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Autore: Blablia87    10/03/2016    8 recensioni
[Omega!verse]
[Alpha!Sherlock][Omega!John]
Pezzi di una filastrocca come briciole di pane lasciate da un passato pronto a riscuotere la sua vendetta.
Genere: Angst, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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John Wargrave – Alpha Plus, giudice della Corte Penale di Londra – ingoiò un singhiozzo e alzò uno sguardo supplichevole sul volto dell’uomo in piedi di fronte a lui.
“Pe…perché…?” Domandò ancora una volta, mentre una lacrima silenziosa gli solcava la guancia destra, poco sotto la tempia dove il suo ospite inatteso teneva premuta la volata di una pistola.
“Quante volte dovrò spiegartelo, ancora?” Sbuffò quello, alzando gli occhi al cielo. “Non è niente di personale nei tuoi confronti. Semplicemente, tu sei il migliore che ho trovato. Anzi, lasciatelo dire: rasenti quasi la perfezione.” Un sorriso compiaciuto gli increspò le labbra, che umettò con un rapido movimento della lingua. “Adesso, se non ti spiace…” Concluse, indicando all’uomo la pistola che gli aveva stretto alla mano sinistra, con vari giri di nastro adesivo rinforzato.
“Come ho detto, se sparo io, sei morto di sicuro. Se lo fai tu… hai cinque possibilità su sei di cavartela. Mi sembra un valido motivo per scegliere questa strada, non credi?” L’uomo si chinò sul giudice, portandosi con un orecchio all’altezza della sua bocca. “Avanti, dimmi di sì...” Sembrò supplicare, prima di soffocare una risata. “Naturalmente se provi a sparare a me, ci sono altrettante possibilità che il colpo fallisca… e allora non mi limiterò a darti una morte rapida e dignitosa… “ Sussurrò, con voce melliflua. “Anche se forse, per quello, è già troppo tardi.” Aggiunse, osservando compiaciuto l’alone umido che si stava allargando sui i pantaloni dell’uomo, lambendo la stoffa della poltrona sulla quale era seduto.
Il giudice annuì, debolmente. Con mano tremante si portò l’arma verso la tempia opposta a quella tenuta sotto tiro dallo sconosciuto, che come vide poggiarsi il metallo contro la pelle dell’uomo si allontanò, continuando a tenerlo sotto tiro.
“Vuole che conti, giudice?” Domandò, con finta reverenza.
Wargrave fece cenno di no col capo, e serrò gli occhi. Per un attimo, il salotto della sua villa alla periferia di Londra cadde nel silenzio più assoluto. Poi, con un’esplosione, la parete bianca alle spalle del giudice si macchiò di un rosso vivo, pulsante.
L’uomo rantolò per qualche secondo, poi fu di nuovo silenzio.
 
“Ops…” Commentò lo sconosciuto, ondeggiando in modo infantile da un piede all’altro.
“Forse erano cinque possibilità su sei di morire…” L’uomo appoggiò un dito alle labbra ed assunse un’espressione pensierosa, per poi aprirsi in un sorriso allegro. “Ad ogni modo… Ormai è tardi.”
Accennando un passo di danza aggirò la poltrona dove il giudice giaceva ormai privo di vita, estraendo con un gesto plateale il fazzoletto ricamato che portava nel taschino della giacca dal taglio sartoriale che indossava. Con molta attenzione, dopo averlo inumidito con la saliva, iniziò a creare una scritta, facendola riemergere dal sangue.
A lavoro terminato, si allontanò di qualche passo per osservare compiaciuto il risultato finale.
Bianca, candida, immersa in un contorno molle e purpureo, era perfettamente visibile una nuova rima:
 
Uno, due, due e mezzo e tre,
Jim Moriarty è qui per te. [1]
 
L’uomo ripose il fazzoletto nel taschino, e recuperò il proprio cellulare dal cappotto che aveva lasciato su una delle sedie della sala da pranzo.
Completò il messaggio e lo inviò, dirigendosi quindi verso l’uscita, accompagnando i propri passi con un fischiettio allegro.
Nello stesso momento, dall’altra parte della città, il cellulare sul comodino di Gregory Lestrade vibrò, svegliandolo.
 
***
 
La signora Hudson bussò con risolutezza alla porta, e John sobbalzò, svegliandosi.
Per qualche secondo si guardò attorno spaesato, cercando di capire dove fosse. Poi, dopo un paio di tentativi, mise a fuoco la poltrona di Sherlock, molto più vicina di quanto non la ricordasse. Girò la testa verso la porta, tentando di alzarsi, e solo in quel momento si accorse di avere il proprio cappotto sulle gambe. Confuso, lo scostò con un movimento impacciato, mentre la donna bussava nuovamente.
“Un… un attimo!” Provò, con voce impastata.
“Mi dispiace disturbare, ma c’è l’ispettore Lestrade! Dice che è urgente!” Nonostante la porta chiusa, la preoccupazione della signora era palese.
“Ok, arrivo!” Le rispose John, guardandosi attorno. “Sherlock?” Chiamò, certo che non avrebbe ricevuto risposta: le finestre erano socchiuse e la scia del detective opaca. Doveva essere uscito da almeno un paio d’ore.
Con passo incerto si avvicinò alla porta, la testa ancora ovattata e pulsante e gli occhi appannati.
“Sherlock non c’è.” Disse, poggiandosi al legno con la testa ed una mano. “Se è lui che cerca gli dica di provare a chiamarlo al cellulare.”
“John!” La voce di Greg lo colse di sorpresa, facendolo arretrare. “Che sta succedendo? Perché non apri?!”
Il medico lanciò uno sguardo per la stanza, in cerca di una via di uscita.
“John!” Lo chiamò nuovamente Lestrade, e John sentì la signora Hudson dirgli che se avessero avuto ancora bisogno di lei l’avrebbero trovata al piano di sotto. I suoi passi lungo le scale furono per un attimo l’unico suono udibile.
“Sto iniziando davvero a preoccuparmi, adesso.” La voce dell’ispettore, dall’altra parte della porta, si era fatta bassa. “Per favore, John. Mi conosci! Fammi entrare e dimmi cosa c’è che non va.”
“Non… non posso Greg. Per favore, va’ via.” Il medico si portò una mano al viso, passandosi le dita sugl’occhi, prima di fermarle sulle labbra in un gesto preoccupato.
“John.” Tentò ancora l’ispettore. “Per favore. Sei mio amico, e se hai bisogno di aiuto devi solo parlarmene.”
“Perché sei qui?” Domandò il medico, dopo un lungo sospiro.
“Abbiamo un'altra vittima. Ed un possibile sospettato, finalmente!” Rispose Greg, nella voce un tremito impaziente. “Ero venuto a prendere Sherlock, ma ormai sono qui e non me ne vado fino a quando non mi dici cosa diavolo sta succedendo.”
“Hai cose più importanti alle quali pensare, adesso. Ne parleremo un’altra volta, promesso.” John fece un passo verso la porta, cercando di pronunciare le parole nel modo più credibile possibile.
“Al momento sulla scena del crimine c’è quasi tutto il Dipartimento. Posso rimanere qui fuori delle ore, se necessario. Mi basta un telefono, per lavorare.” Lestrade si appoggiò alla porta, lasciandosi andare volutamente con una certa forza, in modo che fosse chiaro che non si sarebbe mosso.
“Dio, perché devi essere anche tu così?” John alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
“Così come?” Chiese l’ispettore, senza capire.
“Testardo.” Rispose il medico, incapace di trattenere un accenno di sorriso. Aveva sempre saputo che Greg tenesse a lui, ma non aveva mai avuto modo di vederlo in modo tanto chiaro come in quel momento.
“Non riesco a immaginare un solo buon motivo per dover continuare questa conversazione separati da una stupida porta. Sono preoccupato, John. Molto.”
“Anche io.” Sibilò lui, abbassando gli occhi.
“Pensavo mi ritenessi un amico.” Iniziò Lestrade.
“Non provarci. Non farlo.” Lo interruppe John, iniziando a sentire la frustrazione per la situazione trasformarsi in rabbia. “Lo sai che sei una delle poche persone che definirei tale. Lo sai.”
“E allora dimmi cosa ti impedisce di aprire questa maledetta porta!” Anche la voce dell’ispettore, adesso alta, faceva trasparire un certo nervosismo crescente. “Sherlock ti ha fatto qualcosa?” Azzardò.
“Dio, no!” Si lasciò sfuggire il medico, con troppa convinzione.
“Riguarda il caso?” Tentò nuovamente il poliziotto.
“Riguarda me, Greg. Solo me.” Specificò John, marcando con forza l’ultima parola.
“Bene. Allora voglio che ti sia chiaro che qualunque cosa ti stia succedendo, tu abbia fatto, o tu stia pensando di fare, non cambierà di una sola virgola la mia opinione su di te. Ok? Non me ne vuoi parlare? Va bene. Come vuoi. Ma ricordati che puoi chiamarmi. Sempre.” Si arrese l’ispettore, staccandosi dalla porta. “Vado al Bart’s a vedere se Sherlock è lì…” Lo informò, prima di voltarsi verso le scale.
Lo scatto della maniglia lo sorprese, e Greg tornò a guardare la porta, adesso socchiusa.
“Grazie.” Sussurrò, con un sospiro di sollievo.
Tornò indietro, e appoggiò una mano sul legno, spingendolo quanto necessario per potersi affacciare nella stanza.
Vicino alla finestra di fronte all’ingresso, John se ne stava immobile, con aria tesa e sguardo lucido. Lestrade aggrottò la fronte, senza riuscire a capire quale fosse il problema.
Lanciò un’occhiata lungo la stanza, trovandola nelle stesse condizioni di sempre. Tornò quindi sul medico, aprendo la porta fino al punto da riuscire ad entrare.
“Non… Non capisco.” Ammise, assumendo un’espressione confusa.
John, allora, in silenzio fece un paio di passi verso di lui, fermandosi quando ritenne la distanza sufficiente a far arrivare a Greg il suo messaggio olfattivo. Sentiva il cuore esplodere nel petto, in un misto di paura, ansia e vergogna, sentimenti che portavano con loro una rabbia sorda, cieca, che si mescolava a tutti gli altri odori in una scia complessa, forte.
Dopo qualche secondo di silenzio, Greg prese un respiro profondo, e riuscì finalmente a capire.
John lo osservò schiudere le labbra, e sgranare gli occhi. Si preparò con tutte le sue forze a sentire le ultime parole di quello che, ne era sicuro, sarebbe presto uscito da quella stanza rinnegando ogni loro rapporto di amicizia.
“Razza di idiota…” Sibilò Lestrade, ed il medico sorrise, con amarezza. Ne era certo, che sarebbe andata così.
Greg coprì la distanza tra lui e John con pochi passi, quasi correndo, tanto che l’altro non fece in tempo a capire cosa stesse succedendo, né a cercare di proteggersi.
In un attimo si trovò avvolto dalle braccia di Lestrade, premuto contro il suo petto e con la punta del mento dell’ispettore che spingeva contro una spalla.
“Sei un idiota, John Watson.” Ripeté Greg, con un sorriso tirato. “È per questo che ho rischiato di perdere uno dei miei più cari amici?”
John, naso schiacciato contro il tessuto rigido della giacca dell’altro, riuscì solo ad emettere un singhiozzo strozzato, carico di ogni sensazione che non stava riuscendo ad esprimere.
L’ispettore ammorbidì la presa e fece un passo indietro, tenendo le mani sulle spalle del medico.
“Perché diavolo non me lo hai detto?” Chiese, nella voce qualcosa che assomigliava vagamente ad una ferita.
“Pensavo… Non lo so, che non avresti capito.” Provò John, senza esserne davvero sicuro. Perché aveva trovato l’idea di parlare a Lestrade di tutto questo tanto insopportabile? Non riusciva a ricordarlo, in quel momento.
“Mike lo sa?” Continuò Greg, lasciandolo andare.
John fece cenno di no con la testa, abbassando lo sguardo.
“Dovresti dirglielo.”
“Lo so.” I medico lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, in un gesto sconsolato. “È solo che… dopo tutti questi anni… Temo che si sentirebbe tradito, da una bugia simile.” Ammise, muovendosi verso il divano e lasciandocisi cadere sopra.
“Chi sei non è certo una scia a decretarlo. Non per te, almeno. Cristo John, sei un medico! Un militare! È, è… Incredibile!” Esplose Greg.
“Perché un Alpha nella gerarchia militare ed un Beta medico rappresentano la norma, ma nel mio caso questi traguardi diventano qualcosa di incredibile?” Domandò John, osservando l’altro arrossire.
“E dai, lo sai cosa volevo dire…” Sussurrò Lestrade.
“Sì., Greg. Lo so.” Gli concesse John.
“Non è per forza un male che qualcuno si stupisca di cosa una persona sia in grado di fare. Io mi sorprendo costantemente di quel che Sherlock fa sulle scene del crimine, e per lui praticamente è un vanto essere l’Alpha ammirato per qualcosa che uno come lui non avrebbe mai dovuto fare.” Tentò di spiegarsi meglio l’ispettore.
John rimase in silenzio, riflettendo su quanto l’altro aveva appena detto.
Sì, era vero: Sherlock adorava sottolineare con parole e fatti quanto lontano fosse dai canoni del perfetto maschio Alpha. Per lui non era un problema subire battute sulla sua presenza sulle scene del crimine, o rimanere senza soldi pur di continuare a fare quanto amava con forza e convinzione.
Non lo aveva mai osservato sotto quella luce, e per un attimo fu come vederlo assumere un aspetto del tutto nuovo. Non doveva essere facile, lottare costantemente per la propria libertà, senza potersi nascondere, camuffare. Per il detective non esistevano farmaci, solo la propria testardaggine. E se lo Snubber aveva smesso di funzionare, per lui, da poco meno di ventiquattro ore, Sherlock era una vita intera che lottava per condurre la propria esistenza da uomo libero, al costo di isolamento e derisione.
“Hai ragione. Hai perfettamente ragione.” Bisbigliò John, sovrappensiero, alzandosi dal divano, diretto al piano di sopra in cerca del proprio cellulare.
“Dove vai?” Chiese Greg, seguendolo con gli occhi, senza capire.
“Provo a chiamare Sherlock per sapere dove sia.” Gli rispose John, iniziando a salire le scale. “Hai detto che avete un nuovo corpo ed un nome, lo adorerà.” Aggiunse, immaginando la faccia sorridente del detective nel ricevere la notizia, senza riuscire a trattenere a sua volta un sorriso.
 
***
 
Sherlock osservò le cellule sconosciute radunarsi in un lato della piastra, ad un primo sguardo del tutto inattive. Le particelle di Om+ di John si muovevano, lentamente, lungo le pareti di vetro, spostandole senza che queste reagissero in alcuni modo.
Il detective fece cadere alcune briciole di Snubber frantumato sul vetrino, guardandole sparire – distrutte e metabolizzate - ancor prima di riuscire a compiere il proprio lavoro.
Staccò gli occhi dallo strumento e appuntò su un foglio che l’inattività delle cellule non combaciava con la loro disattivazione. Non rimaneva che scoprire se, e quando, dopo un dato lasso di tempo senza “nutrimento”, gli organismi unicellulari andassero incontro a morte.
Ma per un’analisi del genere occorreva tempo, molto, e loro – Sherlock bloccò per un attimo i propri pensieri, sorpreso di aver usato il termine “loro”, decidendo di ignorare quanto appena accaduto subito dopo - non ne avevano a disposizione così tanto.
John sarebbe andato in Calore nel giro di tre settimane, e ne rimanevano due prima che cominciasse a manifestare i primi segnali.
Sherlock si lasciò andare contro lo schienale dello sgabello, portandosi le mani al viso. Era uscito di casa poco prima dell’alba, dopo una notte passata per la maggior parte del tempo a vegliare sul sonno agitato del medico. Non era servito a niente coprirlo, e mantenere acceso il camino il più a lungo possibile. Cose orribili dovevano star accadendo, oltre la barriera delle sua palpebre chiuse, e Sherlock non era riuscito a pensare ad altro che potesse aiutare John se non riuscire a trovare il modo di farlo tornare chi aveva scelto di essere. Chi era.
Aveva preso il cappotto ed era uscito, non prima di aver aperto le finestre e chiuso la porta, per evitare che la signora Hudson piombasse in salotto senza che il medico se ne accorgesse.
Adesso, quasi tre ore dopo, la stanchezza gli appannava la vista e la fame – ormai pressante - i pensieri, in un’irritante limitazione sensoriale e psichica che mal riusciva a tollerare.
Il cellulare, schermo contro il legno del bancone, iniziò a vibrare.
Il detective allungò una mano e lo afferrò, portandoselo al viso, mantenendo una postura allungata all’indietro sulla seduta.
Il nome di John lampeggiava con insistenza, e Sherlock rispose e si appoggiò l’apparecchio all’orecchio in un unico, fluido, gesto.
“John.” Disse, cercando di nascondere stanchezza e quell’accenno di nausea che la fame gli stava dando.
“Sherlock, dove sei?” La voce del medico, dall’altro capo del telefono, appariva distesa, ed il detective si rilassò a sua volta, rilassando spalle e schiena.
“Al Bart’s. Inutile rimanere a casa.” Rispose, con voce fintamente annoiata.
“Greg è qui. C’è stato un altro omicidio. Ed hanno un sospettato, questa volta.” John tacque, in attesa di un cenno da parte dell’altro.
“Hanno un nome e comunque cercano me?” Sbuffò Sherlock, sentendo il medico trattenere una risata.
“A quanto pare.” John sospirò, divertito. “Gliel’ho detto.” Aggiunse, poi, sottovoce.
“Cosa?” Domandò l’altro, fingendo di non capire.
“Che sono… Insomma, lo sai.” Il medico prese un profondo respiro, che vibrò nelle orecchie di Sherlock come una tempesta.
“E?” Chiese poi il detective, quando la comunicazione tornò silenziosa.
“Mi ha abbracciato.” Disse John, con voce nuovamente alta, chiara, con una piccola traccia di stupore.
L’immagine di Lestrade, a casa loro, con le braccia attorno al medico, ebbe l’effetto di un violento strattone all’altezza del plesso solare, e Sherlock si piegò il avanti, tornando a sedersi normalmente.
“Sherlock?” Lo chiamò l’altro, non sentendosi rispondere.
“Ottimo.” Tossì il detective, chinandosi nuovamente sulle lenti del microscopio. “Direi che è andata bene, no?” Aggiunse, distaccato.
“Sì, sicuramente…” Confermò John, titubante. “Greg passerà a prenderti, se per te va bene.”
“Certo. Mi trova al secondo piano, stanza B3.”
“Tutto ok?” Domandò il medico, dopo qualche secondo di silenzio.
“Sì, tutto bene.” Rispose l’altro, sbrigativo.
“Novità?” Provò di nuovo John.
“Nessuna. Ma troverò qualcosa. Non preoccuparti.” Sherlock si alzò. Non riusciva a concentrarsi a sufficienza, e la cosa lo innervosiva terribilmente. “Adesso devo tornare agli esperimenti.” Tagliò corto, aspettando di sentire il flebile “Ok” di John prima di riattaccare.
Un omicidio. Si sforzò di pensare. Un nuovo omicidio ed un sospettato. Qualcosa che, fino ad un mese fa, avrebbe reso una giornata noiosa, perfetta.
Invece, fermo al centro della stanza, circondato da strumenti di ricerca e silenzio (altra cosa che, in un passato recente, avrebbe rappresentato per lui il massimo della gioia), gli sembrò che qualcosa non andasse. Che mancasse. E, per la prima volta, la solitudine gli apparve sotto la luce grigia di un’assenza.
 
***
 
Lestrade bussò un paio di volte, con forza, prima di entrare.
Sherlock finì di radunare i fogli sparsi sul bancone e li ripiegò, mettendoli nella tasca del cappotto che già aveva addosso.
“O hai trovato molto traffico, o sei diventato incredibilmente lento a guidare.” Esordì, tagliente, accogliendo l’ispettore con uno sguardo ostile più di quanto avesse voluto far trasparire.
“Nessuna delle due. Colpa di John.” Rispose l’altro, sorridendo.
Per un attimo il detective dovette concentrarsi su ogni muscolo facciale, nel tentativo di rimanere impassibile.
“Ho saputo che te l’ha detto.” Commentò, atono.
“Sei stato un buon amico, a cercare di proteggerlo come hai fatto.” Lestrade iniziò a cercare qualcosa nella tasca interna della giacca.
“Non ho amici.” Sottolineò Sherlock, seguendo con attenzione i movimenti dall’altro.
“Certo.” Gli concesse l’ispettore, estraendo un sacchetto di carta bianco, con una certa fatica.
“Ciò nonostante, pare che tu ne abbia ugualmente uno, che ti piaccia o meno.” Aggiunse, lanciandogli la busta.
Il detective l’afferrò al volo, con una mano, senza muovere il resto del corpo. La aprì e ne rovesciò il contenuto sul palmo dell’altra, alzando poi uno sguardo interrogativo su Lestrade.
“Ha insistito che mi fermassi a comprarti qualcosa da mangiare.” Fu la risposta che ottenne.
Sherlock si rigirò gli snack tra le mani, confuso.
“Questo dovrebbe essere cibo?” Domandò, tagliente.
“Secondo John sì. Dice di aver trovato un bel po’ di carte vuote di quegli integratori, a casa vostra, pulendo. Secondo lui ti piacciono, e molto.” Rispose l’altro, allegro.
Il detective strinse le dita attorno alle due piccole confezioni colorate, se le mise in tasca, e senza aggiungere altro si avviò verso la porta.
“No. Ne devi mangiare almeno una, se vuoi venire con noi.” Lo bloccò Lestrade, alzando una mano.
“Voi? Forse dovresti essere tu a mangiare qualcosa, dato che inizi a parlare di te stesso con il plurale maiestatis.” Lo apostrofò Sherlock.
“Plurale che?” Rispose l’ispettore, aggrottando le sopracciglia. “Comunque John mi ha detto di risponderti, in caso ti fossi rifiutato: “ordini del dottore”.”
“Divertente.” Sbuffò il detective, ignorando la mano alzata di Lestrade ed uscendo dalla porta.
“Chi c’è sulla scena del crimine? Anderson? Donovan?” Si informò, continuando a camminare, percorrendo il corridoio a grandi falcate e costringendo l’ispettore ad accelerare il passo per stargli dietro.
“Nessuno. Ho mandato tutti a casa.” Rispose Lestrade, riuscendo ad affiancarlo.
Sherlock si voltò verso di lui, sorpreso.
“Una premura inaspettata, lasciarmi libero di pensare senza che il loro scarso quoziente intellettivo cerchi di cibarsi del mio per assicurar loro un minimo di sopravvivenza.” Disse, iniziando a scendere la seconda rampa di scale.
“Veramente già ieri ti ho fatto venire da solo sulla scena del crimine.” Sottolineò l’ispettore, posando piede sull’ultimo gradino. “Ad ogni modo oggi, non è per te che ho mandato tutti a casa.” Aggiunse, seguendo Sherlock oltre la porta a vetri scorrevole che dava sull’esterno.
“Sei finalmente giunto anche tu alla mia stessa conclusione sulla loro completa inutilità?” Chiese il detective, iniziando a cercare la volante con lo sguardo.
“No. Ho solo pensato che avresti preferito che ci fosse lui, piuttosto che loro.” Commentò Lestrade, poggiandogli una mano su una spalla ed indicandogli con l’altra la macchina, posteggiata poco più in là, in una zona isolata del parcheggio.
Appoggiato alla fiancata, accanto alla portiera aperta, John stava scrutando il cielo plumbeo, schermandosi gli occhi con una mano.
Sherlock socchiuse le labbra, colto di sorpresa.
“Hai permesso che uscisse di casa?” Sibilò, dopo qualche secondo, voltandosi verso l’ispettore. “È pericoloso!”
“Ho permesso? È stata una sua richiesta.” Lestrade allontanò la mano dal detective, portandosela al fianco.
“È vulnerabile, adesso! Potrebbe succedergli qualsiasi cosa, possibile che non te ne renda conto?! Se il killer mandasse qualcun altro a finire il lavoro iniziato?!” Ringhiò Sherlock, e John si voltò verso di loro, attratto da quel suono gutturale giunto fino a lui, spinto dal vento leggero che si stava alzando.
“Allora – Lestrade si portò più vicino a Sherlock, abbassando la voce a poco più di un sussurro – ti consiglio di stargli accanto il più possibile, per accertarti che non accada.” Detto questo, si avviò verso la macchina, alzando una mano in direzione del medico.
Sherlock, ancora immobile, osservò John ricambiare il saluto, per poi girarsi verso di lui con un sorriso incerto. Senza ricambiarlo, si avvicinò alla macchina con passo veloce.
Quando fu abbastanza vicino, gli indicò l’interno dell’auto, con un gesto brusco.
“Sali.” Sibilò, ignorando lo sguardo stupito e ferito che ricevette in cambio.
“Ho detto sali.” Ripeté nuovamente, quando gli fu praticamente accanto.
John, combattendo l’istinto di fare come gli era stato ordinato con tanta veemenza, si irrigidì, rimanendo in piedi fuori dalla macchina.
“John, non sto scherzando.” Sherlock gli toccò un braccio, cercando di farlo spostare.
“Si può sapere che ti prende?!” Chiese il medico, portandosi in avanti per controbilanciare la presa del detective.
Tu stai cercando di farti ammazzare, e chiedi a me cosa mi prenda?” Sherlock gli diede un’altra spinta, leggera, e John si lasciò cadere sul sedile, mantenendo uno sguardo serio sull’altro, che si sedette a sua volta facendolo scivolare all’interno, per poi chiudere la portiera.
Lestrade, davanti, attese che assumessero entrambi una postura corretta e mise in moto, cercando di concentrarsi sul percorso da compiere.
“Non saresti dovuto uscire di casa.” Ringhiò Sherlock, rauco, voltandosi con la testa verso John.
“Da quando decidi tu cosa debba fare o meno?” Lo rimbeccò l’altro, scoprendo i denti a sua volta.
“Da quando hai deciso di suicidarti, con tutta evidenza!” Sherlock ancorò gli occhi a quelli del medico, mantenendosi impassibile.
“Meglio morto che prigioniero.” Rispose l’altro, a denti stretti, ed il detective riuscì a scorgere una fugace ombra di disperazione nel suo sguardo.
“Lo so che adesso ti sembra che non ci sia una soluzione, ma ne verremo fuori. Troverò un modo.” Sherlock abbassò la voce, addolcendola.
“È da ieri che lo ripeti. “Troverò un modo.” Beh, io sto cercando il mio, Sherlock. Perché se il tuo fallisse, sarò sempre io quello che dovrà cercare di sopravvivere.” John smorzò il tono a sua volta, riducendolo ad un sussurro. “Sono prigioniero del mio stesso corpo. Fammi essere almeno libero delle mie azioni e scelte, finché posso.” Aggiunse, staccando infine gli occhi dal detective e girandosi verso il finestrino, abbassandolo appena.
Sherlock rimase immobile qualche secondo, osservando i capelli del medico muoversi spinti dall’aria che entrava dalla piccola fessura del vetro e respirando la sua scia, adesso alta e pungente. Dopo un attimo, in silenzio, estrasse le due barrette dalla tasca, allungandone una verso John, che osservò con la coda dell’occhio la mano tesa del detective.
“Non capisco.” Gli concesse infine il dottore.
“Ordini del medico.” Lo scimmiottò Sherlock, lasciandogli cadere la confezione sulle gambe ed iniziando ad aprire la sua.
John si voltò verso di lui, aspettando di vedere il detective dare il primo morso. Poi, lentamente, iniziò a mangiare a sua volta, accennando un sorriso.  
 
***
 
“Jim Moriarty.” Sherlock ripeté il nome scritto sul muro, lasciando che si imprimesse nella sua mente, passandoselo sulla lingua, lento, come a volerlo assaporare. “Niente su di lui nei vostri archivi?” Domandò, rivolto a Lestrade, senza staccare gli occhi dalla parete.
“Nulla. Neanche una patente, un indirizzo di posta, una richiesta per il passaporto. Quell’uomo è un fantasma, per l’anagrafe cittadina.” Sospirò l’ispettore, lanciando un’occhiata a John, chino sul corpo esanime dell’uomo.
“Vorrei sapere come si possa spingere qualcuno a spararsi, senza che questi usi l’arma per difendersi.” Commentò il medico, infilando i guanti e facendo scorrere in basso il caricatore delle munizioni. “È pieno. Non ha alcun senso!” Con attenzione, infilò in cinque diverse buste di plastica i proiettili rimasti, e in un sesto contenitore il caricatore di metallo.
“Roulette russa.” Disse Sherlock, immobile, ancora spalle alla poltrona.
“Non è così che funziona, la roulette russa.” Rispose John, adagiando le prove nella borsa della scientifica che l’ispettore aveva chiesto venisse lasciata sulla scena.
“Invece sì, se vuoi essere certo di vincere.” Il detective si voltò verso di lui, mantenendo il corpo nella stessa posizione, ruotando solo un po’ le spalle.
“Mi chiedo perché fosse tanto importante che morisse così.” John tornò verso il giudice, girando attorno alla poltrona per poter osservare la ferita con attenzione.
Nel farlo, finì schiena contro schiena con Sherlock, che rimase immobile, senza dar segno di averlo sentito.
“Ha un’idea chiara di chi, dove e come.” Sussurrò il detective, a voce sufficientemente alta da permettere anche al medico di sentirlo.
“Sicuro? A me sembra solo che si diverta a sperimentare.” Rispose l’altro, chino sul foro di uscita del proiettile.
“Se così fosse non avrebbe usato più volte lo stesso metodo.” Ribatté il detective, pronto.
“Tecnicamente, non l’ha fatto. Stando almeno a quanto mi avete raccontato in macchina sull’omicidio di ieri.” John alzò gli occhi su Greg, trovandolo con la testa inclinata da una parte, completamente catturato dal loro scambio di battute.
A disagio, il medico si spostò di lato, staccandosi da Sherlock quel tanto da non sentire più la pressione della sua schiena contro quella di lui.
“Non è questo. Lo sento.” Il detective si avvicinò al muro, alzando una mano fin quasi a toccarlo.
“Lo senti? Da quando sei in sintonia con i pazzi assassini?” Domandò Lestrade, un vago accenno di preoccupazione nella voce.
“Da quando non sono pazzi, Lestrade. Tutt’altro. È sempre un passo avanti a noi. Conosce i nostri numeri di telefono, le zone non coperte dalla videosorveglianza nei luoghi pubblici, sa dove trovarci. Non è un folle. No. È l’esatto contrario.” Disse, assorto, tracciando nell’aria le stesse lettere impresse nel sangue.
“Dio, Sherlock! A sentirti sembra quasi che tu ne sia ammirato!” John smise di analizzare la vittima, e tornò in posizione eretta, guardando con aria accigliata il detective, che gli lanciò una rapida occhiata, prima di tornare a fissare la parete.
“Sembri deluso.” Commentò Sherlock, dopo qualche attimo di silenzio.
“Certo, sì. Lo sono.” Confermò il medico, annuendo con forza. “Quell’uomo sta uccidendo delle persone, maledizione! Con violenza, con… sadismo. Per non parlare di me… E… E tu sembri uno che se se lo trovasse davanti andrebbe a stringergli la mano!” Sbottò John, iniziando a tremare di rabbia e facendo un passo indietro, verso Lestrade, che intanto si era avvicinato a lui.
“Ammiro sempre una mente eccelsa, quando ne trovo traccia. È merce rara. Questo non significa che mi complimenterei con lui per il suo operato.” Rispose Sherlock, calmo.
“Però adesso che non c’è lo stai facendo, giusto?!” John si tolse i guanti con un gesto carico di sdegno, e li lanciò a terra. “Meraviglioso, davvero.” Concluse, voltandosi a chiedere scusa con lo sguardo a Lestrade prima di uscire con passi rapidi dalla stanza.
“Sherlock.” Provò l’ispettore, ottenendo in cambio un gesto della mano che gli intimava il silenzio.
“Non fatico a credere che tu ritenga di non avere amici, visto come tratti quelli che hanno avuto l’ardire di definirsi tali…” Sussurrò quindi, prima di appoggiarsi alla parete vicina alla porta e tacere.
“John non si è mai definito mio amico.” Disse il detective, dopo qualche minuto di silenzio, decidendo che fosse giunto il momento di andare.
“Forse non davanti a te. Ma con me lo ha fatto. Mentre stavamo venendo a prenderti ed ha insistito più volte che mi fermassi per comprarti qualcosa da mangiare. Gli ho chiesto almeno tre volte perché fosse tanto importante. E lui mi ha risposto che lo era perché sei suo amico, e quindi ha il dovere di accertarsi che tu ti prenda cura di te.” Lestrade si staccò dal muro, osservando Sherlock apparire perso per un attimo. “Sai quanto ho dovuto faticare io perché si fidasse di me al punto da definirmi “amico”?” Gli chiese mentre, affiancati, uscivano dalla stanza. “Mesi. Mesi interi Sherlock. E ancora non ha abbastanza fiducia in me da venire a dirmi subito cosa gli succede, o se ha bisogno di aiuto.” Il detective continuò a camminare, in silenzio, apparentemente assorto nei propri pensieri. “Lo so che come al solito saranno parole al vento, con te, ma per favore: provaci, almeno.”
“Provare a far cosa, esattamente?” Domandò Sherlock, sprezzante, dando una spinta alla porta d’ingresso della villa e affacciandosi sul patio esterno.
“A fidarti. Non tutti sono degli inetti, stupidi, inutili individui.” Terminò Lestrade, cercando il cellulare per richiamare sulla scena i suoi uomini, in modo che terminassero la catalogazione dei reperti e provvedessero allo spostamento del corpo.
“Non ho mai detto che John sia inetto, stupido od inutile.” Commentò Sherlock, mentre l’ispettore iniziava a dare disposizioni.
“Allora – disse lui, a bassa voce, coprendo per un attimo con la mano il ricevitore dal telefono – trattalo di conseguenza.”
Sherlock seguì con lo sguardo Lestrade scendere i tre gradini del portico, coprendosi con una mano l’orecchio non impegnato nella conversazione.
Poco distante, appoggiato alla macchina con le braccia conserte, John guardava il cancello d’ingresso, dalla parte opposta della casa.
Sherlock scese i gradini, prendendo a sua volta il telefono. Rapidamente compose un messaggio, inviandolo poco prima di raggiungere il medico.
 
[To: Mycroft][11:56 am]
Jim Moriarty. [2]
 
John, sentendolo arrivare, si voltò verso di lui, con sguardo ostile.
“Non mi interessano le tue motivazioni, o la spiegazione del perché razionalmente tutti noi dovremmo riconoscere in lui un genio, se è di questo che hai intenzione di parlare.” Sibilò, tagliente, la scia pungente come il suo sguardo.
“No.” Disse Sherlock, appoggiandosi a sua volta alla portiera. “Anche se non nego quanto detto prima. Sarebbe sciocco farlo.”
“Sciocco è venire qui a ribadirlo.” Commentò John, dando un calcio ad un pezzo di ghiaia bianca più grande degli altri.
“Sciocco sarebbe credere che se lo trovassi gli stringerei la mano.” Ribatté il detective, lanciando un’occhiata eloquente al medico. “Se lo trovassi lo porterei in laboratorio e mi farei dire cosa ti ha fatto inoculare, a costo di dovergli fratturare accidentalmente qualche osso per riuscirci. Le finestre sono sempre aperte quando non dovrebbero…”
John, confuso, alzò lo sguardo su di lui, senza riuscire a mantenerlo fermo quanto avrebbe voluto.
“Una volta risolto quello… Sì, probabilmente gli stringerei la mano.” Aggiunse il detective, accennando un sorriso.
Il medico annuì, sentendo il suo viso distendersi ancor prima di averlo deciso consciamente.
“Sei un idiota.” Lo apostrofò, con sguardo allegro.
“Sociopatico.” Lo corresse Sherlock, guardando avanti a sé, l’ombra di un sorriso ancora visibile sul viso.
“Ok, vi accompagno a casa e torno qui, sbrighiamoci.” Urlò loro Lestrade, chiudendo la porta della villa e sigillandola con una grossa “x” di nastro adesivo della polizia.
“Ti va di parlare degli omicidi, una volta a casa?” Domandò John, aprendo la portiera.
“Davvero me lo stai chiedendo?” Sherlock si accomodò accanto a lui, richiudendola. “Non riesco ad immaginare un pomeriggio migliore.”
 


Note:
[1] Ho pensato un po’ se scrivere solo le iniziali, JM, o il nome per intero. Poi ho immaginato che se avessi scritto solo quelle, avreste comunque capito tutte di chi stavamo parlando, per cui ho deciso di farlo “firmare” per intero… Che poi, lo ammetto… Mi sembra molto più da Moriarty! (Con quell’ego che si ritrova… XD)
Ok, ora sapete che sì, si tratta proprio di lui. Ma molto ancora deve accadere ed essere svelato! (Risata diabolica).
[2] Anche per questo messaggio ho avuto qualche pensiero. Infine l’ho ridotto all’osso, perché penso che Sherlock e Mycroft non abbiano bisogno di tante parole, anzi. Ritengo che il maggiore degli Holmes sappia esattamente cosa il fratello possa volere (e non volere XD) da lui, e che un semplice nome, per loro, significhi automaticamente “ricerca più informazioni possibili”.
 
Angolo dell’autrice:
 
SORPRESA!
 
Questo capitolo premeva nella mia mente per uscire, tanto che non ho fatto praticamente altro che scrivere per tutta la giornata (sia ringraziato il part time verticale. XD)
Ora, avendolo scritto tutto oggi, in svariate e svariate ore, è assai probabile che porti con sé un po’ di errori (refusi, ripetizioni…)
Nel caso, me ne scuso. Provvederò a correggere (ed a rispondere a tutti i commenti, vecchi e nuovi) non appena avrò un attimo. ^_^
 
Grazie come sempre a chi legge, e a chi decide di dedicare (a volte con estrema costanza, senza mancare un solo capitolo!) alla storia un po’ del suo tempo, commentando. :D
 
Alla prossima!
B.
 
Ps: Vi allego una bellissima immagine che è stata fatta, espressamente per la storia, dalla bravissima loveart7, alla quale vanno i miei più sentiti ringraziamenti. Vedere qualcosa che si è scritto prendere vita sotto forma di immagine è una grande emozione, e non avrei potuto chiedere niente di più.
 

 
   
 
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