Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Nereides    13/03/2016    1 recensioni
Diane Lesley è in debito di due promesse, una fatta ad una ragazza sconosciuta, mentre le teneva la mano e aspettava l'arrivo dell'ambulanza, l'altra fatta ad un amico, un eterno Peter Pan con la fobia per i legami. Cercherà di tener loro fede, tra fantasmi del passato con il volto dell'affascinante Edward Hamilton e lo spietato e freddo cugino della ragazza, Mark Hansen, che il destino continuerà a mettere sulla sua strada. La vita di Diane alla Derbydale University si ritroverà intrecciata agli scomodi segreti delle due famiglie più potenti della città e metterà a dura prova le sue amicizie, le sue certezze e i suoi principi.
Sentirsi soli in un dormitorio universitario è difficile, ma quella sera si sentiva più sola che mai. Due promesse, due pesi, due debiti che aveva stretto senza sapere se sarebbe riuscita a colmarli. Un segreto pericoloso, che rischiava di rovinare tutto ciò che aveva costruito con tanta fatica se solo fosse uscito da quelle mura di cartongesso, così leggere, fragili e inaffidabili.
Genere: Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Debt of Promise




II





Avevano quasi finito di attraversare la piccola piazza su cui si apriva la caffetteria quando Diane scorse un taxi fermo dall’altra parte della strada. La caffetteria faceva parte dell'Archivio, frequentatissimo di giorno dagli studenti, quanto deserto di notte. L’edificio si apriva su due piani, con una scala al centro che portava al terrazzo; qui si trovava il solitario locale, unica fonte di sostentamento durante le dure sessioni d’esame, circondato dalle aule studio dell'Archivio. Era un’oasi per gli studenti fuori sede, che combattevano la solitudine studiando e pranzando in compagnia, un punto di riferimento per incontrarsi. Vederlo deserto era strano come quando si cambia la posizione dei mobili del salotto di casa propria. Bisogna farci l’abitudine.
Nonostante non ci fosse anima viva in giro, l’esperienza suggerì a Diane di affrettarsi a fermare l’unica auto gialla con l’insegna bianca sul tettuccio nei paraggi. Non sarebbe salita insieme a Mark, lo avrebbe semplicemente caricato e spedito all’ospedale più vicino, sperando che a Thomas non venisse la stupida idea di andare al pronto soccorso. Nonostante fosse a terra, apparentemente svenuto, Diane conosceva abbastanza bene l’amico per sapere che era avvezzo alle scenate drammatiche e aveva visto il pugno che l’aveva colpito. Mark non si sarebbe trattenuto se avesse voluto fargli davvero del male. Non era stupido, un labbro rotto o un occhio nero si risolvono in fretta, un trauma cranico si risolve con una denuncia, e non era quello che voleva o non si sarebbe fatto domare tanto facilmente.
-Posso guidare.-
Non sentiva la sua voce da quando aveva minacciato Thomas. Era stato quel ringhio sommesso, risalito dai meandri più oscuri della sua anima, a farle capire il motivo di quella rissa, e a farla sprofondare nei suoi, di meandri. Si fermò e lo guardò scettica. –Hai tre braccia, Hansen?-
Mark non replicò ma continuò a camminare, deviando leggermente la traiettoria. Il lampione sotto il quale si fermò permise a Diane di riconoscere una moto nera di grossa cilindrata parcheggiata sul ciglio della strada. Con una mano, aprì il sottosella ed estrasse il casco. Diane non sapeva se scoppiare a ridere per quell’assurda prova di forza, che lo rendeva a tutti gli effetti un gorilla poco evoluto, o correre a strappagli di mano le chiavi per impedirgli di finire ammazzato contro un palo. A toglierla da quella situazione ci pensò l’arrivo provvidenziale di una luce aranciane in uno scenario di oscurità.
-Che diavolo stai facendo?- Tornando alla caffetteria, Jay Lee aveva avuto pochi dubbi su cosa fosse successo e sentendo che Diane aveva seguito Mark non aveva perso tempo ed era corso a cercarla. Diane temette che quella frase fosse rivolta a lei, dopo la raccomandazione di quella stessa mattina di non avvicinarsi mai più a Mark, ma invece gli occhi tondi dell’amico puntavano proprio sulla fonte dei loro guai.
-Non fare l’idiota, ho la macchina parcheggiata su questa strada.-
Senza troppe cerimonie afferrò Mark per il braccio sano e lo allontanò dalla moto. Diane trattenne il respiro. Temeva che Jay risvegliasse il mostro dormiente che aveva appena distrutto un locale ed era già pronta a mettersi in mezzo, quando Mark si lasciò fare. Esterrefatta, guardò l’amico gestire magistralmente il più rognoso dei pugili, che non fiatò nemmeno quando gli rubò le chiavi di mano. Cominciò a protestare solo nel momento in cui le lanciò a lei, dicendole di occuparsene.
-Ridammele!- esclamò in un misero tentativo di liberarsi. Poi si rivolse direttamente a Diane. –Non sto morendo, posso farcela da solo.-
-Domani te le ridarà- rispose Jay al suo posto, riprendendolo per il braccio. -Vuoi morire dissanguato qui?-
Di fronte all’evidenza Mark fu costretto a seguirlo e Diane lo osservò andare via impensierita. Non si fidava di lui neanche se aveva un braccio fuori uso. Di sicuro non si meritava tanta premura, ed era stupita che non avesse reagito quando Lee l’aveva afferrato. Doveva stare molto male per non riuscire a dare il meglio di sé. 

***

Da quell’incidente in caffetteria si scatenò il panico nel consiglio pro-festa. Il console Thomas era stato sospeso fino a tempo indeterminato facendo precipitare Susan in un vortice di insicurezza che la rese isterica. Chris, che quella sera se l’era svignata alla prima buona occasione, era sparito e nessuno aveva avuto più sue notizie, nemmeno Sophie, che era infuriata con lui per averla fatta andare a casa da sola di notte.
E mentre il console veniva circondato da studenti, e soprattutto studentesse, preoccupate per il suo stato di salute raccontava la sua versione con orgoglio. Mark era noto per il suo caratteraccio e il suo umore perennemente nero, e quella sera aveva deciso di prendersela con una povera matricola che aveva osato urtarlo. La poveretta, in evidente difficoltà di fronte alla sua furia senza senso, stava per soccombere quando era intervenuto repentinamente a difenderla. Le si era parato di fronte, prendendosi lo schiaffo che altrimenti avrebbe sfregiato il viso dell’innocente matricola ma aveva respinto tutti gli altri colpi. Mark non aveva sopportato l’affronto e si era lanciato su di lui come una bestia, finendo a sfondare la vetrina del ristorante.
Né Diane né Susan credettero a quella storia, e per fargli capire di abbassare le arie, Susan sbagliò un movimento mentre controllava che la sua spalla fosse tutta intera, facendolo gridare di dolore. Diane, invece, rientrò al dormitorio chiedendosi quanto ci avrebbe messo Mark per trovarla.
Impiegò molto meno di quanto si aspettasse, il tempo che il sole sorgesse. Il mattino dopo le scale del dormitorio scendevano granitiche aprendole non più la strada per fermata del tram, ma per quel ragazzo dal braccio fasciato, appoggiato con le braccia incrociate al cancello d’ingresso. Mark Hansen non passava inosservato, e le poche studentesse che nel mese di giugno risiedevano ancora nel campus ne rimanevano affascinate al primo sguardo, ma al secondo acceleravano il passo sperando che non si fosse accorto della loro sfacciataggine. Mark, oltre ad essere un bel ragazzo, aveva anche l’aria di uno con cattive intenzioni.
-Non mi dai neanche il tempo di iniziare la giornata con un caffè?- gli chiese, scendendo lentamente. –Sono contenta, comunque, che stai bene. Direi dieci punti, ad occhio e croce.-
-Puoi anche smetterla di far finta che te ne importi qualcosa- replicò duro. Diane fece gli ultimi gradini sentendo un peso chiuderle lo stomaco che poco prima reclamava una brioches al cioccolato e tanto, tanto caffè.
-Ho appena visto Thomas- gli disse, fermandosi di fronte a lui. –Sarai soddisfatto del risultato, la sua faccia è gonfia come quella dell’omino Michelin. Ma visto che abita proprio qui, cosa ne dici di cambiare aria?-
Mark non rispose, ma si staccò dell’inferriata e la seguì lungo il marciapiede senza protestare. Diane si chiese cosa potessero sembrare, insieme. Non si erano mai viste due persone meno felici di passeggiare una accanto all’altra, né espressioni tanto scure esistevano in un campus universitario d’estate, il regno dei balocchi, patria dell’anarchia post-esami. Diane conosceva ogni metro di quella strada che da cinque anni la conduceva verso il giorno in cui avrebbe avuto il capo cinto di alloro, ma quel breve tragitto non le era mai pesato tanto. Il fornaio, il market dei pakistani, il ristorante cinese: fu come se li vedesse per la prima volta con occhi che non le appartenevano. Mark le camminava a fianco, cupo come le nuvole nere prima di un temporale, e quella tensione irrequieta nell’aria non solo la faceva sentire diversa, ma anche nervosa. Si fermò a metà strada, in un piccolo parco ritagliato tra i marciapiedi, così nascosto che solo chi ci vive può conoscerlo. Quanti libri aveva letto sulla panchina protetta dai rami della quercia, quante persone aveva incontrato dando una carezza ai cani più affettuosi, che osavano interessarsi al lei con curiosità. L’ambiente familiare la rassicurava come un caldo abbraccio, ma temeva che i ricordi piacevoli potessero essere violati da parole taglienti, che l’avrebbero ribattezzato dandogli una nuova identità. Guardò Mark: quanto avrebbe voluto cavargli quelle stalattiti affilate che si trovava al posto degli occhi.
-Prima di tutto, restituiscimi le chiavi- esordì lui allungandole il palmo della mano. Diane strinse il portachiavi che aveva in custodia dalla sera prima e che non aveva ancora lasciato la tasca dei suoi pantaloni.
-Credo che prima dovremmo scambiare due parole- propose, osservando le dita tese verso di lei richiudersi come petali infastiditi dal freddo della notte. Rimase in silenzio, nonostante averlo contraddetto avesse riacceso la sua aurea di ostilità. Diane si chiese se prima o poi l’avrebbe visto calmo e rilassato, o se si facesse di testosterone. Non era possibile che fosse costantemente arrabbiato. –Immagino tu sia qui perché vuoi scoprire cosa so di quella notte- disse, percependo il calore di un solitario raggio sbucare dalle fronde degli alberi e colpirla. Solo in quel momento si accorse di avere le mani gelate.
-Immagini bene- rispose e attese che continuasse.
-Non so cosa sia successo esattamente ad Hilary- gli disse. –So solo che non è la prima volta che gira quella roba a una festa di Thomas. Non credo, però, che l’abbia portata lui, è solo un’idiota che non capisce dov’è il limite.-
Le sopracciglia di Mark scattarono in alto in un’espressione poco convinta. -A che gioco stai giocando?- sbottò deluso. –Sai o non sai qualcosa?-
-Potrei- rispose sibillina.
-Un “potrei” non è una risposta sufficiente- replicò brusco. La sfida silenziosa che le lanciò fu facile da sostenere, all’inizio. Non si sentiva affatto in debito con Mark né sentiva che si meritasse la sua completa sincerità. Era un attaccabrighe sempre nervoso e scortese, e probabilmente se Lee l’avesse vista in sua compagnia l’avrebbe afferrata di peso e portata a distanza di sicurezza. Tutti le avrebbero detto di non aver niente a che fare con Mark Hansen, ma lei non era tutti. Sospirò e alzò gli occhi al cielo. –No- rispose scocciata. –Ho solo usato la logica. Tu sei cugino di Hilary, Hilary è in ospedale dopo aver assunto cocaina a una festa e la festa era di Thomas. E’ logico che tu l’abbia attaccato per cercare vendetta. Tutto qui.-
-Mi hai solo fatto perdere tempo- mormorò irritato. –Dammi le chiavi e sparisci.-
-Ecco, a tal proposito- lo contraddette di nuovo, facendogli ritirare un’altra volta la mano. Lee l’aveva avvertita, non è saggio giocare con un Hansen, tanto meno quello con chiari problemi di gestione della rabbia. Tuttavia continuò imperterrita. Era la sua unica possibilità. –Avrei una proposta da farti. Io te le ridò, se tu mi lasci parlare con Hilary per un quarto d’ora … da sola.-
-Scordatelo- replicò secco.
-Mi sembra inutile specificare che la moto non è più dove l’avevi lasciata ieri sera, nel caso te lo stessi stupidamente domandando- continuò con una tranquillità che irritò ulteriormente Mark.
-Dimentichi chi sono? Me ne posso comprare altre cento.-
-Io non credo- la risposta pronta fu il colpo che fece scattare la mina su cui aveva appoggiato il piede. Mark fece un passo avanti, sfruttando il suo metro e novanta per farle sapere che aveva altre armi da sfoderare, mentre lei solo parole e minacce. Diane trattenne l’impulso di allontanarsi e sopportò con tenacia il suo sguardo glaciale. -Sei un Hansen- continuò, cercando di mantenere un tono fermo,- ma del ramo sbagliato della famiglia. Tu dipendi in tutto e per tutto da tuo zio, il padre di Hilary, e non mi sembri il tipo da andare a lamentarti per aver perso una moto. Non faresti certo un bella figura, non ti pare?-
-Hai fatto ricerche su di me?- le domandò con voce così bassa da sembrare un ringhio.
-Io ci ho provato con le buone, ma non hai voluto starmi a sentire- replicò. Mark strinse i denti, e le ossa della mandibola misero in risalto la sua mascella scolpita. Aveva una bellezza sporca, che non risaltava in un volto sempre così scuro e ancor più indurito da tratti marcati. Nessuno sarebbe stato invogliato a rivolgergli la parola per il semplice fatto che non permetteva ad anima viva di avvicinarsi. Solo da così vicino Diane poté studiarne bene i lineamenti e riuscì a trovare delle somiglianze con la cugina. Hilary era la ragazza più bella che avesse mai visto, eterea ed elegante, e anche lei non sapeva di esserlo.
-Dieci minuti, e se dopo non mi ridai le chiavi me la riprendo da solo, visto che so dove le tieni- replicò, indicando con un cenno la tasca in cui nascondeva ancora la mano.
-Affare fatto!- cinguettò Diane, ignorando la sottile minaccia. –Tu hai qualche impegno questa mattina?-

***

L’aria profumava di primavera e il cielo invocava l’estate quando Diane arrivò di fronte alla clinica Serendipity. Non aveva più freddo, anzi, rimpiangeva di non aver indossato dei pantaloncini visto l’inizio già afoso della giornata, quando l’aria condizionata della hall le dimostrò di aver fatto involontariamente una scelta oculata. Sorrise soddisfatta, mentre si avvicinava alla segretaria che il giorno prima l’aveva trattata come un’appestata. Stesso rossetto, stessi artigli che si muovevano ticchettando sui tasti del computer, e stesso sguardo seccato.
-Mi sembrava di essere stata abbastanza chiara ieri- le disse stringendo le labbra in un’espressione contrariata. –Lei non può entrare.-
Diane addolcì il viso. Anche senza voltarsi sapeva che Mark, una volta pagato il taxi, l’avrebbe raggiunta e capì di averlo alle spalle quando la donna fremette sulla sedia. Rimase ad osservarla mentre nervosa cercava nell’elenco degli autorizzati il nome di Mark, pur avendolo già visto e nonostante il suo aspetto rivelasse senza ombra di dubbio la sua identità. Mark sbuffò infastidito per quella noia burocratica, con Diane accanto che si godeva la vittoria sorridendo sardonica. L’antipatia della segretaria per lei non sarebbe bastata ad impedirle di entrare, e dopo due minuti, sfoggiando un sorriso tirato, diede loro il permesso di passare.
La stanza di Hilary era al terzo piano, nel reparto di terapia intensiva. Dopo un breve e silenzioso viaggio in ascensore e lo scontro con il tipico odore ospedaliero che impregnava anche i muri, Diane si ritrovò impietrita di fronte a una porta di colore blu, con il naso che era diventato insensibile.
-Allora?- le chiese Mark, vedendola esitare. Diane si scosse e abbassò la maniglia. Quando entrò, si lasciò alle spalle la luce e la frenesia delle corsie per immergersi nella semioscurità. Le tende tirate impedivano al sole di entrare, creando un’atmosfera cupa, più che soffusa, e l’aria era resa pesante dal riscaldamento alzato. Nel letto al centro della stanza, sotto un lenzuolo di cotone bianco, c’era una figura minuta e magra. Hilary condivideva con il cugino lo stesso colore ipnotico degli occhi, di un azzurro cristallino, ma le lunghe ciglia nere li rendevano più dolci, anche se la sua sorpresa non era sicuramente celata.
-Ciao, Hilary. Ti ricordi di me? Sono Diane. Come ti senti?-
-Diane?- La forma ovoidale del viso e le labbra ben modellate le conferivano l’aspetto di una bambina troppo cresciuta. Solo che quelle labbra erano secche e trascurate, e le guance pallide, prive di vitalità. I segnali delle macchine che circondavano il suo letto resero Diane ancor più tesa e preoccupata. Forse era troppo presto.
-Io … ho chiamato io l’ambulanza quella sera- le disse, sperando che la sua rivelazione non la turbasse troppo. I grandi occhi di Hilary ebbero un guizzo e si rattristarono, ma subito dopo tornarono a posarsi su di lei incuriositi.
-Sei tu che hai detto alla dottoressa Stevens quella frase? Quella della promessa?- le domandò. Diane annuì sorridendo. –Perché non sei venuta ieri?-
-Ah. Bè, è una storia complicata- rispose. Ripensando a quello che aveva appena fatto, non ne andava più molto fiera: ricattare le persone non è esattamente un’azione nobile. –Neanche adesso dovrei essere qui, ho solo pochi minuti.-
-Io non ricordo niente di quella sera- le disse, tornando a spegnersi. –Mi dispiace, non so che promessa io ti abbia fatto, ma sono sicura che potremo ringraziarti nel modo che preferisci.-
Quando Diane colse il significato delle sue parole ci rimase talmente male che si avvicinò e le sfiorò una mano. Il saturimetro aveva rovinato la pelle liscia andando ad arrossare la zona in cui l’ago si inseriva in vena. Hilary sussultò al suo tocco, facendo oscillare la sacca di glucosio, ma non si ritrasse. Rimase ad osservarla sorriderle con gentilezza. 
-La promessa l’ho fatta io a te- le disse. –E intendo mantenerla. Ti ho promesso che non ti avrei lasciata da sola.-
L’immagine di Hilary che pian piano perdeva conoscenza le comparve di fronte agli occhi e le sembrò di cadere in uno degli incubi che da quella notte la tormentavano. I lunghi capelli corvini sparpagliati sul pavimento, il sudore che le appiccicava la frangia sulla fronte e il pallore cadaverico le avevano fatto credere di essere arrivata troppo tardi; ma poi aveva visto i grandi occhi azzurri spostarsi verso di lei e le labbra aperte, in un grido di aiuto che non era riuscita nemmeno a pronunciare, si erano mosse, implorandola di non lasciarla sola. Diane aveva promesso e le aveva tenuto la mano finché i paramedici l’avevano fatta allontanare per portarla via in ambulanza. Pensava che sarebbe morta prima di arrivare in ospedale, invece Hilary era di fronte a lei e la guardava con gli occhi lucidi.
Mark ebbe almeno l’accortezza di bussare prima di spalancare la porta ed entrare. -Ora devi andartene.-
-Troverò un modo, Hilary- continuò, sentendosi poi afferrare per un braccio. La ragazza si mosse dal letto, pregando Mark di fermarsi, ma il cugino non l’ascoltò e trascinò via Diane. Una volta fuori le si avvicinò con fare intimidatorio, ma questa volta non trovò resistenza. Diane infilò una mano in tasca e gli porse le chiavi.
-E’ dove l’avevi lasciata, non mi sognerei mai di salire su quell’affare- gli disse. –Grazie per la comprensione. Come sempre, gentilissimo.-
 Diane se ne andò senza dargli il tempo di risponderle o di fare i suoi strani giochetti con lo sguardo. Aveva visto e sentito fin troppo, così tanto da non darle nemmeno il tempo di arrivare fuori dalla clinica prima di mettersi a piangere. Hilary era stata ad un passo dal non esistere più, e sarebbe stata colpa sua. L’aveva vista farsi convincere ad arrotolare la banconota da un dollaro, tra le risate divertite dei più esperti che la iniziavano a quel gioco pericoloso di cui non si conosce l’esito. L’aveva guardata piegarsi verso la strisce bianca e aspirarla con la cannuccia improvvisata, suscitando cori di approvazione. Chiamare l’ambulanza non l’avrebbe redenta. Tenerle la mano mentre andava incontro alla morte non l’avrebbe assolta. Perché lei sapeva i rischi, lei che da un anno passava le giornate a contatto con quella polvere bianca, dall’aspetto innocuo della farina ma più velenosa dell’arsenico. Le faceva lei le analisi nel laboratorio di tossicologia forense di ciò che rimaneva di chi ne rimaneva ucciso, per dare una diagnosi di morte scontata a quelle persone corrose anche esternamente da pochi grammi di polvere, e non aveva fermato Hilary.

***

Reazione di ipersensibilità, questo era successo ad Hilary. Lo aveva capito un secondo dopo averla vista impallidire e accasciarsi sul divano, mentre tutti attorno a lei scappavano e facevano sparire ogni traccia di cocaina. Una reazione rara e insolita, ma non tanto da non essere riportata sui libri che aveva studiato. Imprudente e negligente verso quello che sarebbe voluto essere, ipocrita e insensibile per la brava persona che credeva di essere. C’era voluta una tragedia sfiorata per farle aprire gli occhi.
-Dove diavolo l’hai presa?- Thomas giaceva sconsolato nel suo letto a sole due camere di distanza da quella di Diane nel dormitorio del campus. Come si aspettava, non era andato in laboratorio di chimica forense conciato in quello stato. Avrebbe perso almeno due settimane di tesi inventandosi una scusa qualsiasi e approfittando della debolezza che il loro professore aveva per il sorridente e strafottente Finneran. Thomas si tirò su a sedere, senza neanche avere la decenza di indossare dei pantaloni, ma rimanendo in boxer e mostrando, con un certo orgoglio, le sue ferite. L’occhio nero, ancora troppo gonfio per riuscire ad aprirlo, era messo meglio del livido che gli copriva metà della spalla destra.
-Di cosa stai parlando?- le chiese.
-Lo sai benissimo- replicò con un sibilo. –Dove hai preso la cocaina?-
Il suo famoso sorriso, anche questa volta, gli fece da scudo. Con una mano si scompigliò i capelli che sembravano aver rubato la luce al sole, tanto erano biondi, e la sua aria innocente creò l’incantesimo di protezione che da sempre gli permetteva di passarla liscia. Nessuno avrebbe dato la colpa a una persona così ingenua, o stupida, a seconda dei punti di vista. –Ah, quella. Non ho idea di come sia finita qui dentro.-
-Smettila di prendermi in giro.- Diane ruppe il sortilegio e smascherò il vero volto di chi l’aveva lanciato. Più osservava la vendetta dell’Hansen marchiata sulla pelle chiara di Thomas, più si rendeva conto che non sarebbe stata sufficiente. Non si pentiva di aver nascosto la verità a Mark, ma ora la responsabilità di quanto era accaduto pesava come un macigno sulle sue spalle. Thomas non si sarebbe fatto spaventare da un po’ di dolore fisico, aveva fatto a botte così spesso da aver perso il conto; no, Thomas era spaventato solo da una cosa, i legami.
-Sono andata a trovare Hilary- gli disse. –Lo sai che è un miracolo se è viva?-
-Non l’ho costretta io- replicò.
-No, ma sei tu che hai rubato la cocaina dal laboratorio per una stupida festa!- esclamò cercando di non urlare. Se l’avessero sentita sia lei che Thomas avrebbero rischiato molto di più che l’espulsione dalla più prestigiosa università di Darbydale.
-Non ho fatto niente del genere.- All’ulteriore resistenza di quello che fino a qualche giorno prima considerava un amico, oltre che un collega, Diane non riuscì più a trattenersi. Bastarono pochi passi per raggiungerlo e mettergli di fronte al naso la prova che stava mentendo.
-Ho controllato- cominciò a spiegare, mentre Thomas leggeva il foglio che gli aveva messo in mano. Tutto ciò che c’era scritto erano due misure, due pesi, per la precisione. –Tu hai rubato della cocaina da un carico sequestrato due settimane fa. La matematica non è un’opinione, Thomas, qui mancano duecento grammi, ed eri tu che ti stavi occupando delle analisi. Dimmi adesso, quali conclusioni dovrei trarre se non che li abbia presi tu?-
 Thomas fissò il pezzo di carta come se sperasse che si incenerisse. Messo all’angolo, non sembrava altro che un bambino capriccioso che si intestardisce e non vuole ammettere di aver sbagliato. –Lo sai che non lo dirò a nessuno.- La rassicurazione di Diane arrivò inaspettata, e il profondo occhio blu del ragazzo si posò su di lei come se lo stesse salvando dall’affogare. –Ma una ragazza è finita in ospedale per colpa tua, è quasi morta. Ti rendi conto di cosa vuol dire? Potevi ucciderla!-
Thomas sussultò. Era irresponsabile, testardo ed infantile, ma non insensibile. Se c’era qualcuno che aveva conosciuto la sofferenza, quello era lui. –Mi dispiace, Diane- le disse con voce debole. –Non so perché faccio queste cose, non so perché non penso mai alle conseguenze. Come sta Hilary? Si riprenderà?-
-Adesso te ne importa?- gli chiese velenosa.
-Me n’è sempre importato. Ho provato ad andare a trovarla, ma non mi hanno lasciato salire. Mark è poi venuto a spiegarmi il motivo per cui ero indesiderato, e non posso che dargli ragione.-
Diane sospirò e scosse la testa. -Sta bene- gli rispose, e vide il sollievo distendergli i tratti del viso. –Ma credo che quella ragazza abbia bisogno di aiuto. Quanto uscirà dall’ospedale tu andrai a trovarla e le chiederai scusa.-
-Non credo sia una buona idea- rispose, tornando a incupirsi. –Non vedi? So solo far del male alle persone. Mi merito il doppio, di questi lividi.-
-Già, Mark non avrebbe dovuto trattenersi visto l’immensità della tua idiozia.-
-Non posso vedere Hilary, non posso rischiare di farle ancora del male. Lei è così … pura. Cosa potrei mai fare io per farla stare meglio? L’unica cosa che potrei fare è rovinarla.-
-Devi, Thomas, o non imparerai mai.-
-Fallo tu per me, almeno finché non trovo la forza di cambiare. Ti prego, Diane, non lasciarmi da solo, aiutami.-
Diane rientrò nella sua stanza di due metri per due che distava un solo piano da quella di Thomas e si appoggiò alla porta appena chiusa con un sospiro. Sentirsi soli in un dormitorio universitario è difficile, ma quella sera si sentiva più sola che mai. Due promesse, due pesi, due debiti che aveva stretto senza sapere se sarebbe riuscita a colmarli. Un segreto pericoloso, che rischiava di rovinare tutto ciò che aveva costruito con tanta fatica se solo fosse uscito da quelle mura di cartongesso, così leggere, fragili e inaffidabili. Delle mura a cui bastava appoggiare un orecchio per sentire tutto della vita privata del proprio vicino. Diane lo sapeva, ma la stanza di Thomas era isolata: da una parte la fine del corridoio e dall’altra una stanza vuota che nessuno voleva a causa delle abitudini chiassose del console della Derbydale University.
Almeno fino a quella mattina.







Sperando che questo capitolo crei un po' più entusiasmo del primo, vorrei precisare che l'aggiornamento lampo non sarà la regola, anzi, probabilmente l'intervallo di aggiornamento sarà di settimane, a seconda degli impegni.

Visto che siamo entrati un po' più nel vivo della storia, mi preme sapere che sia tutto chiaro (almeno quello che dev'esserlo) e che i personaggi non si confondano l'uno con l'altro! Diane studia per diventare tossicologa forense così come Thomas, ed entrambi sono all'ultimo anno di università. Mark e Hilary sono cugini e fanno parte di una delle famiglie più importanti di Darbydale. Su di loro si scoprirà di più nei prossimi capitoli.

Piccola anticipazione: nel prossimo farà il suo ingresso il più affascinante e tenebroso dei personaggi!

A presto,

Nereides
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Nereides