontrare uno per uno i prigionieri.
 Dai primi non ottenne nulla, se non accuse verso Domenico Roffi e suo fratello Nino. Dunque, decisa a far chiarezza sul fatto e a scongiurare ogni altra rappresaglia, si apprestò a interrogare Nino Roffi.
 Nella stanza erano presenti solo lei, l'accusato, un aguzzino del carcere e Giuliano Feo.
 “Tutti gli altri prigionieri incolpano voi Roffi di aver organizzato tutto, ma dubito che siate davvero voi le menti di questi piano. Chi c'è dietro questa congiura?” chiese Caterina, con calma.
 Nino, che era in uno stato pietoso, sanguinante e piegato in due dal dolore, fece una smorfia, per farle intedere che non avrebbe detto una sola parola.
 Allora Caterina, che con gli altri interrogati aveva preferito evitare le maniere forti, fece un cenno all'aguzzino, che cominciò con una semplice frustata sulla schiena di Roffi.
 Questi gridò, ma ancora non disse nulla. Alla terza frustata, sentendosi perso, sussurrò: “Ordelaffi ci ha messo in testa questa cosa...”
 Caterina fece segno all'aguzzino di fermarsi e questi ripose la frusta con una certa riluttanza.
 “Antonio Maria Ordelaffi? È di lui che parli?” indagò la Contessa.
 Nino Roffi sputò un grumo di sangue in terra: “Di lui. Di chi altro?!”
 “Come pensavate di prendere Forlì?” chiese Caterina, avvicinandosi a Roffi e prendendogli il mento con una mano, per costringerlo a guardarla.
 Nel guardarlo, notò che molti denti mancavano e dai grumi rossi che si affacciavano tra le labbra, era probabile che fossero stati tolti proprio in quelle ore da uno degli aguzzini.
 Roffi sputò di nuovo, questa volta alla Contessa.
 Giuliano Feo estrasse immediatamente la spada e l'aguzzino fece vibrare in aria la frusta, ma Caterina fermò entrambi con un gesto imperioso.
 “Come pensavate di prendere Forlì?” chiese di nuovo, senza mollare la presa sul mento dell'accusato.
 Questi, colpito dalla fermezza della Contessa, si trovò a confessare senza riuscire a trattenersi oltre: “Noi dovevamo prendere la Porta Cotogni e i nostri poi dovevano fare il resto e spianare la strada agli uomini di Ordelaffi. Una volta arrivato quello, il popolo si sarebbe sollevato contro voi Riario, perchè tutti qui vi odiano, anche quelli che davanti vi fanno la riverenza. Ma l'idea non è stata nostra.” aggiunse, tentando in extremis di salvarsi: “A coinvolgerci è stato Passi, un contadino che conoscono tutti, grande amico di Ordelaffi. Lui ci ha detto che era cosa sicura e che ci avrebbe pagati...”
 Caterina lo lasciò di scatto e disse a Giuliano Feo: “Trovatemi il prima possibile questo Passi e portatelo qui.” poi guardò Nino Roffi: “Per oggi con te ho finito.”
 
 Il giorno seguente Passi venne trascinato in città da alcuni soldati mandati da Feo e fu portato al cospetto della Contessa e di Nino Roffi.
 “Sì, è proprio lui, il figlio d'un cane! Lui mi ha convinto a partecipare e con me i miei fratelli! Maledetto d'un maledetto!” disse Nino, guardando appena il Passi.
 “Cosa ne sapete voi della congiura ordita da Antonio Maria Ordelaffi?” chiese Caterina, rivolgendosi a Passi, ancora tenuto stretto per le braccia da due guardie, visto che continuava a cercare la fuga.
 Questi raddrizzò le spalle e disse, con fierezza: “Io non c'entro nulla, mia signora. Fino a oggi nemmeno sapevo quello che stava accadendo qui a Forlì.” poi, guardando Roffi: “Tu menti, maledetto delinquente che non sei altro! Sono otto mesi che non parliamo nemmeno per sbaglio! Voglio un paragone alla corda con te, se la sai tanto lunga!”
 Nino Roffi cedette davanti all'evidenza. Non avrebbe potuto convincere nessuno davanti a un simile individuo e, forse arrendendosi troppo presto, si pentì della menzogna che aveva osato dire, tirando in gioco anche un innocente e si gettò in ginocchio davanti a Caterina: “Passi non c'entra...! Io ho fatto il suo nome, perchè lui è di Natali migliori dei miei e speravo che il suo nome vi portasse a perdonarlo e poi a perdonare anche me...! Lo sapete bene anche voi, mia signora, che chi sta per affogare si aggrappa a qualunque cosa...!”
 Caterina ascoltò ancora per molto tempo le parole accorate e le suppliche di Nino Roffi, ma le trovò solo patetiche e da codardo. E se c'era una cosa che proprio non sopportava, erano gli uomini codardi.
 La Contessa liberò seduta stante Passi, dichiarando pubblicamente, davanti alla folla che si era creata fuori dalla rocca, che c'era stato un malinteso e che quell'uomo non c'entrava assolutamente nulla con tutto quello che era successo.
 Quello stesso giorno, Caterina scrisse a Girolamo affinchè le mandasse gli ordini controfirmati per graziare o – meglio – giustiziare quei traditori.
 
 Passarono ben tre giorni, prima che arrivasse una risposta da Imola.
 Caterina lesse la lettera e si sorprese nel vedere la grafia incerta e tremolante di suo marito sul foglio. Era quasi sicura che avrebbe delegato ogni cosa a Matteo Menghi o a qualche altro suo amico.
 Evidentemente le cure e la nascita di Sforzino cominciavano a fare effetto. Almeno in parte.
 Nella lettera Girolamo lasciava alla moglie tutte le libertà, concedendole di fare quello che preferiva, ricordandole di quanto lui si fidasse del suo giudizio e conferendole pieni poteri decisionali in merito alle grazie o alle condanne. In breve, se ne lavava le mani.
 Caterina, dopo aver mal digerito l'ennesima prova dell'inettitudine del marito nel prendere decisioni, preferì scegliere il pugno di ferro. Per quanto l'idea in realtà non le piacesse, ordinò al Caporale di Porta Cotogni, lo stesso che si era lasciato catturare e manovrare dai Roffi, di giustiziare in pubblica piazza tutti i prigionieri, nessuno escluso.
 Andrea Bernardi, come tutti gli altri forlivesi, era presente il giorno dell'esecuzione.
 Stava in mezzo al pubblico, pronto a prendere appunti per le sue cronache della città, a futura memoria, ma nel descrivere quella scena, fece molta fatica a trovare le parole giuste. Non aveva mai visto così da vicino il pugno di ferro di quella donna che tanto amava.
 Mentre appuntava qua e là qualche frase, si ritrovò a sperare di dimenticare ogni cosa, ogni dettaglio di quell'orrore.
 Tuttavia, malgrado i suoi sforzi, non poté mai scordare le grida di quei contadini che avevano davvero creduto nelle parole di Antonio Maria Ordelaffi – che non aveva fatto nulla per andare loro in soccorso e che avrebbe per sempre negato il suo coinvolgimento in quella vicenda – né poté mai dimenticare l'espressione distante e glaciale che assunsero i meravigliosi occhi verdi della Contessa, mentre i condannati venivano decapitati e squartati a pochi metri da lei e davanti a tutta la città.

   
 
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